SOCIETÀ

Human induced climate change, climate induced migration: verso la prossima Cop

Quasi ciascuno di noi, quasi tutti noi sapiens siamo in vario modo legati ai luoghi dove siamo nati e ci hanno svezzato. Probabilmente qualcosa del genere valeva anche per le specie umane che ci hanno preceduto e vale da sempre per gli individui di quasi tutte le specie senzienti, tantissime, estinte e viventi. Visto che alcuni ecosistemi sono più ricchi o più raggiungibili di altri rispetto ai fattori biotici presenti, la stessa distribuzione della vita sulla Terra ha una decisiva dimensione geografica di quantità e di qualità, di intreccio e di sistema, sicché l’evoluzione delle varie “nicchie” ha condizionato l’evoluzione delle specie, delle singole specie, di ogni specie nella relazione con le altre e pure delle speciazioni. Vi sono molteplici discipline che studiano tutto ciò e Homo sapiens ha iniziato solo di recente ad assumere una dimensione decisiva per gli interi ecosistemi e per le altre specie, elemento inedito e relativamente ignoto nelle possibili conseguenze.

Per centinaia di migliaia di anni, dunque, come ci siamo capitati e distribuiti noi sulla Terra non è generalmente dipeso da una libera consapevole scelta, né per l’intera specie e le sue comunità, né per il singolo individuo e i suoi parenti stretti. Ciò vale relativamente ancora adesso e nel prossimo futuro, pur se i gradi di libertà e di consapevolezza da qualche millennio hanno iniziato a crescere, da qualche secolo sono divenuti significativi per la storia e la geografia globali. Tuttavia, ancor oggi pochi genitori possono dichiarare di aver liberamente consapevolmente scelto il proprio nido, la propria “nicchia” e il proprio contesto, dove nascere loro e dove far nascere i propri eventuali figli (se li hanno potuti generare), sia esso lo stesso ecosistema loro (come nella maggior parte dei casi) oppure siano successivamente migrati altrove.

Nella cultura orale o scientifica (non solo occidentale) il ruolo enorme di fattori “esterni” ha talora determinato un certo discutibile “determinismo” in più di una disciplina biologica o sociale e in più di una dinamica collettiva o psicologica, tutto o quasi diventa automatico o prevedibile, tutto o quasi non dipende certo da me. Studiare cicli, meccanismi, costanti anche nei sistemi complessi non comporta assumere le idee dell’inevitabilità degli eventi fisici, le meccaniche consecuzioni causa-effetto, le logiche binarie. Tutt’altro. Restano fermi i vari meccanismi fondamentali dell’evoluzione (almeno quattro), già sostanzialmente descritti da Charles Darwin (prima della genetica) e sempre richiamati da Luca Luigi Cavalli Sforza: il caso, ovvero mutevoli, rari e spontanei cambiamenti ereditari; la necessità, ovvero la selezione naturale che favorisce in modo tutto automatico chi è più in grado di continuare la specie; la deriva genetica e la migrazione. Soprattutto gli ultimi due furono molto studiati dallo straordinario scienziato e genetista italiano, che molto contribuì a fondare la nuova genetica delle popolazioni, rifiutando ogni determinismo genetico, biologico, geografico o climatico.

Purtroppo i fenomeni migratori delle specie e degli umani antichi e moderni non hanno finora conquistato autonoma unitaria attenzione scientifica globale; ancora oggi larga parte di paleoscienziati, etologi, botanici, biologi evoluzionistici e antropologi usano riferirsi al migrare senza verifiche terminologiche, interdisciplinari, storiche e comparate. Certo, all’interno della storia e della geografia delle migrazioni umane sono emerse innumerevoli variabili di fughe e partenze, di gruppi e di abbandoni, di motivi e di transiti, di arrivi e invasioni. La nostra specie ha mostrato grandi flessibilità e duttilità, a dispetto ulteriore di ogni determinismo climatico. Ci siamo costruiti un confine di nicchia più o meno angusta in ogni ecosistema, ci siamo aperti alla vita quasi in ogni ambiente, abbiamo comunicato e ci siamo organizzati, finché, paradossalmente, sempre più negli ultimi decenni quasi ogni individuo metropolitano si è in pratica “dissociato”, ha una sua nicchia ambientale e sociale che quasi prescinde dall’ecosistema specifico e globale, potrebbe in teoria migrare ovunque.

