SCIENZA E RICERCA

Microbi, permafrost e ultra-emettitori: perché le concentrazioni di metano sono in aumento

Sul finire del 2021 per la prima volta da almeno 800.000 anni, come stima anche l’ultimo rapporto dell’IPCC, i livelli di concentrazione di metano in atmosfera hanno superato quota 1.900 parti per miliardo (ppb). Secondo i dati pubblicati dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa) statunitense, si tratta della singola crescita annuale più alta degli ultimi decenni: 15,67 ppb in un anno superano di gran lunga i 14,05 ppb del 1991.

Il metano (CH4) è un gas a effetto serra che ha un potere climalterante decine di volte superiore a quello dell’anidride carbonica (CO2). Un rapporto dell’Unep, il programma ambientale dell’Onu, pubblicato l’anno scorso ha mostrato che rilasciamo ogni anno in atmosfera circa 380 milioni di tonnellate di metano. La maggior parte proviene da fonti antropiche quali l’estrazione, la lavorazione e il trasporto dei combustibili fossili, le discariche di rifiuti e le attività agricole. Circa un terzo del totale è responsabilità della sola industria dei combustibili fossili e più in particolare delle perdite (leaks) di metano dalle condutture e dai siti di estrazione e stoccaggio.


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Un consorzio di Paesi (tra cui Unione Europea e Stati Uniti) l’anno scorso ha stretto un patto, ribadito anche alla Cop26 di Glasgow, noto come Global Methane Pledge, volto a ridurre del 30% almeno le emissioni di metano odierne entro il 2030. Un simile sforzo farebbe risparmiare un aumento di circa 0,3°C delle temperature globali, facendo guadagnare tempo prezioso nella lotta al cambiamento climatico.

Nonostante i buoni propositi però, e nonostante le variazioni annuali nella concentrazione in atmosfera di metano siano calate negli anni ‘90 e nei primi anni 2000, dal 2007 sono tornate stabilmente a salire. Le ragioni di un simile trend tuttavia non sono del tutto chiare agli scienziati, che ne stanno indagando le cause.

Diverse sono le ipotesi messe in campo per spiegare questo fenomeno: un maggiore sfruttamento dei combustibili fossili, un aumento dei rifiuti nelle discariche, più allevamenti di bestiame o una crescente attività microbica nelle paludi e nelle zone umide.

Colpa dei microbi

Un lavoro pubblicato l’anno scorso su Global Biogeochemical Cycles suggerisce che la fetta più grande di responsabilità sia dei microrganismi. La maggior parte del carbonio presente in natura, come spiega Jeff Tollefson su Nature, è il carbonio-12, il cui nucleo è composto da 6 protoni e 6 neutroni. Talvolta capita che le molecole di metano contengano un isotopo del carbonio più pesante, il carbonio-13, composto di 6 protoni e 7 neutroni. Quest’ultimo si trova solitamente sotto la superficie terrestre (in condizioni di calore e pressione più elevate) e viene rilasciato dalle attività di estrazione di combustibili fossili. Il metano prodotto dall’attività metabolica dei microrganismi che si trovano nelle zone umide o nell’apparato digerente dei bovini contiene invece pochi atomi di carbonio-13.

Studiando il metano intrappolato per secoli nei ghiacci, e quello rilasciato in atmosfera, il lavoro ha mostrato che dalla rivoluzione industriale in avanti il metano contenente carbonio-13 è progressivamente aumentato. Ma dal 2007 la sua proporzione rispetto al metano complessivamente emesso è drasticamente diminuita. Ciononostante le quantità di metano immesse complessivamente in atmosfera sono andate aumentando. La conclusione tratta dagli autori dello studio è che l’aumento di emissioni di metano in atmosfera degli ultimi 15 anni potrebbe essere dovuto principalmente a una crescente attività microbica, che appunto produce poco metano contenente carbonio-13.

Che cosa questo comporti per i tentativi contenere l’aumento del riscaldamento globale non è ancora chiaro ai ricercatori. Ma governare i microrganismi potrebbe non essere un affare semplice.

Colpa dello scioglimento del permafrost

Un’altra imprevista fonte di rilascio di metano in atmosfera potrebbe venire dallo scioglimento del permafrost artico. Nell’estate del 2020 è stata registrata un’ondata di calore eccezionale nelle regioni sub-artiche: nel nord della Siberia, nella penisola del Taymyr, la concentrazione di metano in atmosfera è aumentata considerevolmente.

A preoccupare gli esperti non è soltanto il metano prodotto dai microrganismi nelle loro attività di decomposizione della materia organica (metano microbico) che lo scioglimento dei ghiacci sta gradualmente portando in superficie e rilasciando in atmosfera. Uno studio pubblicato su PNAS mostra che un ulteriore rilascio di metano potrebbe provenire direttamente dalla terra (metano termogenico), e più precisamente dal riscaldamento della superficie delle rocce carbonatiche che nei propri interstizi trattengono gas. La quantità di metano che verrebbe emessa in atmosfera tramite questo fenomeno ad oggi è difficilmente calcolabile, ma potrebbe dare un’accelerazione imprevista al riscaldamento globale.

Colpa degli ultra-emettitori

Nonostante il metano abbia un potere climalterante di molto superiore a quello della CO2, rispetto a quest’ultima la sua durata di vita in atmosfera è molto minore: circa 9 anni. Ciò significa che una riduzione delle emissioni di metano può recare benefici nel breve termine alle temperature del pianeta.

Un altro lavoro recentemente pubblicato su Science mostra che risultati notevoli si possono ottenere costringendo un numero relativamente piccolo di aziende dei combustibili fossili a ridurre le proprie emissioni di metano. Questo gruppo viene definito di ultra-emettitori, perché sono responsabili da sole dell’immissione in atmosfera di 8 milioni di tonnellate di metano ogni anno, l’equivalente di 250 milioni di tonnellate di CO2, ovvero la carbon footprint di 40 milioni di persone. Per individuare gli ultra-emettitori, lo studio ha utilizzato i dati satellitari del Tropospheric Monitoring Instrument (Tropomi) dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea).

Ma un’altra interessante mappa è stata pubblicata dal Goddard Earth Sciences Data and Information Services Center (GES DISC) della NASA: si tratta di un inventario globale delle emissioni di metano derivanti dallo sfruttamento dei combustibili fossili (quasi 100 milioni di tonnellate di metano annue).

Le maggiori fonti di emissioni si trovano in Russia e provengono principalmente dalle stazioni di compressione presenti lungo i gasdotti per comprimere il gas e mantenerlo in movimento. Tuttavia anche Paesi altamente dipendenti dal metano come l’Italia, la Germania e il Regno Unito sono grandi emettitori tramite le loro infrastrutture di trasmissione, distribuzione e stoccaggio.

Nonostante il metano sia uno dei fattori che più contribuiscono al riscaldamento globale e nonostante l’industria energetica che lo estrae e distribuisce sia responsabile di circa un terzo delle sue emissioni globali, l’Europa (ma anche l’Asia) sembrano non riuscire ad emanciparsi da esso. Prova ne è la l’inclusione del gas naturale nella tassonomia verde della Commissione Europea e la crescente domanda asiatica di gas che gradualmente sostituirà il carbone. Stando ai dati, una transizione basata sul gas non può dirsi veramente ecologica.

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