SOCIETÀ

Ribelli per amore

Quali valori, quali modelli e dinamiche spinsero i giovani, in particolare credenti, a schierarsi contro il nazifascismo? È il tema del libro Una violenza “incolpevole”. Retoriche e pratiche dei cattolici nella Resistenza veneta, pubblicato nel 2021 per i tipi di Viella dallo storico Alessandro Santagata, ricercatore presso il dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali (SPGI) dell’università di Padova. 

Il volume prende spunto dalla recente storiografia, che sempre più negli ultimi anni ha sottolineato l’apporto cattolico alla Liberazione, per ricostruire le modalità di azione e gli ideali di coloro che parteciparono alla lotta partigiana in Veneto. “Il mio proposito non era quello di ricostruire le vicende dei cattolici nella Resistenza, sulle quali esistono già diversi studi – spiega lo Santagata a Il Bo Live –; l’obiettivo era piuttosto di indagare sulle rappresentazioni di quell’esperienza durante o subito dopo la guerra, mettendo a confronto la ricca bibliografia esistente con fonti di prima mano, a partire dalla stampa cattolica ufficiale e quella clandestina”.

Il quadro che emerge è complesso e composito, con i vescovi veneti che da una parte sono costretti a mantenere le relazioni con esponenti della Rsi e occupanti tedeschi, dall’altra tanti preti e religiosi che invece scelgono di contribuire attivamente alla Resistenza, con figure come don Giovanni Nervo (futuro padre della Caritas italiana) e don Giovanni Apolloni al Barbarigo, scuola cattolica diocesana che arriva a ospitare una vera e propria centrale cospirativa antifascista, i gesuiti dell’Antonianum e padre Placido Cortese alla Basilica del Santo. “Spesso l’episcopato non prende una posizione chiara e netta per ragioni di prudenza, anche per timore di conseguenze sulla popolazione civile – continua lo storico –. D’altra parte pesa però anche una tradizione di rapporti non conflittuali fascismo, a parte alcuni momenti di tensione come ad esempio per l’emanazione delle leggi razziali o con l’avvicinamento del regime fascista alla Germania. Vescovi come Agostini a Padova e Zinato a Vicenza sono comunque molto attenti a non legittimare ufficialmente la lotta partigiana: devono in qualche modo giocare su più tavoli, pur di fatto sapendo chi vincerà”.

Poi ci sono i laici, spesso provenienti dalla Fuci o dall’Azione Cattolica, “che però in qualche modo sono chiamati a cavarsela da soli: anche quando sono aiutati dal clero devono darsi autonomamente una motivazione di quello che fanno e come intendono farlo”. Per loro la lotta al nazifascismo nasce innanzitutto da un imperativo della coscienza e in quest’ottica diventa centrale la questione, già ampiamente indagata dallo storico Claudio Pavone, della  sua “moralità”, sia nei presupposti che nelle modalità. Per quanto riguarda i primi si prende spunto soprattutto dalla filosofia e dalla teologia scolastica: “La Chiesa ha una sua dottrina della guerra giusta: non dimentichiamo che tra le altre cose il clero cattolico aveva benedetto le guerre del fascismo e la conquista dell’Etiopia – puntualizza Santagata –. Essa è però essenzialmente rivolta agli Stati, mentre qui siamo di fronte a una guerra ‘irregolare’. Un’altra strada per legittimarsi potrebbe passare per la dottrina del tirannicidio elaborata da Tommaso d’Aquino, ma anche qui manca per l’avallo ufficiale della gerarchia. Per questo molti resistenti cattolici scelgono di richiamarsi al potere ufficialmente legittimo, ovvero il cosiddetto governo del sud; solo nell’ultima fase della guerra, soprattutto dopo i Protocolli di Roma del 7 dicembre 1944, emerge con forza l’autorità del Cln”.

Spesso i partigiani cattolici tendono quindi a presentarsi più come patrioti che come ‘politici’ e antifascisti: “Anche per questo si organizzano in ‘Brigate autonome’, da intendere come autonome dai partiti. Un dato che però corrisponde a una precisa scelta della Democrazia Cristiana, che solo alla fine della guerra le riconoscerà ufficialmente come proprie”. Per quanto invece riguarda le modalità della lotta partigiana, il criterio adottato è quello di limitare al massimo violenza e spargimenti di sangue, quindi anche i rischi di rappresaglia, nella costante ricerca di un equilibrio tra fini e mezzi. Entra qui in gioco la figura del ‘ribelle per amore’, che combatte la violenza nazifascista senza perdere la propria umanità e senza a sua volta disumanizzare il nemico, che nella sua versione più nobile arriva a non sparare nemmeno un colpo. Come nella “Beffa di Dolo” del 22 giugno 1944, quando i partigiani della brigata “Guido Negri” riescono a catturare un consistente bottino di armi senza fare vittime.

Un’azione condotta in collaborazione con i partigiani comunisti, e questo porta a un’ultima riflessione. Se le differenze (e le diffidenze) tra le varie anime della lotta partigiana erano forti, è vero anche che spesso in nome della libertà si riuscì ad andare oltre gli steccati ideologici. Il citato don Giovanni Apolloni collabora ad esempio con l’azionista Otello Pighin, il comandante “Renato” in seguito catturato e ucciso proprio nei pressi del Barbarigo. A sua volta un importante capo partigiano come Luigi Pierobon, pur cattolico, entra a far parte di una formazione intitolata ad "Ateo Garemi" e composta quasi totalmente da operai socialisti e comunisti. “Dante”, questo il suo nome di battaglia, sa che dopo la sconfitta dei nazifascisti i suoi compagni vorrebbero continuare a combattere per la rivoluzione, ma questo non gli impedisce di arrivare a guidare il battaglione (poi brigata) “Stella” sulle montagne sopra Recoaro. “Noi moriamo per l'Italia”, dice di fronte al plotone d’esecuzione assieme ad altri giovani incarcerati dai fascisti, e da lui prenderà nome un’altra brigata partigiana. Aveva appena 22 anni.

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