SCIENZA E RICERCA

Vaccini&Politica. I problemi ci sono ma non siamo in ritardo

“Non sono del tutto d’accordo con l’affermazione che la produzione dei vaccini sia in ritardo, perché il solo fatto che sia passato poco più di un anno tra l’inizio della pandemia e l’approvazione di diversi vaccini da parte dell’Agenzia europea per i medicinali (EMA) è un risultato eccezionale”. È netta Margherita Morpurgo, docente di tecnologie farmaceutiche presso l’università di Padova con una lunga esperienza nei laboratori di ricerca pubblici e privati, italiani internazionali. “Generalmente i tempi per arrivare a un nuovo vaccino sono molto più lunghi di un anno. Se oggi si parla tanto ritardi è per lo stesso meccanismo psicologico che ci fa percepire come infinite le ultime giornate di un lungo anno scolastico, o le ore prima di un appuntamento galante”.

Eppure molti studiosi e ricercatori sostengono che non tutto sta funzionando a dovere, soprattutto in Europa.

“È vero che c’è qualche ritardo nella distribuzione delle dosi rispetto a quanto pattuito negli accordi tra aziende farmaceutiche e Stati, che hanno finanziato le ricerche. Una situazione che perlopiù dipende da limiti tecnici e che, peraltro, sono fiduciosa venga ripianata nel breve termine. L’accelerazione nella disponibilità di dosi dipende dall’ampliamento del parco di aziende e di officine terziste in grado di produrre questi vaccini. Tuttavia la realtà è che molti dei vaccini Covid, in particolare quelli attualmente approvati di Pfizer-Biontech, Moderna e AstraZeneca, contengono tecnologie del tutto nuove per il modo farmaceutico, usate per la prima volta in questo contesto. Questo si traduce nel fatto che anche il know-how per la loro produzione, che include aspetti tecnici specifici (come qualità delle materie prime e loro caratterizzazione, condizioni di produzione, mantenimento della catena del freddo ed effetti di eventuali interruzioni della medesima), è nuovo e non così consolidato come quello per la produzione di farmaci ‘classici’. Di fatto mentre per i prodotti più classici il trasferimento del know-how di produzione a stabilimenti di terzisti può avvenire in tempi relativamente rapidi, nel caso di queste nuove tecnologie esso necessita adeguamenti importanti dei siti produttivi e la loro validazione secondo norme di qualità farmaceutica, tutte attività che richiedono un po’ di tempo. Il comparto farmaceutico globale si sta comunque riorganizzando per arrivare a questa capacità produttiva ma ci vorrà ancora del tempo, magari qualche mese, per arrivare alla produttività massima. Bisogna quindi semplicemente avere ancora un po’ di pazienza, ovviamente senza smettere di insistere sull’urgenza e sulla necessità di trovare modalità per arrivare rapidamente agli obiettivi”.

I vaccini a terapia genica possono essere adattati alle mutazioni dei virus e in prospettiva sono più economici

Qualcuno potrebbe chiedersi perché non sia stata data priorità a tecnologie più semplici, per le quali esisteva già una capacità produttiva globale maggiore.

“Qualche prodotto in via di autorizzazione in realtà usa tecnologie più tradizionali. I vaccini a terapia genica tuttavia consentono, a regime, di produrre molte più dosi in poco tempo, quindi in prospettiva costano di meno e sono più accessibili anche a Paesi meno ricchi. Inoltre, diversamente dalle prime, queste nuove tecnologie possono in breve tempo essere aggiustate e adattate in base alle mutazioni che il virus può subire nel tempo: una caratteristica che, come stiamo vedendo, è di vitale importanza”.

Nel nostro Paese ci sono le infrastrutture e il know-how per una produzione nazionale?

