SOCIETÀ

Agrivoltaico: luce rossa per l’agricoltura, blu per l’energia elettrica

Solitamente, la quantità di luce solare che irraggia un campo coltivato è considerata una condizione a cui ci si deve adattare. Se l’esposizione sarà troppa, occorrerà ad esempio aumentare la quantità d’acqua destinata all’irrigazione. Troppa poca luce potrebbe invece non far maturare il raccolto a sufficienza: occorrerebbe quindi occupare una maggiore superficie agricola per ottenere la resa desiderata.

Tuttavia, l’aumento della popolazione mondiale, che l’anno scorso ha superato per la prima volta gli 8 miliardi di persone, impone di soddisfare una domanda crescente di cibo, acqua ed energia, e al contempo rende sempre più stringente la necessità di fissare un limite allo sfruttamento delle risorse del pianeta, gestendo in modo sempre più parsimonioso e intelligente quelle a nostra disposizione.

È a partire da queste considerazioni che Matteo Camporese, professore al dipartimento di ingegneria civile, edile e ambientale (Dicea) dell’università di Padova, è arrivato a pensare alla luce solare come una risorsa, abbondante per natura, che merita di essere gestita e calibrata, a seconda delle necessità.

Così come il petrolio è stato il carburante del XX secolo, il solare è destinato a diventare il perno energetico del XXI. Per ridurre le emissioni di gas climalteranti, le nostre società hanno imboccato la strada dell’elettrificazione ed entro il 2050 fotovoltaico ed eolico da soli genereranno il 70% dell’elettricità prodotta da fonti rinnovabili, che a loro volta rappresenteranno il 90% di tutta l’energia elettrica generata nel mondo, secondo i dati del rapporto della IEA Net Zero by 2050.

La luce solare naturalmente continuerà ad alimentare anche il settore agricolo, tramite la fotosintesi con cui le piante trasformano l’anidride carbonica in biomassa, grazie all’energia assorbita dal sole. Ed è proprio affrontando insieme sfide provenienti da settori diversi che si può arrivare a un uso più intelligente delle risorse: quelle della generazione elettrica e dell’agricoltura ad esempio possono trovare soluzioni comuni nell’agrivoltaico.


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In una ricerca pubblicata su Earth’s Future, Matteo Camporese mostra come la gestione della luce solare possa venire ottimizzata sia in favore dell’agricoltura, sia in favore della generazione di energia elettrica, grazie a uno sfruttamento più mirato di diverse lunghezze d’onda dello spettro di luce.

“Da studi precedenti sapevamo che le piante, con la fotosintesi, non utilizzano tutte le frequenze di luce alla stessa maniera: la luce verde ad esempio viene assorbita di meno, quella rossa di più” spiega Matteo Camporese, che ha condotto la ricerca in California grazie a una borsa del programma di finanziamento Fulbright, vinta nel 2019. “La CO2 assorbita dalla pianta viene combinata con altri nutrienti che le permettono di crescere, quindi la fotosintesi non è direttamente proporzionale alla resa agricola. Ci sono altre variabili che vanno considerate”.

Con il collega dell’Università della California a Davis, Majdi Abou Najm (co-autore dello studio), Camporese ha lavorato alla messa a punto di un modello matematico in cui fotosintesi e traspirazione della pianta sono funzione del tipo di irraggiamento luminoso.

“Abbiamo considerato diversi parametri abiotici, come qualità e quantità di irraggiamento, pressione e temperatura dell’aria, umidità, ma anche diversi parametri di risposta della pianta” come la conduttanza stomatica, ovvero la capacità degli stomi di aprirsi e chiudersi per lasciar passare acqua e anidride carbonica durante i processi di traspirazione e fotosintesi, e la capacità della pianta di convertire fotoni in molecole di CO2 assorbita, una misura nota come quantum yield.

Per saggiarne la validità, il modello è stato testato con dati già presenti in letteratura, raccolti in esperimenti dove diversi tipi di piante sono state esposte a diversi spettri di luce. In particolare sono state prese in considerazione due specie di pianta a foglia verde, lattuga e basilico, e una pianta da frutto, la fragola. “L’analisi di sensibilità ci ha mostrato che il rosso è la parte dello spettro di luce più adatto a far crescere la pianta” spiega Camporese. “A parità di luce, usando solo lo spettro rosso la pianta fa più fotosintesi e perde meno acqua: in altri termini fa un uso più efficiente dell’acqua”. Con la luce blu invece il risultato è l’opposto: meno fotosintesi e più perdita di acqua. Per questo, nell’idea di agrivoltaico esplorata nello studio, andrebbe destinata alla generazione di energia elettrica.

