SOCIETÀ

L'Europa che lavora, regione per regione

Le differenze ci sono, si vedono e sono misurabili. Come tra le regioni italiane, anche tra le regioni europee i dati economici, sociali e ambientali ci mostrano un’Europa tutt’altro che omogenea. Ma, soprattutto, mostrano quanto poco la dimensione dello stato nazionale sia rappresentativa ormai di come vivono le persone nei diversi territori, rurali e urbani, centrali e di periferia, dell’Unione, delle loro reali opportunità, dell’accessibilità a servizi essenziali e perfino della dimensione culturale e educativa. Anche perché ci sono stati molto diversi come dimensione e popolazione, per cui risulta difficile ad esempio mettere a confronto Malta (mezzo milione di abitanti) con la Germania (più di 83 milioni di abitanti), e anche come struttura: l’Irlanda rimane un paese relativamente poco urbanizzato (meno di un terzo della popolazione vive in una città sopra i 50mila abitanti) mentre l’Olanda, al contrario, ha una popolazione prevalentemente urbana (circa 8 persone su 10 vivono in città), come ben dimostra l’immagine qui sotto, presa da Eurostat.

La fotografia di riferimento ci è resa possibile appunto dall’ultimo Eurostat regional yearbook 2020, sull’Europa delle regioni dell’Unione Europea ma anche di altre regioni che si trovano in territorio europeo pur non facendo parte della UE. I dati sono articolati su tre assi: persone e società (che quest’anno si arricchisce di un capitolo sulle living conditions, con un forte focus sui diritti sociali che sappiamo essere stati messi in forte crisi negli ultimi anni particolarmente in alcuni paesi dell’Unione); economia; ambiente e risorse naturali, anch’esso una new entry che punta a monitorare gli sviluppi in merito alla messa in atto del Green New Deal che la Commissione di Ursula Von Der Leyen ha avviato appena insediata.

Il report Eurostat prende in considerazione gli ultimi dati disponibili, tra 2018 e 2019 e quindi, naturalmente, non c’è nulla che riguardi l’impatto di Covid-19. Ma proprio per questo, si legge nelle prime pagine, diventa essenziale monitorare in modo raffinato i territori, che senz’altro subiranno pressioni, modifiche, impatti anche molto diversi a seconda dell’andamento della pandemia a livello locale. Come sappiamo, la pandemia in corso avrà un forte impatto soprattutto sulle economie europee, tanto che molto si discute in questi mesi dei meccanismi di supporto ai paesi per politiche di rilancio economico e sociale. I dati regionali, dunque, diventano un modo per ragionare sul presente ma anche sulle prospettive per le popolazioni europee e per questo, al di là delle tabelle e delle mappe, provare a interpretarli ci dà degli elementi di comprensione dello stato dell’Unione Europea. 

Ci concentreremo dunque in questa analisi soprattutto sulla dimensione economico-sociale, per lasciare quella ambientale e altri parametri socio-culturali a un’altra puntata.

Investire in ricerca&sviluppo

Partiamo dalla dimensione che abbiamo analizzato proprio qui, in un articolo molto recente, gli investimenti in Ricerca e Sviluppo (Research and Development - R&D) come parametro che aiuta a capire chi sta innovando nel settore privato e quindi fa propri gli sviluppi possibili offerti dalla tecnologia e dalla scienza non solo per rimanere sul mercato ma per aprire nuove direzioni e potenzialità.

L’ultimo report statistico su Ricerca e sviluppo in Italia pubblicato dall’ISTAT il 21 settembre scorso metteva in evidenza una profonda differenza in termini di investimento privato in ricerca e sviluppo tra le regioni italiane. Come scrivevamo nell’articolo che prendeva in esame quei dati, alcune regioni del nostro paese presentavano nel 2018 un investimento privato in tecnologia e ricerca a livello delle più virtuose aree d’Europa. 

Andando a confrontare l’investimento in R&S come frazione del prodotto interno lordo, sei regioni italiane hanno investito nel 2018 più della media europea dell’1,41% (considerandola a 28 membri). Si tratta di Piemonte: (2,17%), Lazio (2,15%), Friuli-Venezia Giulia (2,07%), Emilia-Romagna (2,03%), la Provincia autonoma di Trento (1,56%) e la Toscana (1,55%). Di poco sotto alla media europea è risultata una regione a forte presenza imprenditoriale, anche innovativa, come il Veneto (1,38%) e anche la regione che viene spesso considerata la locomotiva dell’economia italiana, la Lombardia (1,33%).

