SOCIETÀ

Vaccini in Europa: una storia di solidarietà, multinazionali, brevetti e burocrazia

Dopo i ritardi nella consegna delle dosi vaccinali di Pfizer e Moderna all’Unione Europea, anche AstraZeneca ha annunciato un taglio del 60% delle consegne nel primo trimestre (da 80 a 31 milioni). L’agenzia Reuters ha poi riportato che l’azienda farmaceutica anglo-svedese avrebbe dimezzato anche quelle previste per il secondo trimestre (da 180 a 90 milioni), anche se poi Lorenzo Wittum, amministratore delegato e presidente di AstraZeneca Italia, ha smentito la notizia confermando che l’impegno di fornire 180 milioni di dosi all’UE entro giugno, di cui 20 milioni all’Italia, sarà rispettato. Anche riguardo al primo trimestre per l’Italia ci sarà una correzione del tiro: 5 milioni di dosi invece dei 3,4 attesi dopo l’annuncio dei ritardi, ma in ogni caso meno degli 8 milioni inizialmente concordati.

Tutte le aziende sostanzialmente si sono giustificate facendo riferimento alle difficoltà incontrate nei complessi processi di trasferimento tecnologico ai siti produttivi e assicurando di star intervenendo per aumentare le capacità produttive.

Lo scorso 25 febbraio il presidente del consiglio italiano Mario Draghi ha presenziato al suo primo Consiglio Europeo. Tutti i leader dell’Unione si sono mostrati preoccupati della lentezza con cui procede la campagna vaccinale in Europa. L’obiettivo è quello di vaccinare il 70% della popolazione europea adulta entro la fine dell’estate, circa 255 milioni di persone. Prima del vertice UE sono state distribuite circa 51,5 milioni di dosi, ne sono state somministrate poco meno di 30 milioni, raggiungendo un tasso di vaccinazione (inteso con almeno una dose iniettata) del 7% circa. Secondo Our World in Data, Israele ha già superato il 90%, gli Emirati Arabi veleggiano verso il 60%, il Regno Unito verso il 30%, gli Stati Uniti hanno superato il 20%, il Cile il 16%. Della popolazione mondiale tuttavia è stato vaccinato meno del 3%.

Al Consiglio Europeo Mario Draghi è intervenuto sostenendo che “le aziende che non rispettano gli impegni non dovrebbero essere scusate”.

In termini analoghi si era espresso verso fine gennaio Charles Michel, presidente del Consiglio Europeo, in riferimento ai ritardi di Pfizer/BioNTech: “l’UE intende far rispettare i contratti firmati. Possiamo utilizzare a questo scopo tutti i mezzi giuridici a nostra disposizione”.

Di quali possano essere i mezzi giuridici a disposizione dell’Unione Europea per far rispettare alle aziende gli impegni presi abbiamo parlato con Bernardo Cortese, professore di diritto internazionale al dipartimento di diritto pubblico, internazionale e comunitario dell’università di Padova.

Il governo statunitense ad esempio dispone di uno strumento legislativo noto come Defense Production Act (DPA), che fa parte della Strategia nazionale per la risposta a COVID-19. Il presidente degli Stati Uniti ha indirizzato le agenzie governative competenti ad esercitare tutte le autorità in loro possesso, incluso il DPA, per accelerare la produzione, la consegna e la gestione e per sopperire agli ammanchi in categorie critiche di fornitura, tra cui mascherine, camici, guanti, tamponi, reagenti, macchinari di laboratorio, siringhe e “tutta la strumentazione e materiali necessari ad accelerare la produzione, consegna e gestione dei vaccini COVID-19”, si legge nel testo della Strategia nazionale statunitense.

In altri termini, il governo statunitense può avvalersi del DPA per sostanzialmente vincolare un'azienda statunitense alle necessità nazionali. Il DPA è stato proprio lo strumento utilizzato dal governo statunitense per favorire la collaborazione tra Merck e Johnson & Johnson: la prima abiliterà i propri stabilimenti per produrre il vaccino monodose della seconda, appena approvato dalla FDA .

