Per natura sono opportuniste, non fanno le schizzinose davanti al cibo. E se gli esseri umani sono spreconi, loro ne approfittano. Così le volpi sono diventate le nostre vicine di casa, cittadine a pieno titolo che gironzolano tra strade e parchi pubblici rovistando nei cassonetti in cerca di qualche avanzo. Persino nelle metropoli come Londra è sempre più facile avvistarle. Eppure questo rapporto di commensalismo tra volpi e uomini non è cosa recente: sarebbe cominciato nel cuore dell’Europa ben 42.000 anni fa. Lo hanno scoperto i ricercatori dell’Università di Tubinga guidati da Chris Baumann, analizzando la dieta delle volpi vissute nel Pleistocene. E, come si legge su Plos One, proprio queste piccole commensali possono darci la misura dell’impatto ambientale che ha avuto Homo sapiens sugli ecosistemi del passato.
Nella cosiddetta fauna urbana, oggi rientrano una miriade di specie che hanno saputo approfittare delle nuove nicchie ecologiche cittadine, di centri abitati più caldi, di nuovi rifugi e nuovi territori di caccia. E altre, come le volpi, che più furbamente usufruiscono dei resti di cibo lasciati da noi umani: dalle discariche ai cassonetti, passando per quelli abbandonati in strada meno civilmente. Ma se studiare la dieta della moderna fauna è abbastanza facile, tra analisi del contenuto dello stomaco e delle feci, risalire al regime alimentare degli animali che scorrazzavano tra i primi insediamenti umani non è certo semplice.
Per capire cosa mangiavano questi piccoli carnivori nel Paleolitico, gli scienziati del Senckenberg Center for Human Evolution and Paleoenvironment dell’Università di Tubinga avevano a disposizione solo ossa. Perciò l’unico modo per venirne a capo era affidarsi agli isotopi: solo analizzando la quantità e la tipologia di isotopi di carbonio e azoto presenti nel collagene estratto dalle ossa, si può comprendere quali sono le principali fonti proteiche di cui si è nutrito quell’animale negli ultimi anni della sua vita. Il team ha così esaminato gli isotopi presenti nei resti ossei di volpi rosse (Vulpes vulpes) e volpi artiche (Vulpes lagopus) rinvenute in diversi siti archeologici situati nel Giura Svevo, nella Germania sud-occidentale, e risalenti a un periodo compreso tra i 42.000 anni fa del Paleolitico medio e i 30.000 anni fa del Paleolitico superiore: esattamente il momento in cui l’uomo di Neanderthal ha lasciato il passo all’uomo moderno. E ha poi confrontato i valori ottenuti nelle volpi con quelli ricavati da altri piccoli mammiferi, grandi erbivori o grandi carnivori – tra cui lupo, lince, orso e leone delle caverne – ritrovati negli stessi siti esaminati o pubblicati già da studi precedenti.
Volpe artica
I ricercatori si sono quindi accorti che, in base ai livelli di isotopi di azoto presenti, le volpi rosse e le volpi artiche potevano essere raggruppate in tre gruppi, ciascuno con un regime alimentare ben preciso e con una distribuzione temporale differente.
Un primo gruppo, con bassi livelli di isotopi di azoto, comprendeva le volpi la cui dieta era composta per l’80% da piccoli roditori. Un secondo, con livelli alti, invece rifletteva un’alimentazione a base degli scarti delle prede di grandi carnivori. Questi due regimi alimentari erano molto diffusi nel Pleistocene medio e rispecchiano perfettamente la dieta tipica delle volpi: da un lato abili cacciatrici, anche sotto la neve, di piccoli roditori, come arvicole, topi, ratti e toporagni; dall’altro spazzine provette degli avanzi lasciati dai predatori più grossi di loro. Del resto, non è una novità, anche oggi in natura le volpi spiluzzicano le carcasse abbandonate da orsi e lupi.