Sebbene ci si aspetta che la risposta allo spettro luminoso sia diversa a seconda della specie di pianta considerata, il modello è costruito in modo tale da poter essere generalizzabile e adattabile a diversi contesti, aggiustando opportunamente i parametri. “Il modello ora lavora alla scala della superficie della foglia. Da lì bisognerà ampliarlo a tutta la pianta, ma ci stiamo già lavorando”.

Per filtrare la luce e separarla in spettro rosso e blu occorrono pannelli fotovoltaici semitrasparenti e fotoselettivi, che possono venir montati 3 o 4 metri sopra le piante coltivate e non solo non toglierebbero luce al campo, ma addirittura ne migliorerebbero la resa. “I migliori candidati che abbiamo individuato ad oggi sono i pannelli solari organici” noti anche come OPV (Organic Photovoltaic Panels) e alternativi ai più diffusi pannelli in silicio.

È una tecnologia recente, che può ancora migliorare, ma che presenta dei potenziali vantaggi. Innanzitutto quello della produzione: “Sono basati su dei polimeri plastici, ricavati da sostanze organiche, il che significa che sono molto economici e chiunque li può produrre", a differenza di quelli al silicio la cui produzione globale oggi è dominata dalla Cina. "Possono poi essere stampati su pellicole e sono flessibili, adattandosi anche a superfici curve”. Dall’altro lato però, non hanno ancora la stessa efficienza dei pannelli in silicio e rispetto a questi ultimi si degradano più in fretta.

Sebbene i pannelli solari organici siano già in commercio, ad oggi non sono stati ancora adattati al contesto dell’agrivoltaico. “Sono passati anni da quando negli anni ‘80 l’agrivoltaico è stato proposto per la prima volta e ancora non è molto diffuso, perché molte colture di interesse commerciale hanno una resa minore all’ombra”. Le cose però potrebbero cambiare con ondate di calore e siccità che oggi si presentano più di frequente che in passato, a causa del cambiamento climatico.

L’interesse per l’agrivoltaico sta crescendo e diverse aziende stanno lavorando a fianco di centri di ricerca. Un progetto internazionale finanziato dai fondi dell’Unione Europea, ad esempio, raccoglierà dati nei prossimi anni per stabilire l’efficacia dell’agrivoltaico in un meleto in provincia di Bolzano: le piante coltivate sotto i pannelli verranno confrontate con quelle esposte normalmente al sole.

Tra le ragioni che non hanno ancora fatto decollare l’agrivoltaico in Italia c’è anche il timore, a più riprese espresso da una parte degli agricoltori, che la produzione di energia si riveli un’attività più redditizia dell’agricoltura e che i pannelli finiscano per occupare un suolo altrimenti destinato ai campi coltivati.

Secondo Camporese, i pannelli solari organici semitrasparenti e fotoselettivi potrebbero essere un modo di andare incontro alle preoccupazioni di questi agricoltori: “i pannelli al silicio possono essere montati sui tetti delle città, mentre i terreni agricoli possono essere coperti da altri tipi pannelli, che non avranno la stessa resa energetica di quelli al silicio, ma che facendo filtrare la luce rossa garantiscono la resa agricola”, permettendo al contempo, con la luce blu assorbita, una produzione di energia utile all’azienda agricola. “Se l’obiettivo è fare le due cose insieme, c’è margine di miglioramento”.

I pannelli ottimizzati per l’agrivoltaico cui fa riferimento Camporese tuttavia ad oggi ancora non sono disponibili. “Ho in mente di portare avanti il progetto di ricerca” dice Camporese. “Ci sono un paio di polimeri già in commercio con caratteristiche simili a quelle desiderate, però non sono mai stati testati in combinazione con l’agricoltura”.

Per l’approdo sul mercato quindi occorrerà aspettare, ma non troppo. “Sono stato contattato dal Regno Unito da una compagnia che si occupa di servizi agronomici interessata a sapere come un sistema del genere possa essere implementato. Ho anche avuto colloqui con una multiutility italiana, che si occupa anche di agrivoltaico, ma mi hanno detto che per loro il livello di sviluppo non è soddisfacente per garantire profitti da subito. In realtà si tratterebbe di un investimento che non impatterebbe molto sul loro bilancio. Il futuro non è lontano, in 5 o 10 anni potremmo essere pronti”.

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