SOCIETÀ

Libertà personale: perché il Garante è essenziale

In Italia la popolazione carceraria è tornata a superare le 60.000 persone a fronte di 47.300 posti realmente disponibili: un dato spesso messo in relazione a quello ancor più drammatico dei suicidi. Non c’è però solo il carcere: comportano limitazioni alla libertà anche i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr), le residenze per le misure di sicurezza (Rems), istituite dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, e perfino le strutture per anziani.

Ne parliamo con Mauro Palma, fino allo scorso gennaio presidente del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale: il primo a ricoprire questo ruolo dall'entrata in funzione dell’autorità indipendente nel 2016. Matematico e giurista di formazione, dopo aver contribuito a fondare l’Associazione Antigone Palma è stato prima componente e poi presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti (Cpt) del Consiglio d’Europa, risultando a tutt’oggi considerato uno dei maggiori esperti a livello internazionale su queste tematiche.

Presidente Palma, perché la libertà personale è così importante?

“Anche in un ordinamento liberale e democratico come il nostro le sacche di non libertà sono molto ampie e vanno al di là delle ipotesi in cui è prevista la detenzione. Quando si è privati della libertà, qualunque sia la motivazione, si ha una vulnerabilità specifica rispetto alla tutela dei propri diritti: per questo c’è bisogno di uno sguardo esterno, che colga aspetti difficili da notare per un occhio troppo interno e assuefatto”.

In concreto?

“A partire dall’esperienza europea, poi seguita da molti altri Paesi in tutto il mondo, si è andati verso un modello caratterizzato da una doppia tutela: a quella giurisdizionale, in cui interviene un magistrato e che potremmo definire di tipo reattivo, se n’è affiancata un’altra di tipo preventivo. Quest’ultima è diretta a individuare le circostanze che, sia sul piano normativo che applicativo, potrebbero evolversi in minacce ai diritti della persona”.

Come nasce questa seconda tutela?

“Alla fine degli anni Ottanta la Corte europea dei diritti dell’uomo e il Consiglio d’Europa iniziarono a riflettere sull'effettiva applicazione articolo 3 della Cedu, uno dei soli quattro articoli inderogabili della convenzione, secondo il quale nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. Nacque così l’idea di un comitato che affiancasse la corte di Strasburgo, individuando le criticità prima che queste si sviluppassero. Il primo presidente fu il grande giurista Antonio Cassese, poi alla fine del 1999 divenni membro del Consiglio in rappresentanza per l'Italia e in seguito presidente”.

Una meccanismo che in seguito è stato imitato da molti Paesi nei loro ordinamenti interni.

“Sì, anche fuori dall’Europa: sono 93 in tutto il mondo ad aver finora istituito un proprio National preventive mechanism, un organismo indipendente secondo quanto stabilito dall’Optional Protocol to the Convention against Torture and other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (Opcat): dal Brasile alla Repubblica Democratica del Congo, compresi tutti gli Stati europei a eccezione di Russia e Bielorussia”.

Qual è stata la filosofia alla base dell’azione del Garante?

“La convinzione che non si dovesse tener conto esclusivamente delle situazioni ove fosse presente un provvedimento restrittivo, come un ordine di arresto o un Tso: bisognava considerare tutte le privazioni concrete della libertà, de iure ma anche de facto. Pensiamo alle residenze per anziani o disabili: spesso vi si entra volontariamente, assistiti inizialmente da un parente o un tutore, poi però negli anni ci si trova ad essere gestiti dall’istituto; la situazione, insomma, si evolve nel tempo. Oppure consideriamo le strutture protettive dell’infanzia, in cui le restrizioni nascono proprio per tutelare i minori. Un caso infine molto italiano è quello delle navi che raccolgono migranti e alle quali non venga messo per lungo tempo a disposizione un porto per attraccare”.

Con che modalità avete operato?

“Con fermezza ma sempre dialogando con le istituzioni. Il Garante ha un grosso potere intrusivo: in ogni momento può accedere a ogni struttura e a ogni documento, ma il suo compito non è e non deve essere quello di un organismo giudicante. Ci vuole anche cooperazione, agire tempestivamente ma non frettolosamente. Non è facile guadagnarsi la fiducia delle persone sottoposte a restrizioni, perché spesso chi ha subito violenze spesso ha difficoltà a raccontarle: l’ho imparato negli anni a Strasburgo e durante le numerose visite all’estero, otto solo in Cecenia, ai tempi in cui la Russia aderiva ancora alla Cedu (ne è uscita nel 2022, ndr). In generale diffido di chi crede di capire subito situazioni di solito molto complesse”.

Come si capisce quando siamo di fronte una privazione concreta della libertà?

“Banalmente chiedendosi se una persona possa uscire dalla struttura oppure no, se abbia insomma la disponibilità del proprio tempo e dei propri movimenti. Facendo attenzione alla diversità delle situazioni; ad esempio nei centri di accoglienza per i migranti, diversi dai Cpr che sono chiusi, possono uscire liberamente gli adulti ma non i minori: solo la situazione di questi ultimi è di competenza del garante”.

Come si sono evolute in Italia le condizioni delle persone private della libertà?

“Il Garante italiano negli anni è divenuto un modello a livello internazionale e spero che tale rimanga. Due sono i criteri che abbiamo adottato: salvaguardare ogni residuo di autonomia, cercando sempre di potenziarla piuttosto che avvilirla, e in secondo luogo tenere presente il motivo per il quale una limitazione della libertà viene disposta. Nessun regime carcerario può ad esempio giustificare la totale rinuncia al fine rieducativo della pena, disposto dalla stessa Costituzione, così come è un abuso rinchiudere una persona in un Cpr in assenza di accordi con il Paese d’origine per il rimpatrio”.

Ultimamente hanno suscitato qualche perplessità le modalità di avvicendamento al vertice del Garante…

“Premesso che confido molto sulle persone che lavorano nell’autorità, sarebbe stato bello confrontarsi con i componenti del nuovo collegio, raccontare direttamente a loro quello che abbiamo fatto. Purtroppo in questi mesi non abbiamo ancora avuto un incontro: continuo a confidare che ci possa essere perché sarebbe utile per dare continuità di azione a un’istituzione che rimane fondamentale, al di là delle idee e dei percorsi di ognuno”.

Intanto nelle scorse settimane si è tornati a parlare di abusi: ad esempio di quelli perpetrati nel carcere minorile “Beccaria” di Milano. Quale deve essere oggi il ruolo del Garante?

“L’autorità è chiamata ad avere un occhio complesso e sfaccettato come quello di alcuni insetti, in modo da leggere situazioni e contesti sempre più complessi. Allo stesso tempo è fondamentale anche la capacità di proiettarsi nella società, di costruire un dialogo sui nostri valori fondamentali coinvolgendo tutta la cittadinanza. Un confronto limitato a garante e amministrazione servirebbe a poco”.

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