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Lo sviluppo di un test sierologico affidabile è, per la ricerca e per il Paese, tra le sfide più importanti da vincere nel breve termine. La capacità di rintracciare gli anticorpi contro il Sars-CoV-2 nel sangue permetterebbe non solo di stimare la reale diffusione dell’epidemia, ma anche capire quali e quanti individui hanno sviluppato un’immunità al virus. Secondo Giorgio Palù, professore emerito di virologia all’università di Padova, se una persona sviluppa gli anticorpi specifici contro il nuovo coronavirus, è difeso dalla possibilità di nuove infezioni. Il problema è che, come fanno notare Andrea Crisanti (direttore del laboratorio di microbiologia e del dipartimento di medicina molecolare dell’università di Padova) e Antonella Viola (immunologa direttrice dell’istituto di ricerca pediatrica Fondazione città della speranza), non abbiamo ancora evidenze sufficienti per stabilire quanto sia diffuso lo sviluppo di questi anticorpi a seguito dell’infezione e quanto persistano nel tempo. I dati a disposizione non ci consentono, come invece alcuni vorrebbero, di parlare di un patente di immunità per la riapertura delle attività produttive, lo ha ribadito anche il ministro della salute.
L’Organizzazione mondiale della sanità ha annunciato un programma, chiamato Solidarity II (Solidarity I era relativo alle terapie, Solidarity III riguarderà i protocolli ospedalieri) e rivolto a una mezza dozzina di Paesi, per sperimentare i test anticorpali con l’obiettivo di individuare i più performanti. Nel frattempo ciascun Paese cerca in autonomia le soluzioni migliori. In Italia tra i test più promettenti c’è quello in chemiluminescenza che sembra essere soggetto a errore statistico più basso, tra il 4% e il 5%.
In Germania invece il virologo Hendrik Streeck con il suo team dell’università di Bonn ha fatto a Gangelt, una città tedesca al confine con l’Olanda, qualcosa di simile a quello che Andrea Crisanti ha fatto a fine febbraio a Vo’ Euganeo. Circa 1000 abitanti di Gangelt sono stati sottoposti al test diagnostico del tampone e al test sierologico per misurare la presenza di anticorpi nel sangue. I ricercatori hanno pubblicato finora solo un breve report in lingua tedesca, dove viene riportato che il 2% delle persone testate aveva un’infezione in corso e che il 14% aveva sviluppato gli anticorpi IgG, indice di una passata infezione che la maggior parte dei positivi agli anticorpi non sapeva nemmeno di aver avuto (erano dunque asintomatici). Il tasso di letalità rilevato è stato molto basso, 0,37%. Intervistato dall’emittente statunitense Cnbc, Streeck è convinto che nella popolazione tedesca ci sia già un buon livello di immunità e che mano a mano che si diffonde il virus diminuisce la sua aggressività. Al momento però non sembrano esserci evidenze che quanto dichiarato da Streeck stia accadendo al di fuori della Germania.
Nel report viene anche riportato che la specificità del test sierologico impiegato è superiore al 99%. In Italia al momento non abbiamo test sierologici così affidabili, né l’OMS ha finora dichiarato di averne individuati. Abbiamo contattato la Prof.ssa Viola per chiederle un parere: “Bisognerebbe capire come è stata stabilita la specificità del test, attraverso quale metodologia. Senza questi dati non possiamo dire nulla. Un test è specifico se ha un basso numero di falsi positivi e falsi negativi. Per saperlo bisogna analizzare un grande numero di campioni e avere la certezza che questi provengano da persone che hanno avuto o non hanno avuto l’infezione. Bisogna poi sapere se gli anticorpi sono davvero specifici per Sars-CoV-2 o se riconoscono altri coronavirus”.
Il test sierologico impiegato a Gangelt inoltre rintraccia le immunoglobuline A e G, mentre in Italia finora si è parlato principalmente di IgM e IgG. “Il fatto che guardino le IgA invece che le IgM è giusto, se cercano anticorpi protettivi. Le IgM indicano una esposizione recente al virus, poi intervengono le IgG o IgA. Le IgA potrebbero essere le più protettive perché si trovano sulle mucose. Ma sono anche quelle più a rischio di aspecificità, potrebbero ad esempio essere dovute a vecchi raffreddori”.
Il report dei medici tedeschi riporta inoltre che gli individui con gli anticorpi non possono più infettarsi. “Per quanto riguarda l’immunità, se gli anticorpi sono specifici e neutralizzanti, cioè se sono in grado di bloccare l’ingresso del virus nelle cellule (cosa che però va dimostrata in laboratorio), si può parlare di immunità. Ma bisogna anche capire quanti sono gli anticorpi (il titolo anticorpale) e sapere quale sia la concentrazione considerata protettiva. Se il titolo anticorpale è alto, si è immuni, ma quanto dura questa immunità? Non lo sappiamo ancora. Il titolo potrebbe mantenersi alto per molti mesi o anni o potrebbe scendere nell’arco di settimane. Andrebbe monitorato regolarmente per vedere se l’immunità persiste. Inoltre, è altamente probabile – e alcuni studi lo dimostrano – che la produzione di anticorpi sia molto variabile da soggetto a soggetto”.
Se quindi conosciamo la strada che dobbiamo percorrere per imparare a conoscere la risposta immunitaria al virus, quella strada, fatta di sperimentazioni metodologicamente solide, non è ancora stata percorsa fino in fondo e pertanto non si può asserire con sicurezza quali fattori siano garanzia di immunità.
Un ulteriore conferma che questo è lo stato attuale delle conoscenze viene da uno studio pubblicato il 6 aprile in pre-print su MedRxiv, quindi non ancora sottoposto alla peer-review: la sintesi del lavoro riporta che le risposte immunitarie al Sars-CoV-2 non sono ancora del tutto comprese e conosciute. Il gruppo di ricerca guidato da Jinghe Huang e Fan Wu, della Fudan University di Shanghai, ha misurato la risposta anticorpale in 175 pazienti guariti dall’infezione da CoVid-19, manifestatasi in forme lievi. Sono state impiegate due tipologie di test sierologici per ricercare gli anticorpi neutralizzanti (neutralizing antibodies - NABs) e gli anticorpi che si legano alle spikes del virus (spikes-binding antibodies), entrambi della famiglia delle IgG.
In un commento al lavoro su Nature viene riportato che il 30% dei pazienti totali dello studio, specialmente quelli al di sotto dei 40 anni, non ha mai sviluppato livelli alti di anticorpi, suggerendo che altre risposte del sistema immunitario giochino un ruolo importante nella lotta contro il virus. Inoltre, il fatto che il titolo anticorpale fosse inversamente correlato alla conta linfocitaria suggerisce che, nella risposta all’infezione da Sars-CoV-2, le interazioni tra anticorpi e altre componenti del sistema immunitario (come i linfociti e le proteine infiammatorie) sono più complesse di quanto si pensasse e che vanno indagate più a fondo, anche allo scopo di disegnare un vaccino efficace.
A ulteriore conferma che è davvero presto per poter parlare della patente di immunità che garantirebbe la riapertura e il normale ritorno alle attività lavorative.