Il ruolo della Commissione Europea

“Il DPA è uno strumento che risale ai tempi della guerra di Corea e può arrivare al limite alla requisizione delle imprese” spiega Bernardo Cortese. “Nulla di tutto questo però può essere fatto dall’Unione Europea. Nulla al di fuori dello stato di guerra consente azioni del genere. L’UE non è uno Stato e ha solo i poteri che gli Stati membri le attribuiscono attraverso i trattati e negli attuali trattati non c’è alcun potere di intervenire con gli strumenti emergenziali di cui dispone l’amministrazione statunitense. In materia di salute pubblica l’Unione Europea ha un mero compito di coordinamento di politiche nazionali e da giugno la Commissione si è sostituita ai singoli Stati nella negoziazione di contratti con le case farmaceutiche”.

A giugno 2020 quattro Stati europei (Italia, Francia, Germania e Olanda) avevano avviato le trattative proprio con AstraZeneca per un contratto di fornitura del vaccino sviluppato dall’università di Oxford. La Commissione Europea ha poi preso in mano la contrattazione per conto dei suoi 27 Stati membri, “anche e soprattutto per quelli che non avrebbero potuto negoziare condizioni ragionevoli” sottolinea Cortese, “ottenendo condizioni estremamente vantaggiose rispetto a quanto non avrebbero potuto fare i singoli Stati, anche quelli più grandi, soprattutto non avendo quei poteri coercitivi che potrebbe avere invece il presidente degli Stati Uniti”.

Il contratto firmato con AstraZeneca è stato reso pubblico. Secondo uno studio pubblicato su British Medical Journal, il vaccino AstraZeneca è costato all'UE circa metà del prezzo cui è costato agli USA e un terzo in meno del prezzo cui è costato al Regno Unito. Per il vaccino Pfizer, il risparmio per il contribuente UE è stato di circa un quarto rispetto a quello statunitense.

Il meccanismo di solidarietà ha un costo burocratico

Oltre che con AstraZeneca, la Commissione Europea ha firmato accordi con Pfizer/BioNTech, Moderna/NIH, Johnson & Johnson, Sanofi, CureVac e in un secondo momento anche con Novavax.

La strategia europea per le vaccinazioni si basata su un meccanismo di solidarietà. “È una strategia globale, o meglio continentale, che tra l’altro ha più efficacia nel contrastare l’epidemia” ricorda Cortese.

Questa scelta collegiale di solidarietà tuttavia, secondo un indagine di politico.eu, si sarebbe tradotta in un macchinoso processo burocratico che avrebbe sì ottenuto vaccini per tutti i cittadini europei a prezzi bassi, ma avrebbe al contempo sfavorito la velocità di intervento. Non va dimenticato che l’Europa si è presentata disunita di fronte alla prima ondata pandemica, tanto che la risposta unitaria del continente, sanitaria ed economica, si è delineata solo dopo lunghe discussioni tra gli Stati membri. Il meccanismo di debito condiviso del Recovery Fund da questo punto di vista è stata una rivoluzione, così come lo è stata la campagna vaccinale coordinata inaugurata il 27 dicembre scorso.

Tenere insieme le necessità di 27 Stati da un lato dà maggiore potere contrattuale: le richieste di 500 milioni di cittadini valgono di più di quelle di poche decine di milioni. Dall’altro però appesantisce le procedure.

Tuttavia, se ogni singolo Stato avesse negoziato con ciascuna casa farmaceutica un contratto, le aziende avrebbero potuto usare questa pluralità di domanda per strappare condizioni a loro favorevoli, mettendo uno Stato contro l’altro. La Commissione Europea ha invece attivato un meccanismo chiamato Emergency Support Instrument, partendo con un budget iniziale di 2,1 miliardi di euro, poi aumentato. Una volta stipulati i contratti le dosi sono state distribuite in modo proporzionale alle popolazioni dei 27.

“Questa è una grossa novità” fa sapere Cortese. “Si sono attivati dei mega appalti pubblici nel contesto di un’entità, l’UE, che non ha un suo diritto completo. Ovviamente l’UE ha un suo ordinamento giuridico, ma non è completo. Solitamente i contratti che l’UE firma con i privati sono contratti più modesti che servono ad esempio a far funzionare gli ascensori delle sedi istituzionali di Bruxelles. La novità ora è che vi è un rapporto tra pari: un gruppo multinazionale da un lato e un’Unione di Stati dall’altro. Questo consente di trattare alla pari con un gruppo multinazionale”.

