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Parte dei fondali marini vicino alla base permanente Casey, nelle Isole Windmill dell'Antartide orientale, è risultata inquinata quanto il porto di Sidney e di Rio de Janeiro. Il dato colpisce ed emerge da uno studio pubblicato recentemente su Plos One da un gruppo di ricercatori che hanno monitorato la presenza di metalli, idrocarburi, polibromodifenileteri, policlorobifenili e nutrienti nei sedimenti marini vicino alla stazione di ricerca in questione, nel periodo compreso tra il 1997 e il 2015.
“Le stazioni di ricerca antartiche come Casey - argomentano gli autori - possono rappresentare un livello moderato di rischio ecologico a lungo termine per gli ecosistemi marini locali, a causa dell'inquinamento delle acque. Ci si attende che la contaminazione sia limitata alle aree in prossimità delle stazioni, sebbene si preveda che la sua estensione e concentrazione aumentino nel tempo”. Considerazioni di un certo peso, se si considera che sono 112 le basi di ricerca scientifica o le strutture nazionali presenti in Antartide, alcune operative tutto l'anno, altre solo d’estate. Molte sono attive da lungo tempo: 44 sono state costruite prima del 1980, 35 tra il 1980 e il 2000 e almeno 16 dopo il 2000. Sessantadue sono situate in aree costiere e molte sono vicine alla costa per facilitare l'accesso via nave.
“Sono molti gli studi che stanno monitorando l'inquinamento chimico in Antartide. Pur trattandosi di una località remota e lontana da aree industriali, non è scevra da contaminazioni ambientali, dato che gli inquinanti possono essere trasportati attraverso le correnti oceaniche e aeree. Come sottolineano i ricercatori su Plos One, anche le stazioni di ricerca possono essere fonti di rischio ecologico, a causa delle attività umane sul territorio”. A parlare è Gianfranco Santovito, professore di fisiologia del dipartimento di Biologia dell’università di Padova, che a novembre del 2022 è tornato dalla sua nona spedizione in Antartide, nell’ambito del progetto di monitoraggio ambientale AntaGPS.
Base italiana in Antartide. Foto: Adobe Stock
Il docente spiega che le attività umane possono influire in vario modo sull’ambiente antartico. “Nel corso delle spedizioni indossiamo per esempio indumenti prodotti con materiale tecnico come il Gore-tex che è una fonte di Pfas, e materiali isolanti che invece possono rilasciare microplastiche. Il vestiario piano piano libera queste sostanze, anche se chiaramente non a livelli industriali, e il monitoraggio è fondamentale”. Ci sono poi i mezzi di trasporto. “Le attività di ricerca vengono svolte con l’utilizzo di mezzi terrestri, aerei e navali e, come accade anche nelle nostre città, i fumi prodotti dai carburanti e gli scarichi in mare sono inquinanti”.
Oltre alle spedizioni scientifiche, ci sono poi attività di altro tipo: “Si pensi al turismo: ci sono Paesi come l'Argentina che stanno implementando sempre più la possibilità di raggiungere il territorio antartico, sfruttando vecchie stazioni. Il Cile, per esempio, o ancora l'Argentina possiedono basi che ormai sono in disuso, poiché la situazione economica interna non consente l'implementazione di attività di ricerca”.
In generale, la maggior parte della contaminazione dell'Antartide è dovuta a una gestione storicamente inadeguata dei rifiuti. Fino agli anni Ottanta si è sempre prestata poca attenzione all’impatto ambientale delle attività svolte in queste sedi: i rifiuti venivano smaltiti in discariche sul ghiaccio marino o nell’oceano. Le stazioni costiere, in particolare, provocano la contaminazione degli ambienti marini, con scarichi di acque reflue e fognarie, e fuoriuscite di petrolio. La situazione è andata via via migliorando grazie all’introduzione del Protocollo di Madrid (Protocol on Environmental Protection to the Antarctic Treaty), firmato nel 1991 ed entrato in vigore nel 1998, che definisce l’Antartide come “una riserva naturale, votata alla pace e alla scienza”. Da quel momento in poi si è visto un cambio di rotta, poiché sono stati incentivati comportamenti virtuosi atti a limitare il più possibile (o a evitare) l’inquinamento ambientale. E raggiungere l’impatto zero.
