SCIENZA E RICERCA

Terza dose, efficacia dei vaccini e trasmissibilità della variante Delta

La Food and Drug Administration statunitense ha da poco dato il semaforo verde alla piena approvazione del vaccino contro COVID-19 prodotto da Pfizer-BioNTech e destinato a individui dai 16 anni in su. Oltre ad essere la piena approvazione di un vaccino più veloce della storia, consente sia ai settori privati sia al pubblico di richiedere la vaccinazione come requisito per svolgere alcuni lavori. Resta autorizzato solo all’uso emergenziale invece quello dai 12 ai 15 anni, mentre il 12 agosto l’agenzia sanitaria statunitense ha anche autorizzato la somministrazione di una terza dose di vaccino (Pfizer o Moderna) per individui immunocompromessi.

A partire da inizio luglio infatti, quando si registravano circa 13.000 casi al giorno, gli Stati Uniti hanno assistito a una rapida risalita della curva dei contagi, che sul finire del mese di agosto ha raggiunto quota 150.000 casi giornalieri. La campagna vaccinale di Washington ha raggiunto con almeno una dose il 60% della popolazione (su un totale di quasi 330 milioni di abitanti), mentre con la piena protezione circa il 51%. Già a inizio agosto, ai microfoni della ABC, Anthony Fauci ammoniva che a forte rischio di contagio erano circa 100 milioni di persone che non si sono ancora sottoposte alla vaccinazione. Fauci ha dichiarato che l’aumento dei contagi è guidato principalmente da individui non vaccinati che entrano in contatto con la variante Delta ormai divenuta dominante, ritenuta il 40% almeno più contagiosa della variante Alfa e addirittura oltre due volte più infettiva del ceppo individuato per la prima volta a Wuhan.

La necessità di raggiungere la fascia non vaccinata della popolazione è dunque prioritaria, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. Mediamente, quasi il 60% degli abitanti dei Paesi benestanti ha ricevuto almeno una dose di vaccino, mentre questo valore a metà agosto era fermo a 1,3% nei Paesi a basso reddito, riporta Nature.

Terza dose?

La somministrazione di una terza dose a una certa categoria di individui fragili oltre che dagli Stati Uniti è stata presa in considerazione anche da Germania, Francia e Regno Unito. Israele addirittura ha già iniziato a somministrarla (con Pfizer) agli over 50. Se per le persone immunocompromesse in alcuni casi può esserci una ragione scientifica dietro il terzo richiamo, non sono ancora disponibili solidi dati che ne supportino i benefici per tutta la popolazione. Questo genere di decisione quindi è stata criticata proprio dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha fatto notare che prima di fornire un’altra dose agli abitanti dei paesi benestanti, bisognerebbe far arrivare i vaccini alle popolazioni dei Paesi a più basso reddito per raggiungere il prima possibile una soglia minima di copertura di almeno il 10%.

Un calo di efficacia dei vaccini?

Ciò che spinge i Paesi ricchi verso una terza dose però è il timore che con il passare del tempo la protezione indotta dalle prime vaccinazioni possa scemare. Un'altra ondata pandemica sarebbe un duro colpo per la loro ripresa economica. Non solo negli Stati Uniti, ma anche in Israele, che la scorsa primavera si era abituato a vedere meno di 100 nuove infezioni al giorno, la curva dei contagi è risalita arrivando a più di 7.000 casi al giorno. In Italia siamo passati dai meno di 1000 casi giornalieri di inizio luglio a più di 6.000 a metà agosto.

Israele era stato tra i Paesi più veloci a somministrare le prime dosi di vaccino, specialmente Pfizer: tra dicembre 2020 e fine marzo 2021 era stata vaccinata la maggior parte della popolazione. Oggi tuttavia la percentuale di israeliani vaccinati è in linea con quella di altri Paesi (tra cui l’Italia) e si assesta intorno al 70% con almeno una dose, mentre con due dosi al 63%. Quasi un terzo della popolazione israeliana quindi risulta ancora non vaccinata.

Uno studio condotto nel Regno Unito e pubblicato in preprint il 19 agosto ha provato a far chiarezza sull’efficacia dei vaccini contro Delta. I risultati confermano ciò che si sapeva da precedenti studi, ovvero che la doppia dose è altamente efficace contro il virus: il 92% di coloro che hanno ricevuto Pfizer non sviluppa cariche virali elevate 14 giorni dopo la doppia somministrazione e altrettanto fa il 69% di coloro che hanno ricevuto AstraZeneca. Passati tre mesi però la percentuale cala al 78% nel caso di Pfizer e al 61% nel caso di AstraZeneca. Il calo sembra esserci, ma secondo la ricercatrice Sarah Walker autrice del lavoro, non deve suscitare allarme: il ciclo vaccinale completo continua a prevenire efficacemente le forme gravi della malattia anche nel caso si contraesse la variante Delta.

La trasmissibilità di Delta

Tuttavia, lo studio ha anche trovato che rispetto alla variante Alfa, Delta sembra in grado di far sviluppare un’elevata carica virale (ovvero grandi concentrazioni di virus rinvenute nei test) anche ad almeno una parte delle persone vaccinate che contraggono l’infezione, pur non sviluppando forme gravi della malattia.

Precedenti studi compiuti in Israele, quando ancora era dominante la variante Alfa, avevano suggerito che i vaccini Pfizer-BioNtech fossero in grado di abbattere non solo il numero di nuovi casi giornalieri, ma anche la trasmissione del virus da individuo a individuo. Ora nuovi studi suggeriscono che una parte degli individui vaccinati che contrae l’infezione, pur non ammalandosi in modo grave, è capace di alimentare la trasmissione dell’infezione proprio per via dell’alta carica virale provocata da Delta.

Continuare a munirsi, nei luoghi in cui ne è previsto l’utilizzo, di sistemi di protezione come mascherine e misure di distanziamento sarà quindi fondamentale anche in questa fase della pandemia.

Delta e i vaccinati

È difficile tuttavia fare stime precise di quale possa essere il ruolo dei vaccinati nella trasmissione del contagio. Allo Houston Methodist Hospital in Texas ad esempio, dove hanno analizzato quasi ogni caso di Covid-19, hanno trovato che da marzo 2021 il 17% dei pazienti colpiti da Delta era vaccinato. Uno studio compiuto a Singapore ha anche trovato che i vaccinati che contraggono la variante Delta hanno sì una carica virale simile ai non vaccinati ma rimangono contagiosi per meno tempo: la carica virale scendeva infatti dopo 7 giorni nelle persone vaccinate. Uno studio più ampio, condotto su 100.000 persone dall’Imperial College di Londra, trova però che tra coloro che contraggono il virus la carica virale sia in media più bassa nei vaccinati rispetto ai non vaccinati. Quest’ultima sembra un’ulteriore conferma, laddove ce ne fosse ancora bisogno, che il ciclo vaccinale completo sia l’arma di difesa migliore contro la variante Delta.

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