Istinti e stimoli, programmi di comportamenti iscritti nei gruppi di geni e concatenazione di comportamenti determinano meno automatismi via via che le intelligenze ed esperienze di specie si misurano con la geografia e la storia della sopravvivenza e della riproduzione. Oppure determinano automatismi diversi, originali, più complessi da decifrare, sia sul piano individuale che sul piano collettivo, inclinazioni climatiche e sociali intrecciate a trasformazioni ambientali e culturali, tentativi di condizionare dall’esterno le reazioni di individui e gruppi. Non determinano necessariamente automatismi più liberi, una lineare liberazione da istinti primordiali. Non si tratta di questo. È forse un altro paradosso antropologico. In tal senso, la geografia e la storia della distribuzione umana sul pianeta Terra meritano ricerche anche da altre angolazioni, non solo il continuo aggiornamento di quando davvero per la prima volta un gruppo di sapiens è giunto di punto in punto (sulle mappe) in ogni continente, in ogni isola e in ogni anfratto, da nord o da sud, da est o da ovest.

Siamo o meno oggi (e da un po’) nell’era dell’Antropocene, la nostra resta una singola specie vivente, presente su nicchie dell’ecosistema globale (più acquatico che terrestre). Uno studio recente suggerisce di introdurre un criterio discriminante, l’evoluzione della temperatura nei vari ecosistemi, molto utile ai tempi della climate-induced migration conseguente allo human induced climate change. È uscito nel 2020 uno studio interessante, via via sempre più citato e ripreso: “Future of the Human Climate Niche” pubblicato sulla rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences), realizzato da un team scienziati provenienti da Cina, Stati Uniti ed Europa, che propone una ricostruzione degli insediamenti neolitici a partire dalla temperatura nelle varie longitudini (i meridiani) e soprattutto latitudini (i paralleli).

Attraverso una notevole rielaborazione di letteratura e documentazione gli autori mostrano che:

for millennia, human populations have resided in the same narrow part of the climatic envelope available on the globe, characterized by a major mode around 11 °C to 15 °C mean annual temperature (MAT). Supporting the fundamental nature of this temperature niche, current production of crops and livestock is largely limited to the same conditions, and the same optimum has been found for agricultural and nonagricultural economic output of countries through analyses of year-to-year variation… In a business-as-usual climate change scenario, the geographical position of this temperature niche is projected to shift more over the coming 50 y than it has moved since 6000 BP

Apparentemente, le condizioni “esterne” per la prosperità umana (relativamente migliore sopravvivenza e riproduzione) sarebbero rimaste perlopiù le stesse nel Neolitico o almeno da ottomila anni a questa parte (nel periodo in cui esistono dimensioni molto affidabili del clima terrestre e della popolazione umana). Varie figure riassuntive corredano il testo per meglio rappresentarsi la distribuzione umana. Sembra evidente esista una sorta di fascia latitudinale a più ampia e stabile presenza umana, ovviamente con frontiere mutevoli verso nord e verso sud. Non si possono tracciare con un rigo sulla carta, non si tratta di confini istituzionali. Le variazioni del clima e le vicende sociali ci hanno fatto spostare spesso in massa, tuttavia sulla scala dei millenni la parte centrale e quell’intera fascia ci dicono molto, anche per il futuro.

Sappiamo che l’incertezza aumenta man mano che si torna indietro nel tempo. Tuttavia, sono stati analizzati due insiemi indipendenti di ricostruzioni disponibili, trovando conferma che già nel 6000 a.C. gli esseri umani fossero concentrati all'incirca nello stesso sottoinsieme della temperatura disponibile a livello globale, nonostante i sapiens in quel momento vivessero in modo del tutto diverso da oggi, soprattutto nelle prime fasi stanziali dell'allevamento-coltivazione o come cacciatori-raccoglitori mobili. La contingenza storica, comprendente pure la dipendenza dai percorsi praticabili e dalle modalità di spostamento, può svolgere un ruolo nell’estensione della fascia prevalente, il centro più caldo, gli estremi un poco più freddi, anche su continenti diversi inframezzati da mari e oceani, anche considerando gli altri fattori biotici e abiotici di ogni ecosistema (le condizioni geologiche, i rilievi, le acque, la biodiversità delle specie), insieme ai contesti umani, culturali e amministrativi.

Ai giorni nostri la possibilità di predisporre simili mappe climatico-riproduttive esiste per ogni specie vegetale e animale, inoltre le nicchie di temperatura variano fra le specie, così come le probabilità di sopravvivenza agli estremi, il ruolo della disponibilità di acqua palatabile o altri caratteri delle condizioni di vita di una specie, gli stessi rischi di estinzione. Forse avrebbero un valore significativo anche per i tempi umani prima del Neolitico, quando si alternavano le vere e proprie ere glaciali e sopra o sotto la fascia temperata tendevamo a non esserci proprio. Ancora una volta, attenti a ogni determinismo: nell’evoluzione talvolta è proprio l’improbabilità di resistenza o resilienza o adattamento ad accrescere capacità e abilità di una specie, soprattutto di una specie “meticcia” da decine di migliaia di anni come la nostra, meticcia anatomicamente e culturalmente fuori e dentro quella fascia.

