CULTURA

La tutela dei beni culturali nell'Italia che vorremmo

Quando si parla di Italia che vorremmo, non possiamo dimenticarci dell'Italia che fisicamente vorremmo, di quei monumenti tangibili e reali che abbiamo e che dovremmo proteggere, e di come vorremmo che fossero trattati. I beni culturali fanno parte di una memoria storica che non dobbiamo essere disposti a perdere, costituiscono risorse uniche e non rimpiazzabili che solo un determinato Paese possiede; e se c'è qualcosa di cui gli italiani possono vantarsi, questo è sicuramente il patrimonio culturale che hanno avuto la fortuna di ereditare in secoli di storia.

In Italia, infatti, si trovano ben 55 siti UNESCO, record mondiale al pari della Cina (il cui territorio è 30 volte più esteso di quello italiano), e 61 luoghi tutelati dal FAI. Sono luoghi che raccolgono secoli di storia, cultura e tradizioni, e il cui valore va ben oltre la loro bellezza.

La valorizzazione dei beni culturali presuppone prima di tutto la loro tutela, che sta nel loro riconoscimento, nella conservazione, la protezione e il restauro. Preservare fisicamente i beni culturali è certamente il primo passo, ma non deve mancare di certo la possibilità della fruizione di questi beni artistici. Promuovere la cultura vuol dire anche diffondere la conoscenza del nostro stesso patrimonio culturale, in linea con ciò che recita l'articolo 9 della nostra Costituzione.

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione

Nonostante ciò, ci sono senza dubbio delle problematiche nella tutela di questo patrimonio. A riguardo viene in mente lo spot del FAI di qualche anno fa.

Sono ancora molti, infatti, i siti di grande valore storico e culturale che sono abbandonati a loro stessi da molti anni, che richiedono un degno restauro e una giusta valorizzazione. Ville, abbazie, giardini abbandonati e altri luoghi che hanno un grande potenziale purtroppo sembrano essere stati dimenticati. Lo stato italiano è tra i paesi europei che stanzia meno fondi destinati alla cultura, e il risultato è che numerosi edifici storici che potrebbero essere restaurati e riportati a nuova vita restano inagibili e dismessi.

È questo l'argomento che abbiamo affrontato con Stefano Zaggia, professore di storia dell'architettura all'università di Padova, partendo proprio dal discorso sulla conservazione del patrimonio architettonico italiano.

“Il recupero di strutture architettoniche è diverso e forse più delicato rispetto a quello di un dipinto o di una scultura, i quali possono più facilmente essere musealizzati e protetti, posizionandoli in un luogo sicuro. Per quanto riguarda gli edifici, invece, se non hanno una funzione, il rischio è che diventino impossibili da recuperare e da mantenere. Come si possono recuperare, per esempio, un giardino o una villa, al giorno d'oggi che le modalità del vivere sono cambiate?”

Questa non è l'unica questione da risolvere quando si tratta di riportare a nuova vita uno spazio o un edificio abbandonato. In prima linea si pone sempre il delicato problema del reperimento di finanziamenti. Quali sono le differenze quando si tratta di tutela di edifici di proprietà privata e di beni architettonici di proprietà dello stato?

“Per quanto riguarda i complessi architettonici di proprietà dei privati, potremmo dire che l'obbligo di conservarlo e restaurarlo c'è, ma fino a un certo punto, nel senso che chiaramente non si può obbligare qualcuno a fare un intervento se non ne ha i mezzi, perché ci sono casi di persone che possiedono una villa o un castello che versano in stato di abbandono o di degrado ma non hanno i mezzi per restaurarlo. In tal caso è impossibile obbligare il privato a investire, e d'altra parte, le forme di finanziamento da parte dello Stato sono molto limitate quando l'edificio è di proprietà privata. Inoltre, c'è la questione del vincolo di natura giuridica che può essere posto su un edificio, per cui qualunque modifica deve essere sottoposta a un controllo. In questi casi, per ristrutturare serve fare una richiesta specifica e studiare un progetto da presentare alla sovraintendenza competente che esercita la tutela sul bene in questione (ovvero lo Stato, le sovraintendenze regionali o provinciali o i segretariati regionali) e che quindi verifica tutta la conformità degli interventi volti al mantenimento e all'integrità del bene. Se invece il bene è pubblico allora il discorso è diverso”, continua Zaggia. “Se un edificio è di proprietà pubblica, come un museo o un istituto, è l'amministrazione che la possiede, per esempio il Comune, che si dovrebbe far carico dell'intervento, e lì si apre la questione delle risorse. Il tessuto dei beni culturali in Italia è molto articolato, perché è fatto non solo dall'oggetto, dal capolavoro isolato, ma anche dai contesti. Quindi abbiamo anche delle opere considerate impropriamente “minori” che andrebbero conservate e seguite con le stesse cautele, ma per la tutela delle quali si fa fatica a ottenere il finanziamento. Rispetto al patrimonio che possediamo in Italia, quindi, le risorse sono sempre molto limitate, ce ne vorrebbero sicuramente di più”.