“In Italia il comparto farmaceutico è molto forte, soprattutto nella produzione di farmaci, il cosiddetto mondo del terzismo, con un mercato che va ben oltre i nostri confini. Si tratta di un’eccellenza, che sintetizza conoscenze e capacità manifatturiere, riconosciuta a livello internazionale. Questa capacità produttiva è oggi prevalentemente adatta alla manifattura di farmaci classici: anche vaccini, ma di natura tradizionale e non di terapia genica (mRNA di Pfizer-Biontech e Moderna o Adenovirus - Astra Zeneca, Johnson & Johnson, Sputnik). Il nostro comparto si sta già attrezzando per produrre anche queste nuove tecnologie ma, come ho già detto, l’adeguamento degli impianti produttivi e l’acquisizione delle competenze richiede tempi tecnici oltre ad accordi specifici con le aziende che oggi detengono il know-how”.

I vaccini dovrebbero essere considerati bene comune? Oppure si rischia in questo modo di limitare gli investimenti nella ricerca biomedica?

“È necessario distinguere tra una situazione emergenziale come quella attuale e situazioni ordinarie. La salute pubblica è considerata a prescindere – almeno in alcuni Paesi, tra cui l’Italia – un bene/diritto comune, e lo è ancora di più in nel contesto emergenziale che stiamo vivendo. D’altra parte lo sviluppo farmaceutico è guidato a livello globale da imprese private, condizione che, in situazioni ordinarie, è ritenuta efficace per tutte le società. L’idea di considerare i vaccini un bene comune è interessante e, di fatto, in questo contesto di emergenza Covid lo sviluppo rapido dei vaccini è avvenuto anche grazie ad un contributo considerevole di capitali pubblici, che hanno consentito alle aziende di ridurre il rischio e di effettuare i corposi investimenti necessari. In linea teorica un investimento fatto da due entità dovrebbe portare un ritorno a entrambi gli investitori, quindi in questo contesto anche allo Stato. In termini pratici questo ritorno potrebbe essere il prezzo calmierato del prodotto, oltre alla messa a disposizione del know-how necessario ad ampliare le infrastrutture produttive. Questo è un modello organizzativo efficiente che può valer la pena replicare in altri contesti emergenziali”.

I numeri oggi ci dicono che con i vaccini a disposizione possiamo ragionevolmente stare tranquilli

Che fare per migliorare in futuro?

“È importante ottimizzare il modello attuale, oggi messo in atto in modo ancora imperfetto. È difficile in tempi emergenziali imbastire accordi equi che regolino situazioni di tale complessità e che garantiscano tra le parti il giusto equilibrio tra investimenti e ritorni. La stesura di accordi così complessi richiede un tempo di contrattazione, e nell’emergenza Covid è verosimile che questo giusto tempo non ci sia stato e che qualche errore sia stato commesso. È da questa esperienza che tuttavia ci si deve muovere per costruire gli assetti per il futuro, partendo sempre dal presupposto che di fronte ad emergenze globali non sia utile a nessuno fare del profitto l’elemento centrale”.

Oggi molte persone, non necessariamente no-vax, sono allarmate dalle notizie sugli effetti di alcuni preparati vaccinali. Lei che ne pensa?

“Penso pragmaticamente che non abbiamo altra scelta che fidarci dei numeri, e i numeri oggi ci dicono che con i vaccini oggi a disposizione possiamo ragionevolmente stare tranquilli. Con nessun farmaco esiste il rischio zero, nemmeno con l’aspirina, quindi anche i vaccini comportano qualche rischio, seppur minimo in termini numerici. Non abbiamo però nessuna alternativa al vaccinarci. I no-vax sembrano non rendersi conto del fatto che i tassi di mortalità del Covid-19 sono tali per cui, in assenza di un vaccino e a meno di non voler continuare a vivere in perenne lockdown, dovremmo rassegnarci a veder crescere il numero di morti fino a cifre da capogiro, forse centinaia di milioni di persone a livello globale. Questo ci dicono i numeri di cui, ripeto, ci dobbiamo fidare e che sono tutti accessibili, basta volerli leggere con razionalità. È da irresponsabili istigare le persone a non vaccinarsi, come anche creare le condizioni affinché si possano propagare opinioni non basate su solide evidenze scientifiche. I media in questo hanno una loro responsabilità e devono evitare di cadere nella trappola dell’allarmismo e della polemica da talk-show. In questa situazione dobbiamo tutti fare lo sforzo di essere realisti, non allarmisti, facendo il nostro dovere con professionalità”.

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