In questi ottomila anni vi sono poi state comunque globali grandi siccità e piccole ere glaciali, scientificamente rilevate e note, non solo fluttuazioni cicliche locali e cambiamenti “motivati” del clima nei vari ecosistemi. Il valore esplicativo di quella fascia per la ampia maggioranza della popolazione umana (in costante crescita) appare come un dato utile per il nostro futuro sapiens sulla Terra, su questo gli autori insistono molto, dedicando molto spazio alla climate induced migration e spiegando sinteticamente:

Populations will not simply track the shifting climate, as adaptation in situ may address some of the challenges, and many other factors affect decisions to migrate. Nevertheless, in the absence of migration, one third of the global population is projected to experience  a MAT >29 °C currently found in only 0.8% of the Earth’s land surface, mostly concentrated in the Sahara. As the potentially most affected regions are among the poorest in the world, where adaptive capacity is low, enhancing human development in those areas should be a priority alongside climate mitigation.

Le popolazioni umane sono in gran parte concentrate in fasce climatiche ristrette, in particolare nei luoghi in cui la temperatura media annuale è di circa 11-15°C mentre un numero ridotto di persone vive in luoghi in cui la temperatura media è di circa 20-25° C. Una nicchia climatica costante nella storia dell’umanità che vi ha trovato le condizioni ottimali per consentire alla specie di sopravvivere e prosperare. La ricerca evidenzia che, e le emissioni di gas serra continueranno ad aumentare (nella misura dei vari scenari plausibili, esaminati dall’Ipcc), il costante aumento della temperatura porterebbe circa il 30% della popolazione mondiale ad abitare entro 50 anni in luoghi con una temperatura media superiore ai 29 gradi, condizioni climatiche che attualmente si sperimentano solo sullo 0,8% della superficie delle terre emerse (principalmente nelle parti più calde del Sahara). Ciò significherebbe che 3,5 miliardi e mezzo di personefinirebbero per vivere al di fuori della “nicchia climatica” in cui i sapiens hanno preferito sopravvivere e riprodursi nei millenni, secoli e decenni scorsi, “prosperando” in vario modo.

Centinaia di milioni e forse qualche miliardo di individui, esposti al caldo estremo, potrebbero prendere in considerazione di emigrare nei prossimi decenni, pur preferendo non farlo e restando in larga parte disponibile all’adattamento locale, oltre a quelli che saranno comunque costretti alla fuga dalla sommersione di coste e da eventi estremi. Sarebbe commendevole e proficuo che prendessero nota di tutto ciò quanti si stanno organizzando per partecipare ai lavori della ventisettesima Conferenza delle parti sui cambiamenti climatici, la Cop27 (nella discutibile sede egiziana) a Sharm El Sheikh dal 6 al 18 novembre o per seguirne i lavori a distanza, nel trentesimo anniversario della firma della Convenzione quadro a Rio in Brasile. Nonostante gli annunci, le promesse e, soprattutto, i drammatici appelli del mondo scientifico, appare sempre più difficile mantenere l’aumento della temperatura globale entro gli 1,5 gradi centigradi in questo secolo.

Dalla precedente Cop26, le emissioni hanno raggiunto livelli record (mentre prima erano un pochino scese a causa dei lockdown per la pandemia di Covid-19). Solo quest’anno abbiamo assistito a decine di disastri catastrofici, dalla siccità nel Corno d’Africa alle inondazioni in Pakistan, Sudafrica e Australia, passando per gli incendi e le ondate di calore in Europa, Stati Uniti, Mongolia e Sudamerica.

Eppure, a fine ottobre meno di venti paesi hanno fornito aggiornamenti e solo pochi hanno delineato nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni o impegni di emissioni nette zero. Tanto meno, sono stati finora stanziati i fondi annunciati per l’adattamento. Ormai sappiamo che tanti saranno costretti a migrare forzatamente a causa di esterni “cambiamenti”, sia meteo improvvisi (le fughe dagli eventi estremi) che inesorabilmente lenti (come l’innalzamento del mare e l’impoverimento di acqua dove ce ne era già poca). Gli scienziati dello studio citato prendono in considerazione i vari scenari predisposti dall’Ipcc (che evidenziano pure le aree di emigrazione forzata) e, sulla base della storia passata, ci dicono anche le aree di probabile immigrazione forzata. A Parigi si era fatto un piccolo passo per tener conto della climate induced migration, poi più nulla; i nuovi studi indurranno a una svolta culturale, politica, finanziaria per riconoscere i profughi climatici?

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