A guardare i confini regionali con le lenti dell’investimento privato in ricerca e sviluppo si tracciano geografie un po’ diverse da quelle che gli adagi popolari hanno ormai reso stereotipiche. Per esempio, notando che è soprattutto la mancanza dell’investimento pubblico (sia da parte di università, sia degli enti e delle istituzioni pubbliche) a segnare il divario tra il nostro paese e il resto dell’Europa. Ecco, allora una mappa che può aiutare a osservare in modo diverso il continente europeo. Rappresenta le regioni europee in relazione all’investimento in ricerca e sviluppo, in questo caso parametrato per abitante. Potete scorrere la scala in alto a destra per evidenziare le differenze tra le regioni.

Da una parte alcune conferme, ovvero che gli investimenti in R&S sono nettamente maggiori nelle regioni tedesche e in quelle scandinave. Le due regioni che investono di più sono quelle di Stoccarda e Braunschweig (oltre 3800 euro per abitante), quelle che investono meno quelle dell’area balcanica, in alcuni paesi, come per esempio la Romania, dove nei decenni passati si è andati alla ricerca di manodopera delocalizzata a basso costo.

Ma sorprende vedere che i dati che riguardano Londra, la capitale finanziaria del Vecchio Continente, sono a livello dei primi della classe solamente nell’area di Inner London West: il resto della città è su livelli decisamente più bassi, toccando il minimo nelle zone nord orientali della cosiddetta Outer London: appena 78 euro investiti in ricerca e sviluppo per abitante nel 2018. A testimoniare che a livello più granulare, lo scenario si presenta più complicato e a macchia di leopardo: insomma Londra non è tutta sinonimo di investimenti per il futuro. 

Guardando le regioni italiane che i dati dell’ISTAT avevano individuato come oltre la media europea degli investimenti in termini di percentuale sul PIL, si scopre che si comportano bene anche guardando il loro investimento per abitante. Per alcune, anzi, va addirittura meglio: l’Emilia-Romagna, per esempio, nel 2018 ha investito 736,4 euro per abitante, risultando la più munifica. E non ha solamente superato Piemonte, Veneto e Lombardia, ma anche la Catalogna (469,1 euro per abitante), la Comunidad de Madrid (599 euro), l’Area Metropolitana di Lisbona (421,8 euro). Pur non avendo una città delle dimensioni delle due capitali o di Barcellona, con il proprio tessuto imprenditoriale, l’Emilia-Romagna risulta quindi una regione che investe molto in R&S. 

Ma anche allontanandosi dalle aree mediterranee del continente, l’investimento emiliano-romagnolo risulta in linea con le regioni della Danimarca, con la sola eccezione della regione di Copenhagen, e di molte regioni del Benelux.

I dati della disoccupazione

Il tema degli investimenti in ricerca, lo abbiamo ricordato più volte da queste pagine, è strettamente legato anche alle opportunità di crescita nel mondo del lavoro e quindi, in un certo senso, ai dati relativi all’occupazione e disoccupazione. La mappa del tasso di disoccupazione, come vediamo qui sotto, è in effetti complementare a quella degli investimenti in ricerca. Dove si investe di più, il tasso di disoccupazione è più basso. 

Vale la pena ricordare, per inquadrare meglio il problema, che il tasso di disoccupazione è calcolato prendendo in considerazione la quota della popolazione potenzialmente lavorativa (15 o 16 anni di età per l’inizio, a seconda dei paesi, e 74 anni per la fine della vita lavorativa) che non sta lavorando nella settimana in cui viene effettuata la raccolta dei dati ma è disponibile a lavorare nelle successive due settimane e ha cercato attivamente lavoro nelle precedenti quattro settimane. Si tratta dunque sempre di una parte, più o meno consistente, della popolazione di riferimento in età lavorativa e non include tutta la popolazione dentro quella fascia anagrafica.

Più specificamente, tra le regioni con il più alto tasso di disoccupazione ci sono le regioni del Sud Italia, quelle della Grecia, del Sud della Spagna oltre a una parte del territorio macedone, serbo e montenegrino.