Lo stesso governo degli Stati Uniti, fa notare Cortese, non potrebbe imporsi su una multinazionale anglo-svedese come AstraZeneca, al limite potrebbe farlo con aziende che hanno la produzione in territorio statunitense, sapendo però che anche loro sono multinazionali, che possono alzarsi da quel tavolo e andare a sedersi altrove a cercare migliori condizioni. “Tale è l’impresa tecnico-economica e tale è la dimensione della controparte che sarebbe impensabile applicare da parte di un singolo stato delle misure coercitive. Nessuno degli Stati avrebbe la forza di imporsi”, sostiene Cortese.

Il contratto con AstraZeneca

Da quanto si può apprendere dal contratto stipulato con AstraZeneca, vi sono condizioni innovative e peculiari, secondo Cortese. “L’Europa ha messo sul tavolo soldi, in ricerca avanzata e per facilitare lo sviluppo burocratico e amministrativo, in quantità tali che di fatto hanno eliminato il rischio di impresa. AstraZeneca, così come altre aziende che sono entrate in questi contratti, ha messo lo sviluppo tecnologico e la disponibilità di dosi a condizioni uguali per per tutti gli Stati europei. Ci sono poi clausole di garanzia pubblica per la responsabilità civile conseguente a eventuali effetti nocivi”.

Naturalmente quando è stato firmato il contratto non si aveva la certezza che il vaccino avrebbe tagliato il traguardo della produzione e della distribuzione. “Se un’impresa avesse dovuto ritirarsi dallo sviluppo del vaccino tutte le tappe intermedie sarebbero potute venire assegnate ad altri contraenti”.

Nonostante alcune difficoltà incontrate nel tragitto, il vaccino prodotto da AstraZeneca ha ricevuto l’autorizzazione all’uso dall’Autorità europea del farmaco (Ema) a fine gennaio 2021. La casa anglo-svedese però ha ridotto la consegna di dosi previste per il primo trimestre e mette in dubbio la capacità di rispettare gli impegni presi per il secondo. Del resto fa notare Cortese, “nel contratto è scritto che si farà il possibile per raggiungere il risultato”.

I contratti sono scritti in modo che possano venire adattati al variare delle circostanze, ma viene da pensare che l’aver sottoscritto tutti i dettagli quando ancora lo sviluppo del vaccino era in una fase molto incerta, possa aver portato a sottovalutare i dettagli, allora lontani, della fase di produzione e distribuzione. Di sottovalutazione del resto ha parlato lo stesso commissario agli affari economici Paolo Gentiloni.

Un'analisi che mette a confronto il contratto tra AstraZeneca e Unione Europea e quello tra AstraZeneca e Regno Unito infatti, pubblicata da politico.eu, rivela che l'Europa sembra aver concesso condizioni più morbide alla multinazionale anglo-svedese per quanto riguarda l'impegno a rispettare gli impegni siglati.

Ora una delle soluzioni che sono state proposte in sede di Consiglio Europeo è quella di impedire l’export della produzione. AstraZeneca però dichiara di non avere conflitti di produzione. “Ci sono sì state difficoltà organizzative e produttive da parte di AstraZeneca, ma è difficile immaginare, guardando il contratto, che le forniture siano state indirizzate ad altre destinazioni” commenta Cortese. “Nel contratto sono previsti controlli e se ciò dovesse saltar fuori sarebbe la morte commerciale per queste imprese. Un rischio troppo grande da prendere”.

L’altra soluzione che l’Europa mira a percorrere ora è quella di aumentare i siti produttivi nel vecchio continente. Una misura opportuna, ma forse tardiva, che si sarebbe potuta organizzare per tempo. “Con il senno di poi si sarebbe potuto pensare a un contratto che finanzi maggiormente chi arriva prima” suggerisce Cortese, “e che spinga il produttore a produrre in Europa”.

A tal riguardo la BioNTech ha già avviato la produzione del vaccino Pfizer nel nuovo impianto di Marburg, in Germania, che si aggiunge dunque a quello di Puurs in Belgio.

Produzione e brevetti

Nelle scorse settimane si è discusso molto dell’eventualità che i brevetti sui vaccini ostacolino l’ampliamento della produzione. Il brevetto ha la funzione di difendere la proprietà intellettuale di un’invenzione garantendo al titolare il monopolio per 20 anni su quel prodotto. In cambio di questa tutela, il titolare rende di dominio pubblico l’invenzione. Fintanto che detiene l’esclusiva, il titolare può concedere, dietro contrattazione, la licenza all’utilizzo a chi ne faccia richiesta.