Ma nel Paleolitico superiore si fa strada un terzo gruppo di volpi che ha subito catturato l’interesse dei ricercatori. Queste, infatti, presentano livelli di isotopi di azoto intermedi e un regime alimentare molto particolare, che esclude il commensalismo con altri grandi carnivori, ma include prede decisamente fuori taglia. Le volpi rosse e le volpi artiche vissute nel Giura Svevo avrebbero infatti iniziato a mangiare per lo più renne e mammut, troppo grandi per essere cacciate e abbattute da questi piccoli predatori. Qualcuno quindi deve averle cacciate per loro e l’unico indiziato è Homo sapiens.
Le volpi quindi si cibavano della carne delle renne che gli esseri umani riportavano nelle caverne per tagliarle e cucinarle, e dei più rari mammut, troppo grandi per essere trasportati, che venivano macellati sul luogo dell’abbattimento. Dal canto loro, gli uomini tolleravano le volpi, perché ritenute innocue.
Durante il Paleolitico medio, quando i Neanderthal popolavano il Giura Svevo, le volpi rosse e le volpi artiche avrebbero quindi seguito un’alimentazione “naturale”, ma in coincidenza con l’espansione di Homo sapiens in Europa la loro dieta sarebbe cambiata drasticamente. Modificata dai sapiens, così come l’ambiente circostante.
Nel Paleolitico medio, più di 42.000 anni fa, i Neanderthal erano gli unici europei, erano poco numerosi e vivevano in piccoli gruppi nomadi. Nel Paleolitico superiore, però, con l’arrivo di Homo sapiens, i Neanderthal finirono con l’estinguersi nel giro di qualche migliaio di anni mentre i nuovi colonizzatori diventavano sempre più numerosi e popolosi rispetto ai loro cugini. Proprio la popolosità di Homo sapiens e quindi l’abbondanza di scarti alimentari derivati dalla macellazione delle renne – tipiche prede dei cacciatori del Paleolitico – avrebbero creato una nuova nicchia trofica di cui le volpi hanno approfittato.
E visto che di reperti con livelli di isotopi di azoto intermedi non se ne trovano se non a partire dal primo Paleolitico superiore, intorno ai 40.000 anni fa, i Neanderthal sono scagionati. Perciò le volpi avrebbero iniziato questa relazione di commensalismo quando hanno fatto la conoscenza di Homo sapiens in Europa. Ed è dunque da decine di migliaia di anni che mangiano dalle nostre mani, o quasi. «Nel Paleolitico superiore queste volpi vivevano principalmente dei resti lasciati dagli umani e forse venivano persino nutrite direttamente dai nostri antenati» come suggerisce Hervé Bocherens, tra gli autori dello studio. Una strategia utile, certo, che però non presentava solo vantaggi per questa specie, furba per antonomasia.
Le ossa delle volpi ritrovate nella grotta di Vogelherd, nella Lone Valley, presentano infatti delle incisioni: segno che Homo sapiens, di tanto in tanto, le cacciava per ottenerne carne e soprattutto pellicce. Inoltre tra i 40.000 e i 20.000 anni fa, nell’Aurignaziano e nel Gravettiano, andavano di moda i denti di volpe perforati a mo’ di ciondolo. È probabile quindi, che da un certo momento in poi Homo sapiens abbia iniziato a cacciare le volpi, che aveva avvicinato involontariamente e ignorato per lungo tempo.
Che Homo sapiens abbia avuto un impatto già sull’ecosistema pleistocenico – senza parlare della situazione odierna – è ormai assodato. Ma che degli animali siano riusciti a trarne dei vantaggi, già in tempi così remoti, non è scontato. E questo antico rapporto di commensalismo ci dà la misura di quanto, già 42.000 anni fa, l’uomo fosse in grado di plasmare il mondo circostante e di modificare la vita degli altri animali molto più del suo cugino Neanderthal.