SOCIETÀ

“Emissioni del terzo tipo” e la nuova iniziativa di Climate Trace

“Se vogliamo essere seri riguardo al raggiungimento degli obiettivi dell’accordo di Parigi, dobbiamo iniziare a essere seri anche a riguardo delle scope 3 emissions”, le emissioni di tipo 3.

Questo è quanto si legge sul sito di ClimateTrace, una nuova iniziativa no-profit (supportata tra gli altri dal premio Nobel Al Gore) che riunisce più di 100 partner e che sfrutta circa 300 satelliti, 11.000 sensori di vario tipo sparsi per il globo e metodi di intelligenza artificiale per quantificare, in modo indipendente, le emissioni globali di gas climalteranti.

Le emissioni di tipo 3 sono una categoria difficile da calcolare, un po' sfuggenti e per questo definibili "del terzo tipo". Su cosa siano esattamente torneremo tra poco, prima raccontiamo cos’è Climate Trace e perché è importante.

Il progetto prende il via nel 2019 grazie a un finanziamento di Google, si allarga nel 2020 con università (quali la Johns Hopkins), centri di ricerca e compagnie private che entrano a far parte dell’associazione e nel settembre 2021 viene pubblicato il primo inventario globale di emissioni di gas serra: anidride carbonica, metano, ossidi di azoto e altre.

“Governi, scienziati, investitori, manager e attivisti hanno bisogno di dati migliori che supportino la creazione di politiche, programmi e campagne finalizzate a limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5°C” si legge sul sito.

Oltre a fornire dati sulle emissioni dei singoli Paesi e dei singoli settori (produzione di energia, industria, agricoltura, trasporti, edifici, rifiuti, ecc.), Climate Trace è riuscita a organizzare i dati sulle emissioni a un livello di dettaglio maggiore.

Il 9 novembre, durante lo svolgimento della Cop27 a Sharm el-Shiek, in Egitto, Climate Trace ha presentato un nuovo database (che amplia il precedente) contenente i dati delle emissioni di più di 70.000 singole strutture e impianti di tutto il mondo, quali centrali elettriche, siti di estrazione di petrolio, acciaierie, raffinerie, discariche, campi agricoli, allevamenti, ma anche reti di trasporti urbani, aerei e navali. Si tratta appunto di dati frutto di monitoraggio e non auto-riportati dalle aziende stesse.

Le 500 strutture più inquinanti rilevate da Climate Trace (meno quindi dell’1% di tutte quelle rilevate) sono responsabili di più del 14% delle emissioni globali prodotte nel 2021: da sole producono più emissioni degli Stati Uniti. Più della metà di queste sono centrali termoelettriche, che producono elettricità da fonti non sostenibili.

Se si restringe il campo alle 50 strutture più inquinanti in assoluto, poco più della metà (26) sono siti di estrazione di petrolio e gas (assieme alle loro operazioni di produzione, lavorazione e trasporto). Al primo posto, con 208 milioni di tonnellate di CO2 (MtCO2) emesse nel 2021, c’è un impianto texano (Permean TX); segue uno siberiano, con 150 MtCO2, terzo un altro sito statunitense (Marcellus) con 124 MtCO2. I dati dei singoli impianti monitorati sono visualizzabili sulla mappa interattiva di Climate Trace.

Fino alla vigilia della Cop27, “nessuna nazione aveva presentato un conteggio completo delle proprie emissioni del 2021 all’UNFCCC. 52 Paesi non avevano presentato alcun inventario delle emissioni dei 10 anni passati. Il database di Climate Trace fornisce informazioni sulle emissioni dal 2015 al 2021 per ogni Paese parte dell’accordo di Parigi, insieme a dozzine di altri territori”.

Seondo quanto sostiene Climate Trace, rispetto a quanto viene ufficialmente riportato alle Nazioni Unite i dati auto-riportati dai Paesi che producono più gas e petrolio sarebbero altamente sottostimati, poiché in certi casi le emissioni arriverebbero ad essere fino a 3 volte più alte.

“Negli ultimi 30 anni, da quando il mondo ha iniziato a negoziare la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, nessuno ha mai identificato con esattezza da dove venisse tutto quell’inquinamento. Ora le cose cambieranno” ha scritto in un editoriale su Science, Al Gore.