Tornando all'articolo 9 della nostra Costituzione, per parlare di tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico del paese, vanno senza dubbio tenute in considerazione le modalità di conservazione e di valorizzazione dei beni culturali stessi.

Proteggere il bene nello stato attuale in cui ci è giunto, per trasmetterlo alle generazioni future. Conservazione significa questo, nel senso che chi verrà dopo potrà fruirne. Tutte le opere hanno una vita, il tempo stesso le degrada. Noi abbiamo oggi strumenti per proteggere anche opere delicatissime, come i famosi dipinti della grotta di Lescaux, dove non si possono permettere visite, perché la presenza delle persone altera il microclima. Anche nella stessa Cappella degli Scrovegni è fatto un grande lavoro per filtrare l'aria il più possibile e frenare il naturale degrado. Chiaramente anche questa è una spesa”.

Per quanto riguarda, invece, il concetto di valorizzazione del patrimonio culturale, di cosa si parla esattamente?

“La valorizzazione è un punto molto delicato”, spiega Zaggia, “è uno dei temi sui quali ci si scontra continuamente, perché si tratta di distinguere tra la valorizzazione da un punto di vista più economico, che vuol dire mettere un certo bene 'a reddito', oppure rendere disponibile per la cittadinanza quel bene più in un senso culturale. Valorizzazione potrebbe anche significare che le opere che abbiamo in Italia vengono prestate e mandate all'estero. A volte si parla di una valorizzazione intesa semplicemente come far soldi, utilizzare ciò che in passato è stato detto il petrolio d'Italia, facendo rendere questi beni con un business plan ben studiato”.

Di fronte a queste due possibilità di intendere la valorizzazione, cioè in senso economico e in senso culturale, a quale delle due dovrebbe essere data la priorità, nel Paese che vorremmo?

“Chiaramente, se dovessi dirlo io, la priorità l'avrebbe la valorizzazione sul piano culturale”, commenta Zaggia. “Mettere le nostre opere a disposizione della conoscenza in modo tale da contribuire alla crescita cultuale del Paese. La mia opinione sarebbe questa, però bisogna rendersi conto che ci sono anche dei costi, degli investimenti da fare, per cui l'ideale sarebbero delle forme di 'valorizzazione intelligente'. È necessario quindi un equilibrio tra questi due aspetti anche perché un rischio da non sottovalutare è quello di trovarsi con un consumo, una usura di questi beni. Valorizzazione, infine, significa anche coinvolgimento e sensibilizzazione dei cittadini in senso più ampio, perché le attenzioni da parte degli abitanti del Paese che potrebbero favorire il recupero di risorse opportune”.

Per concludere, ricordiamo le parole dello studioso Tomaso Montanari, che sull'articolo 9 della Costituzione ci ha scritto un intero saggio.

Ciò che si voleva salvare, ricostruendolo, non era solo un cumulo di pietre, e nemmeno un’astratta bellezza: il ‘patrimonio’ che era in gioco era, letteralmente, il retaggio dei padri, l’eredità delle generazioni che ci hanno preceduti. Potremmo dire, riprendendo e ampliando la metafora ruskiniana sul paesaggio, che il patrimonio delinea le fattezze del ‘volto della patria’: i costituenti dicono, infatti, con straordinaria lucidità ciò che spesso gli stessi storici dell’arte dimenticano, e cioè che il patrimonio non è la somma amministrativa dei musei, delle singole opere, dei monumenti, ma è una guaina continua che aderisce al paesaggio – cioè al territorio ‘della Nazione’ – come la pelle alla carne di un corpo vivo. Il patrimonio diffuso è la forma dei nostri luoghi, è una indivisibile fusione tra arte e ambiente, è un tessuto continuo di chiese, palazzi, strade, paesaggio, piazze. Non una specie di contenitore per ‘capolavori assoluti’, ma proprio il contrario, e cioè la rete che congiunge tante opere squisitamente relative, e che hanno davvero un significato (artistico, storico, etico, civile) solo se rimangono inserite in quella rete. Il paesaggio e il patrimonio sono dunque un’unica cosa: e sono l’Italia, della quale costituiscono, inscindibilmente, il territorio e l’identità culturale.

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