CULTURA
Monumenti dimenticati e politica vaticana della memoria: l’Ara pacis mundi di Medea
Foto: Emiliano Grusovin (CC BY-NC-SA 2.0)
La storia delle politiche della memoria nel secondo dopoguerra italiano è ancora un campo aperto. Grazie alla nuova documentazione vaticana relativa al pontificato di Pio XII siamo oggi in grado di mettere in luce il ruolo di primo piano svolto dalla Pontificia Commissione di Assistenza. La Pca, più conosciuta come Poa (dal 1953), era sorta negli anni dell’occupazione nazifascista per fornire assistenza a profughi e reduci. Il suo presidente mons. Ferdinando Baldelli coltivava rapporti stretti con i cattolici statunitensi e faceva riferimento alla corrente conservatrice della Curia romana. La Pca era insomma un’istituzione potente, attiva contro il “pericolo rosso” e dotata di ampi spazi di autonomia. Nella sua azione per gestire il passaggio dalla guerra alla pace trova spazio una serie di iniziative dedicate alla costruzione della memoria della guerra.
Di una di queste in particolare si parlerà venerdì 29 settembre in "Guerra e pace", la nuova puntata del programma Rai Storie contemporanee, che sarà dedicato all'Ara pacis mundi di Medea (Go), eretta per celebrare un nuovo rifiuto dalle tinte cristiane della guerra post 1945, mentre contemporaneamente nella stessa zona si ricostruivano le linee fortificate contro il pericolo rosso proveniente da est.
Come hanno mostrato negli ultimi anni nelle loro ricerche Paolo Nicoloso e in maniera più specifica Martina Zehenthofer, e come aiutano a comprendere in maniera più completa le carte conservate nel fondo Poa dell’Archivio Apostolico Vaticano, la costruzione e la consacrazione dell’Ara di Medea, all’epoca frazione di Cormons, fu il punto di arrivo di due iniziative che si andarono fin da subito a fondere in un unico progetto. La prima, e più rilevante, fu messa in campo nella cornice del Giubileo del 1950, dedicato alla riconciliazione. Nel quadro della guerra fredda, la Pca intendeva avanzare la sua proposta di pacificazione nel segno della fede cristiana. Vanno letti in questa prospettiva i “Pellegrinaggi internazionali alle tombe dei caduti all’estero”, e soprattutto il “Convegno della fraternità”. Organizzato insieme alle principali associazioni combattentistiche e articolato in una serie di riti tra il 2 e il 4 novembre, questo complesso di attività consisteva nello scambio di fiaccole votive tra le madri delle medaglie d’oro italiane e quelle dei caduti stranieri (alleati e nemici durante la guerra). La cerimonia conclusiva si svolse a Montecassino, dove furono consegnate all’abbazia sette lampade, simbolo della fede ardente e imperitura che collega i vivi ai caduti.
“ Nell’Ara di Medea si tenta di rifondare il discorso patriottico sulla base di principi solidaristici, universali e di ispirazione cristiana
Sempre nell’ambito delle celebrazioni giubilari la Commissione aveva in mente un'altra cerimonia, consistente nella raccolta delle zolle di terra dai cimiteri militari italiani e stranieri. Dal marzo 1950 iniziava a operare in questa direzione un Comitato che vedeva insieme Pca, l’Associazione nazionale Combattenti e Reduci, l’Associazione nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra e l’Unione nazionale Ufficiali in congedo, ufficialmente alla testa dell’operazione. Quest’ultima era diretta da Tito Zaniboni, politico di area socialista riformista, noto per il fallito attentato a Mussolini nel 1925. Nominato all’Alto commissariato per i profughi di guerra, era entrato in contatto con Baldelli. I due avevano storie e riferimenti molto distanti, ma lavorarono a stretto contatto per portare a termine un risultato che Zaniboni intendeva piegare in senso universalistico, mentre Baldelli in una direzione più confessionale.
