SOCIETÀ

Le recenti migrazioni europee 1945-2019: nessun popolo è autoctono

L’Europa non è composta di un unico popolo e nessuno dei popoli che vi vivono è autoctono. Siamo un continente meticcio, segnato da antichissimi insediamenti e stratificazioni, da immigrazioni ed emigrazioni, da ibridazioni fra specie umane, da intrecci fra culture, lingue, religioni, istituzioni, arti e scienze (per quanto alcune più diffuse di altre). Anche nell’ultimo secolo spesso chi si è inserito, più o meno bene, era qualcuno arrivato in fuga sopra una barchetta, magari un ragazzo lettone nel 1944 per sfuggire all’avanzata dell’Armata rossa sovietica, attraverso la costa orientale del Baltico fino a Lubecca nella Germania settentrionale, oppure una donna algerina nel 1962 per sfuggire alla persecuzione in patria dei musulmani harki schierati con la Francia nella guerra d’indipendenza, attraverso navi mercantili verso i porti di paesi della costa settentrionale del Mediterraneo. Oppure sono, soprattutto dal 2015 in poi, uomini donne e bambini centrafricani e asiatici sui barconi verso la Sicilia e le coste italiane. Dal passato e dal presente dell’Europa emergono innumerevoli storie di persone disperate, impegnate nella lotta per la sopravvivenza, a volte letteralmente inghiottite dal mare mentre tentano di raggiungere un luogo sicuro. Una cosa è certa: dalla fine della seconda guerra mondiale, tutti i principali sviluppi nell’Europa sono legati alla migrazione.

L’ottimo esperto storico inglese Peter Gatrell (4 giugno 1950), professore di storia economica all’Università di Manchester, dimostra la dipendenza contemporanea dei paesi europei dalle immigrazioni recenti con un corposo saggio appena pubblicato, L’inquietudine dell’Europa. Come la migrazione ha rimodellato un continente (traduzione di Anna Tagliavini e Maria Baiocchi), Einaudi Torino 2020 (orig. 2019), pag. 607 euro 36. Il termine usato è senza prefissi: migrazione, non immigrazione. Anche a prescindere dalle emigrazioni, parlare di “migrazione” per l’autore significa sia considerare anche i frequenti regolari viaggi di ritorno e, comunque, l’intenzione di non bruciare i ponti con il paese d’origine, sia valutare le traiettorie interrotte, i tragitti tra destinazioni diverse, gli affetti e gli interessi collocati contemporaneamente in più luoghi o ecosistemi umani. La migrazione verso l’Europa per motivi economici ha costantemente avuto un ruolo centrale in tutti i paesi e lungo tutti i settantacinque anni presi in considerazione. Almeno altrettanto significativa fu la migrazione interna ai singoli Stati europei, campagna-industria, periferia-metropoli, sud-nord o talora nord-sud, est-ovest o talora ovest-est. Ebbero, inoltre, un rilevante peso gli sforzi compiuti da tante nazioni per offrire ospitalità e protezione ai rifugiati, soprattutto a partire dalla Convenzione delle Nazioni Unite varata nel 1951, che all’inizio riguardava esclusivamente le popolazioni sfollate in seguito a eventi verificatisi in Europa prima di allora. 

Brutali processi di trasferimento obbligato, di “pulizie” sulla base di religioni o lingue, di tentativi di fuga e di ritorni dalle ex colonie si erano susseguiti per anni prima della metà del secolo scorso. Migrazioni forzate e pulizie etniche furono perpetrate tra il 1939 e il 1943 dalle dittature di Hitler e, diversamente, di Stalin che sradicarono, trapiantarono, deportarono e dispersero circa trenta milioni di persone; continuarono poi pure nell’Europa progressivamente liberata dai nazifascisti tra il 1943 e il 1948 quando, con il consenso delle potenze occidentali, avvenne un’ulteriore immensa operazione di trasferimento o ri-trasferimento di popolazioni, circa venti milioni di persone raminghe per il continente, perlopiù tedeschi. Mentre alla fine della prima guerra mondiale si erano ridisegnati prevalentemente i confini e i gruppi umani furono in genere lasciati dove si trovavano, dopo il 1945 accadde il contrario: con l’eccezione della Polonia, le frontiere rimasero sostanzialmente inalterate, mentre furono spostate intere popolazioni valutate come etnie da ricomporre, insieme a ex prigionieri e altri rifugiati, rendendo il legame territori-popoli-nazioni più omogeneo con la forza. Appare decisivo ricostruire la vicenda anche dal punto di vista di queste decine di milioni di migranti forzati.

Nei decenni successivi della seconda metà del secolo scorso il continente europeo visse intensi prolungati periodi di progresso economico, di miglior tutela sociale e d’incremento dei consumi, cui contribuirono i migranti (nel loro insieme, per la maggior parte arrivati con un qualche maggior grado di libertà, rispetto al passato recente), rendendo la nostra Europa più diversificata e cosmopolita. La libertà di circolazione divenne una pietra angolare della cooperazione europea, pur condizionata da opzioni di interesse nazionale, anche in relazione con il blocco separato dalla Cortina di Ferro (a sua volta, con propri importanti flussi migratori interni). E non mancarono mai, da nessuna parte, dinamiche di discriminazione legate ai migranti, di violenza inflitta da gruppi e singoli residenti ai nuovi arrivati. Quel che accade oggi non è certo una novità, secondo Gatrell, che porta ingente documentazione storica e bibliografica a sostegno della sua convinzione, con frequenti riferimenti alle migrazioni di italiani dall’Italia e di stranieri verso l’Italia.