Il tasso di occupazione

Nell’agenda Europa 2020 l’obiettivo era quello di arrivare a un tasso di occupazione del 75%. Nel 2019, la media europea per i 27 paesi dell’Unione è arrivata al 73%, crescendo progressivamente anno dopo anno dal 63% del 2013. Ma le differenze sono enormi com’è evidente dalla mappa qui sotto.

Le regioni in blu hanno più del 75% della popolazione in età lavorativa effettivamente impiegata. Nel 2019, circa 111 regioni sul totale delle 240 dell’Unione hanno superato questa soglia. Sono quelle dei paesi scandinavi, delle repubbliche baltiche, della repubblica Ceca, della Danimarca, della Germania, della Gran Bretagna, del Sud del Portogallo e, per l’Italia, della sola Emilia-Romagna. In alcune zone della Germania e della Svezia e in una regione della Finlandia si arriva addirittura attorno all’85%. 

Al contrario, più di metà delle regioni europee hanno un tasso di occupazione più basso della media. E, purtroppo, tre su quattro delle regioni con il tasso peggiore, sotto il 50%, sono in Italia: Sicilia, Campania e Calabria. Qui, meno della metà della popolazione in età lavorativa risulta impiegata.

In generale, dice Eurostat, il tasso di impiego è più basso nelle zone rurali e in alcune zone periferiche oppure nelle regioni che avevano un forte ruolo nell’epoca industriale che ma che risultano ora semi-abbandonate, come alcune regioni estrattive o di grande manifattura, fortemente impattate dallo sviluppo dell’economia su scala globale con un netto spostamento delle produzioni e dei trasporti in altre zone del pianeta.

Un dato molto rappresentativo dell’epoca che stiamo vivendo è quello del tasso di impiego dei lavoratori delle fasce più alte di età. Ci sono infatti marcate differenze tra la presenza nel mondo del lavoro degli ultra 55enni tra i paesi e le regioni europee. Un dato che molto dice sia sull’invecchiamento progressivo della popolazione europea che sulle dinamiche del mondo del lavoro è questo: nel 2002, c’erano 17 milioni di lavoratori tra i 55 e i 64 anni di età. Nel 2019, erano già 35,2 milioni, più del doppio. In totale, in questo periodo, la forza lavoro europea è aumentata di 20,4 milioni. Dunque, l’aumento è stato soprattutto nella fascia 55-64, quasi il 90% del totale dell’incremento. Ma la distribuzione riflette molto altri dati: la disponibilità di un sistema pensionistico (pubblico o privato) solido e sufficientemente capace di supportare le persone una volta terminata la vita lavorativa; lo stato di salute; la tipologia di impiego svolta nel corso della vita, e quindi la sostenibilità del continuare a svolgere le mansioni lavorative anche in età più avanzata. E poi, il tasso di istruzione. Non c’è dubbio che nelle regioni dove la popolazione in età più avanzata hanno avuto comunque una educazione terziaria, quindi sono laureate, le persone rimangano al lavoro più a lungo, a indicare che un grado di istruzione più alto solitamente è correlato con una vita lavorativa più lunga.

D’altro canto, anche l’altra coda del mercato, quella dell’occupazione e disoccupazione giovanile, è osservata speciale dal sistema di monitoraggio degli istituti di statistica e dunque anche da Eurostat. 

Nel complesso, il tasso di disoccupazione della fascia di età 15-24 anni nell’Europa dei 27 è passato dal 24,4% del 2013 al 15,1% del 2019. Un dato che è comunque quasi doppio rispetto al tasso di disoccupazione medio europeo, che è del 6,7%. Anche in questo caso vale la pena di precisare, ancor più che nella popolazione generale, che si tratta di una sottopopolazione rispetto al totale dei giovani nella fascia di età considerata, ossia della popolazione dei giovani in cerca di lavoro. Quindi non significa che 15 ragazzi su 100 sono disoccupati, prendendo il dato del 2019, ma che lo sono 15 su 100 di quelli che stanno cercando lavoro. Talvolta, per mettere il dato nella giusta prospettiva, si usa infatti il rapporto tra i giovani disoccupati e l’intera popolazione giovanile, che è ovviamente assai più basso, perché in quella fascia di età molti giovani sono ancora impegnati nei percorsi di studio e non stanno cercando un lavoro.