La ragione per cui Climate Trace ha scelto di catalogare i dati sulle emissioni per singolo impianto produttivo ha a che fare proprio con le emissioni di tipo 3 (scope 3 emissions) a cui facevamo riferimento in apertura di questo articolo.

Il GHG Protocol

Da circa 20 anni, il sistema più diffuso a livello internazionale per calcolare le emissioni di un qualsiasi ente è il Green House Gas Procol (protocollo per i gas serra). Tale sistema standardizzato prevede una distinzione tra 3 tipi di emissioni.

Il primo, Scope 1 Emissions (scope significa “portata”, “ambito”, “raggio”), calcola le emissioni direttamente prodotte dall’azienda o dall’organizzazione in questione: tipicamente si tratta di quantità di combustibili fossili bruciati per alimentare le proprie attività produttive o emissioni direttamente prodotte dalle reazioni di processi industriali.

Il secondo, Scope 2 Emissions, tiene conto delle emissioni associate all’energia elettrica acquistata e utilizzata per alimentare le operazioni produttive: l’energia elettrica può venire prodotta da fonti energetiche più o meno inquinanti.

Il terzo, Scope 3 Emissions, raggruppa invece le emissioni indirette dell’intera catena di valore a monte e a valle delle attività dell’organizzazione: così come si calcolano le emissioni dell’intero ciclo di vita di un prodotto, quelle di tipo 3 sono le emissioni dell’intero ciclo di vita di un’azienda.

Monitorare queste tre categorie ha lo scopo di aiutare il soggetto che compila il report a intervenire su quei segmenti della propria attività che permettono una riduzione del proprio impatto sul clima. Un’industria ad esempio può scegliere di impiegare sostanze meno impattanti nelle proprie operazioni industriali per contenere le emissioni di tipo 1, utilizzare energia rinnovabile per ridurre le emissioni di tipo 2, mentre per minimizzare le emissioni di tipo 3 potrebbe acquistare materie prime da fornitori che operano secondo criteri sostenibili, oppure vendere i propri prodotti a clienti che siano attenti al proprio impatto ambientale.

Le emissioni di tipo 1 e 2 sono quelle solitamente più semplici da calcolare, in quanto ricadono all’interno dei confini dell’azienda, mentre le emissioni di tipo 3 sono più difficili da quantificare, poiché sono solitamente stimate a partire dati riportati da altri soggetti, senza alcuna garanzia che quei dati siano corretti, aggiornati o che esistano affatto. In quanto così difficili da afferrare, le abbiamo chiamate “emissioni del terzo tipo”.

Ciononostante, secondo lo UN Global Compact questa categoria rappresenta circa il 70% delle emissioni di cui un’azienda è responsabile. Altre stime mostrano che quelle di tipo 3 possono andare dal 65% al 95% delle emissioni di cui un soggetto è responsabile.

L’iniziativa di Climate Trace è quindi volta a colmare questa lacuna di dati. “Avere dati a livello della singola struttura è un complemento fondamentale e rende possibili altri importanti utilizzi, come la riduzione delle emissioni tipo 3 relative all’intera catena di valore” si legge sul sito di Climate Trace.

“Le emissioni di tipo 3 stanno ricevendo sempre più attenzione. Una loro comprensione accurata e completa è centrale per ogni valutazione di ciclo di vita (life cycle assessment – LCA) dell’impronta carbonica di un’azienda o di un prodotto. Le aziende ora possono utilizzare dati a livello di singola struttura per prendere decisioni che le aiutino a ridurre le proprie emissioni di tipo 3, come comprare beni dalle fabbriche che emettono di meno, procurarsi acciaio prodotto a emissioni più basse, o spedire i propri prodotti su navi container che emettono di meno”.

Una finanza non proprio sostenibile

Un’inaccurata quantificazione delle emissioni indirette inoltre ha conseguenze molto serie anche nel mondo della finanza. Nel prossimo articolo parleremo di un’inchiesta pubblicata a inizio ottobre da Bloomberg che mostra come un calcolo approssimativo delle emissioni di tipo 3 viene utilizzato in alcuni strumenti finanziari per attrarre investimenti legati a obiettivi che dovrebbero essere di sostenibilità ma che in realtà non hanno alcuna ricaduta positiva sul clima. Si tratta dei Sustainability-Linked Bonds e rischiano di essere, se non lo sono già, un'enorme operazione di greenwashing istituzionalizzato.


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