L’autore si considera primarily a historian of population displacement in the modern world e ne ha ben donde, vista la mole di ricerche e saggi dedicati ai fenomeni migratori, in particolare a quello forzato, in particolare a quello dell’Est. Qui esamina il nostro aperto fluido continente nei tre quarti di secolo dopo il 1945, anno globalmente periodizzante. Sa di non poter offrire una storia lineare ed evenemenziale, che tutti i migranti hanno affrontato notevoli ostacoli burocratici ed economici e che la migrazione è oggi divenuta un campo di battaglia politico e culturale. La “barca” europea, tuttavia, non è una fortezza sovraffollata e, comunque, è stata costruita anche dai migranti, l’autore lo ricorda giustamente di continuo. Il bel volume inizia con undici mappe, memento preliminare indispensabile per capire come eravamo e quanto siamo cambiati nei confini degli Stati e dell’Unione. Seguono una trattazione ripartita in cinque periodi: Pace violenta, Guerra Fredda, ricostruzione (1945-1956); Decolonizzazione, lavoratori ospiti e sviluppo economico (1956-1973); Odissee in Europa (1973-1989); Riordinare l’Europa e gestire la migrazione (1989-2008); Dove va l’Europa, dove vanno i migranti (2008-2019). 

Vi è anche il prezioso corredo da un paio di inserti fotografici: il primo inizia con l’immagine di una funzionaria che scrive sulla lavagna di un ufficio Onu (Unrra, 1946) i numeri dei rifugiati di trenta paesi e prosegue con 24 foto o fotogrammi (da film) per fissare in bianco e nero struggimenti, sguardi, emozioni e “colori” di ogni migrare; il secondo illustra con 18 scatti altri luoghi e volti, le dinamiche degli ultimi decenni. Ognuno dei periodi storici esaminati filtra le vicende nazionali e le relazioni internazionali attraverso la lente del fenomeno migratorio, mai solo forzato, nemmeno nel primo periodo, anzi sempre più derivante da scelte individuali e collettive con qualche grado di libertà e di preventiva capacità. Il fenomeno e la prospettiva sono formalmente unici, ma da una parte ogni origine, ogni destinazione e ogni transito hanno specificità climatiche e sociali, dall’altra parte ogni giorno, ogni svolgimento e ogni trasferimento hanno altre specificità storiche e istituzionali. Non a caso si fa spesso riferimento a narrazioni letterarie e cinematografiche del migrare, che arricchiscono di comprensione qualitativa i dati sulle enormi quantità di eventi migratori, centimaia di milioni di donne e uomini che hanno migrato. 

L’autore considera con attenzione e precisione le migrazioni degli italiani in Europa, quella verso la nuova Repubblica federale tedesca fu davvero intensa. A partire dalla fine degli anni Cinquanta fino all’inizio dei Settanta, un inestinguibile fabbisogno di manodopera portò al metodico reclutamento di lavoratori stranieri (Gastarbeiter). Il primo accordo bilaterale per le assunzioni fu sottoscritto proprio con l’Italia nel 1955 (seguirono Spagna e Grecia nel 1960, Turchia nel 1961, Iugoslavia, Marocco, Portogallo, Tunisia e poi altri stati ancora). Il presupposto prevalente era che i lavoratori non avrebbero avuto il diritto di stabilirsi in Germania in via definitiva. Motivazioni e logiche dei provvedimenti normativi e dei comportamenti sociali rispondevano al modo diverso con cui si guarda alla emigrazione e alla immigrazione, alla prospettiva differente fra imprenditori di un paese e operai di un altro.

Le circostanziate fonti storiche, giornalistiche, culturali di Gatrell evidenziano quanto possa essere vasta la gamma delle motivazioni che inducono a migrare, ogni volta con un complesso carico emotivo, individuale e collettivo. Nei vari capitoli che compongono ogni periodo cronologico si affrontano dettagliatamente date e processi della geopolitica, prestando attenzione e cura sia ai popoli in movimento che alle comunità di arrivo e valorizzando le opportunità e gli intrecci che hanno arricchito i più. Inquietudini e paure sono comprensibili per ognuno dei soggetti in campo, alla prova dei fatti i benefici sono prevalsi quasi sempre e ovunque, reciproci e comuni. Il testo è denso e compatto, consapevolmente si parla meno delle emigrazioni fuori dall’Europa, quelle che hanno contribuito a rendere un poco anche europei tutti gli altri continenti. Comprensibilmente, non si accenna neanche alla recente dimensione Onu dei Global Compact. Una questione aperta, casomai, riguarda la definizione interdisciplinare del fenomeno, il confronto col passato remoto del continente e con l’origine degli Stati europei, la comparazione del contesto geomorfologico rispetto ad altri climi e continenti dove pure si è manifestato con la stessa cruciale rilevanza nel rendere inquieti e meticci i popoli.

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