Ancora una volta non siamo sorpresi purtroppo dal fatto che la disoccupazione giovanile è assai più alta nelle regioni dell’Europa del Sud, come mostra la mappa qui sopra. La Sicilia è la regione italiana con il peggior tasso, che arriva al 50%.

I tassi più bassi si osservano in alcune zone della Germania e della repubblica Ceca. Ma questo dato va anche letto insieme ad altri due elementi: da un lato l’aumento del numero di ragazzi e ragazze che rimane all’interno di un percorso di educazione terziaria e quindi non va in cerca di un lavoro e dall’altro la diminuzione netta della popolazione giovanile in alcune regioni. Per esempio, Praga ha visto un vero tracollo della sua popolazione di 15-24enni, che tra il 2000 e il 2019 è diminuita di più di un terzo. Se ci sono meno giovani, ce ne sono anche meno in cerca di un lavoro e quindi è possibile che questi siano più richiesti dal mercato. 

Infine, un altro dato molto interessante è quello dell’impiego di personale femminile: nessuna regione europea ha una totale parità tra i tassi di impiego maschile e femminile. Anzi, se la media europea è, come abbiamo detto, del 73%, quella maschile arriva quasi al 79% mentre quella femminile si ferma al 67%. Ma la differenza tra regioni e regioni è drammatica. E così vediamo nell’immagine sottostante una serie di grafici che ci fanno vedere quali sono le regioni con il più alto tasso di parità nelle percentuali di impiego (nessuna regione italiana è presente) e quelle con il più basso, o detto in altre parole, con il più alto gender gap in termini di tasso di impiego. E qui, su dieci regioni, cinque sono italiane. Il grafico offre anche informazioni sulle regioni dove il salary gap, ossia la differenza in termini di remunerazione tra i due sessi, è più basso.

Uno degli strumenti messi in campo per ridurre le differenze in termini di opportunità lavorativa in Europa è il Fondo sociale europeo (ESF), che mette a disposizione diversi bandi e finanziamenti per supportare iniziative di formazione e di avvio al lavoro, con un occhio particolare per i lavoratori più giovani o quelli più anziani, per le donne e per le minoranze. Un sito che consente il monitoraggio delle politiche di coesione e l’impiego dei finanziamenti dell’ESF è OpenCoesione, aggiornato trimestralmente e ricco di dati e riferimenti per capire dove e come vengono spesi questi fondi nel nostro paese.

Europa delle regioni: una via per la coesione

E coesione è la parola chiave del presente e soprattutto del futuro dell’Europa. Molti osservatori guardano infatti all’Unione europea anche come una possibile alleanza di regioni e di comunità che potrebbe rappresentare un'opportunità di superamento dei sovranismi che negli ultimi anni si stanno facendo più forti e presenti. In questa direzione va senz’altro il comitato europeo delle regioni, lo European Committee of the Regions (CoR) creato già a metà degli anni ‘90 e composto di 329 membri, rappresentanti delle regioni o sindaci di comunità locali. Nel corso degli anni questo comitato è stato rafforzato e nel 2019 ha lanciato una serie di proposte per la neo-eletta Commissione orientate al rafforzamento delle basi democratiche dell’Unione; al miglioramento della sua governance e della sua competitività; alla messa a punto di una strategia di lungo periodo che tenga insieme la sostenibilità a tutti i livelli di governo nel rispetto e anzi nel rafforzamento dei valori fondanti dell’Unione stessa. Per promuovere questo cambiamento è nata una vera e propria colazione, la #CohesionAlliance, di persone, associazioni, organizzazioni e istituzioni locali, costituita attraverso un processo allargato di partecipazione e consultazione, con lo scopo di rafforzare molto le politiche di coesione dell’Unione Europea dal 2020, attraverso il Framework di investimenti e il Recovery Plan per ridurre le disparità regionali, creare posti di lavoro e nuove opportunità di investimento e di business così come per affrontare alcune delle più pressanti questioni ormai diventate emergenze, come quella climatica e quella migratoria. 

Il monitoraggio attento dei dati non solo a livello nazionale, dunque, ma proprio a livello regionale sarà sempre più la chiave attraverso cui valutare l’andamento, il progresso e l’evoluzione delle politiche di coesione e dunque la riuscita, o meno, dell’ambizioso progetto di una Unione Europea sempre più competitiva, sostenibile e democratica.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012