Solo gradualmente maturò la convinzione di erigere un’Ara pacis, “simbolo della fraternità umana”. Il sito fu individuato inizialmente nel colle Sant’Elia, di fronte al sacrario Redipuglia. Dopo le vibranti proteste di alcune associazioni di ex-combattenti giuliani, preoccupate che si andasse a deturpare la maestosa costruzione confinante, in settembre si decise di spostare il sito sul vicino colle di Medea e di posticipare le celebrazioni al maggio seguente. Le fonti evidenziano la fredda ostilità nei confronti dell’iniziativa da parte del vescovo di Gorizia, mons. Margotti, convinto che il progetto, disegnato dall’architetto Mario Bacciocchi, consistente in un’ara in porfido circondata da un recinto in travertino che, va detto, riprendeva la linea estetica monumentale di E42, risultasse di fatto “pagano”. La realtà però era molto diversa, quasi opposta, come i promotori cercarono in ogni modo di spiegare.
Gli obiettivi principali possono essere così sintetizzati: 1) Promuovere una memoria della guerra che, nella gloria religiosa e unificante dei morti, superasse le divisioni nazionali e soprattutto quelle ideologiche; 2) Bilanciare il portato simbolico di Redipuglia, contrapponendo al nazionalismo aggressivo una versione solidaristica dell’idea di patria; 3) Dare sostegno alla causa italiana nei confronti della Jugoslavia titoista; 4) Esercitare un’opera di controllo ideologico sugli ex-combattenti, salvaguardandoli dai rischi di derive “estremistiche”; 5) Operare all’interno del paradigma memoriale per nascondere, forse per sanarle, le divisioni provocate dalla guerra civile.
Foto: Giorgio Drius (CC BY-SA 4.0)
Per quanto riguarda il carattere religioso della cerimonia in numerosi discorsi pubblici, certo anche per opportunità, Zaniboni parlò dell’Ara come di “un simbolo cristiano” (come da accordi, il rito sarebbe dovuto iniziare il 2 novembre). Baldelli avrebbe voluto dare anche a questa una connotazione confessionale, ma Medea fu il risultato di un compromesso incentrato sull’idea condivisa che si dovesse rifondare il discorso patriottico sulla base di principi solidaristici, universali e di ispirazione cristiana, laddove il cristianesimo, come spiegato dai due principali promotori, era da considerarsi un elemento di sintesi universale. La scritta riportata sulla grande urna (poi deposta nella camera ipogea sotto il monumento) – Odium parit mortem. Vitam progignit amor, l’odio genera morte, l’amore vita – riassume perfettamente l’imprinting di un’iniziativa civile, ma consacrata dalla Chiesa di Roma. A Medea la retorica religiosa fu impiegata, differentemente dalla tradizione del nazionalismo cattolico, per dare senso a un discorso che intendeva celebrare la pace nel ricordo di tutti i caduti, di qualsiasi orientamento ideale, politico o religioso.
Come spiega dettagliatamente nel pamphlet L’Ara di Medea, pubblicato nel 1951, il rito si articolò riprendendo alcuni schemi della liturgia patriottica tradizionale. Prima vennero prelevate le zolle da oltre 800 cimiteri italiani e stranieri esistenti in Italia; il 3 maggio 1951 di fronte all’Altare della Patria, davanti al presidente Einaudi, per mano delle madri e delle spose dei caduti di tutte le nazioni, le urne furono svuotate in un’unica più grande. Infine il percorso verso Medea, ripercorrendo all’indietro il cammino del Milite Ignoto. Il 6 maggio fu il giorno dell’inaugurazione, con il discorso di Zaniboni e la lettura dall’altoparlante del messaggio di benedizione di Pio XII.
Subito dopo l’Ara pacis venne abbandonata: basti pensare che non era stata ancora realizzata la strada per collegare il monumento. Solo alla fine degli anni Sessanta vennero compiuti i lavori di manutenzione e ripresero le commemorazioni. Se ne perse la memoria. Eppure, il percorso che portò alla sua costruzione appare gravido di significati nel contesto del passaggio dalla guerra alla pace e alla riconciliazione, patrocinata dalla Chiesa e sostenuta dalle principali organizzazioni combattentistiche. Un processo che a Medea si tradusse in un altare della pace che, tanto nella forma quanto nelle retoriche, celebrava indistintamente tutti i “morti per un loro ideale”, rimuovendo sia il conflitto mondiale come guerra anti-totalitaria contro il nazismo, il fascismo e la loro azione criminale, sia l’esistenza e le ragioni della Resistenza antifascista.
Storie contemporanee 2023