La francese Sanofi ad esempio ha abbandonato lo sviluppo del proprio vaccino e ha puntato sulla produzione di quello di Pfizer/BioNTech, con cui ha stipulato un accordo. Lo stesso ha scelto di fare Novartis, che abiliterà i propri impianti in Svizzera alla produzione del vaccino a mRNA di Pfizer.

Se l’Unione Europea vorrà aumentare la produzione dovrà erogare altre risorse finanziarie, commenta Cortese. “Bisognerà sedersi al tavolo e negoziare un nuovo contratto con contributi pubblici in cambio di certe quantità di vaccini in certi tempi. Non si può certo dire le conoscenze sono mie perché ti ho pagato la prima volta. Non è pensabile dire tu fai la ricerca e il risultato me lo tengo io, il privato si alza e va a un altro tavolo. Il problema semmai è a monte ed è un limite legato a scelte decennali di investimento in ricerca pubblica. Io sono favorevole alla ricerca pubblica ma se la conoscenza ce l’hanno loro bisogna interagire con la ricerca privata. Gli Istituti Fraunhofer in Germania ad esempio costituiscono un modello di interazione strutturale con l’industria, in quel modo si ha un controllo della tecnologia”.

Tuttavia, tralasciando le problematiche relative al trasferimento tecnologico di piattaforme innovative come il vaccino a mRNA, i Paesi più poveri spesso non dispongono delle risorse finanziare necessaire a sostenere accordi per l’aumento della produzione anche laddove ne avrebbero bisogno.

Famoso è il caso del Sud Africa di Nelson Mandela che negli anni ‘90 doveva far fronte agli elevati tassi di infezioni da Hiv. I prezzi fissati dalle case farmaceutiche per i farmaci anti-retrovirali erano troppo alti. Mandela pertanto fece approvare una legge al congresso sudafricano che autorizzava le aziende del suo Paese a produrre farmaci contro l’Aids. Un nutrito gruppo di case farmaceutiche capitanate da Glaxo-Wellcome però avviò una denuncia alla World Trade Organization (WTO) contro il governo sudafricano, che fu intimato di bloccare la produzione, con conseguenti altissimi costi in vite umane.

Nel 2001 però le multinazionali ritirarono la denuncia e all’Assemblea del WTO a Doha quello stesso anno fu firmata la Dichiarazione di Doha, che stabilisce il diritto degli Stati di derogare a certe regole sui brevetti, in determinate condizioni come povertà e difficoltà economiche e di fronte a una pandemia che mette a rischio la vita dei propri cittadini.

Vennero pertanto inserite alcune clausole di garanzia all’interno dell’articolo 31 dei TRIPs (Trade Related aspects of Intellectual Proerty) firmati nel 1995 dalla WTO. In particolare, la clausola di garanzia sulle licenze obbligatorie stabilisce che in una situazione di pandemia e difficoltà economica i Paesi hanno l’autorizzazione a produrre direttamente i farmaci salvavita, scavalcando il brevetto.

A livello europeo è stata lanciata un’iniziativa, No Profit on Pandemic, che al primo punto della sua petizione chiede di “garantire che i diritti di proprietà intellettuale, compresi i brevetti, non ostacolino l'accessibilità o la disponibilità di qualsiasi futuro vaccino o trattamento contro la COVID-19”. Vittorio Agnoletto, politico, medico, attivista e accademico italiano, è il referente italiano dell’iniziativa, di cui ha parlato a inizio febbraio sul Sole24Ore.

Secondo Cortese tuttavia, la licenza obbligatoria ha condizioni d’uso che non sono date nel caso europeo. “Le case farmaceutiche non si rifiutano di produrre, stanno già producendo e a condizioni realmente eque. La licenza obbligatoria non è percorribile, perché non c’è diniego della fornitura, né costi insostenibili. Le nostre condizioni sono migliori di quelle stipulate dal Regno Unito”.

Non sarà semplice individuare la via da percorrere per far arrivare le dosi di vaccino necessarie a generare l'immunità di gruppo, ma è importante che la campagna vaccinale europea arrivi a regime al più presto, a qualunque costo: whatever it takes.

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