“A questo risultato si può arrivare innanzitutto attraverso il trattamento dei rifiuti. Alcuni di questi, come la carta, il cartone o il legno, possono essere bruciati. Altri, come i liquami, devono invece essere trattati con impianti di depurazione efficienti, sebbene questo processo non sia così semplice: tali impianti si basano sulla presenza di fanghi attivi che crescono al loro interno, ma la bassa temperatura non favorisce la crescita dei microrganismi e limita dunque le capacità depurative”.
Nel caso in cui i rifiuti non possano essere smaltiti in loco, devono essere esportati dal continente, dato che ogni nazione è responsabile del monitoraggio ambientale intorno alle proprie stazioni di ricerca. “Ciò implica certamente delle spese – sottolinea Santovito –, ma la priorità è preservare l'ambiente”.
Secondo il docente, adottare comportamenti virtuosi verso l’ambiente vuol dire limitare il più possibile l’inquinamento dovuto alle attività umane sul territorio antartico, ma significa anche utilizzare sistemi di generazione energetica ecologici, dunque pannelli fotovoltaici, pale eoliche, installazioni che la base italiana e molte altre stanno implementando sempre di più. “La presenza in Antartide è fondamentale per la ricerca scientifica. In questo ambiente bisogna agire però con cognizione di causa: se da un lato non si può prescindere da un pur minimo impatto antropico, dall’altro serve limitare il più possibile il rischio ecologico”.
Come si è detto, la spedizione a cui ha partecipato Santovito nel 2022 è parte del progetto più ampio AntaGPS, che ha monitorato proprio la presenza in Antartide di inquinanti tradizionali ed emergenti, come metalli, idrocarburi e Pfas, valutandone gli effetti su flora e fauna locali. Il continente diventa in questo modo un sensore dell’inquinamento globale attraverso i suoi organismi endemici che fungono da indicatori.
“Fare valutazioni sullo ‘stress’ che gli organismi accumulano ed esprimono nei confronti di questi inquinanti è fondamentale. Per tale ragione, abbiamo campionato degli organismi nell'ambiente e correlato le loro risposte fisiologiche antistress alla presenza di inquinanti, ma li abbiamo anche esposti a concentrazioni via via maggiori di tali sostanze, per poter fare previsioni in ottica futura”. Le indagini miravano a valutare gli effetti reali dei contaminanti, dato che non sempre questi sono nocivi in uno specifico ambiente: “Il cadmio e il rame per esempio – spiega il docente – sono inquinanti ambientali molto noti, ma la loro presenza in Antartide è una condizione naturale, perché deriva da attività vulcanica antica. Queste sostanze sono sedimentate nei fondali marini e dunque gli organismi sono abituati a concentrazioni relativamente elevate. Ciò significa che non tutte le sostanze sono necessariamente pericolose, la loro presenza risulta allarmante in relazione alle concentrazioni presenti nell'ambiente”.
A gennaio 2023 è stato pubblicato (ultimo in ordine di tempo) un articolo proprio sugli effetti dei Pfas su alcuni pesci antartici, sulla base di esperimenti condotti dal gruppo di ricerca nel 2021. “Ora stiamo completando le analisi su altri organismi, stiamo conducendo studi su alghe, protozoi e molluschi bivalvi che sono ottimi ‘indicatori’, perché sono in grado di accumulare gli inquinanti presenti nell'ambiente: attraverso lo studio della loro risposta fisiologica, possiamo capire quali siano le conseguenze dell’esposizione a contaminanti non solo in questi organismi, ma anche in altri animali”.