La prudenza (prevedere e provvedere) è nel pensiero greco e latino. Poi nel successivo pensiero occidentale ed europeo, ovviamente non solo fra i credenti, una rilevante virtù, per molti la prima delle quattro virtù cardinali, accanto a giustizia, fortezza, temperanza. La diffusione pandemica della malattia Covid-19 ha indotto le istituzioni collettive e i soggetti privati a farne largo e maggior uso nel corso del 2020. A prescindere dalla qualità, dalla territorialità, dalla pubblicità e dall’efficacia dei sistemi sanitari (variamente diseguali), non ogni nazione l’ha adottata immediatamente e coerentemente, come è purtroppo noto: è stato pagato un enorme danno di vite umane proprio per ritardi e incertezze nel distanziamento sociale e nei comportamenti accorti. La prudenza è stata autorevolmente definita come una saggezza pratica e relazionale, non astratta e autoreferenziale: serve un’analisi attenta e circostanziata delle concrete situazioni reali circostanti, implica una gradazione e gerarchia delle conseguenze delle nostre azioni e degli scenari possibili, coniuga la libertà con la serietà, autocontrolla e gradua il proprio comportamento affinché si corrano meno rischi per sopravvivere e riprodursi. C’entra relativamente con la paura, valuta e previene i pericoli reali, piuttosto. Non è l’opposto del coraggio, anzi accetta volentieri il coraggio quando non si ha il tempo di valutare o tutte le volte che la valutazione assicura che ne vale davvero la pena. Si configura come una sorta di regolatore e misuratore delle nostre (altre, eventuali) virtù. Fra l’altro, la buona salute è una virtù che ha caratteri sia individuali che collettivi; la prudenza che vi è connessa è dinamica più collettiva che individuale. La qualità morale e i comportamenti materiali del singolo non sono sufficienti a garantire un risultato. Serve far prevalere una prudenza di comunità.
Oggi c’è un maggiore apprezzamento per la prudenza e una maggiore sincronia della sua presenza nel mondo. La pandemia ha comportato una globalizzazione di governi pubblici e maggioranze di cittadini un poco più prudenti sul piano socio-sanitario, praticamente in tutti i paesi del mondo. A tale sincronia continua purtroppo a corrispondere un enorme diacronia rispetto all’evoluzione della stessa malattia Covid-19. Circa sei mesi fa, a metà marzo descrivemmo la pandemia come un fenomeno diacronico. La malattia era sincronicamente presente in quasi tutti gli ecosistemi umani, ma il suo arrivo migratorio, la diffusione, la velocità e la curva del contagio, i picchi, le cure e le intubazioni, i decessi con o per Covid-19 (anche il computo è diverso fra paese e paese) stavano avvenendo diacronicamente. L’Italia era allora all’apice dell’emergenza, avevamo appena adottato severe misure restrittive in tutto il paese per ridurre contagi, malati, deceduti. Sono rimaste in vigore a lungo, hanno funzionato, abbiamo contenuto e poi diminuito l’emergenza sanitaria, lentamente abbiamo cancellato o ridimensionato molte delle misure di chiusura e isolamento. L’Italia è oggi uno dei casi migliori in Europa e viene omaggiata dall’OMS; stiamo verificando un impatto non drammatico sanitariamente anche dopo la delicata riapertura delle scuole; viviamo una situazione abbastanza virtuosa, per quanto la malattia sia ancora diffusa e imponga costante prudenza nei comportamenti collettivi.
Non è così nel resto del mondo. Globalmente il picco, la crescita esponenziale di contagiati e ammalati, non è stato ancora raggiunto. La pandemia è in pieno accelerato vigore, in tutti i continenti, in quasi tutti gli Stati. I casi globali sono attorno ai 33 milioni a fine settembre 2020. Le vittime sono già circa un milione. Leggiamo cronache e vediamo immagini di una dinamica disastrosa soprattutto nelle Americhe (con rare eccezioni) e in Asia (oggi con la parziale eccezione della Cina). A Rio è stato annullato il Carnevale. Negli Stati Uniti sono stati superati già qualche giorno fa i 200 mila morti, più di tutte le guerre (almeno cinque “ufficiali”) cui hanno partecipato dopo il secondo conflitto mondiale. Anche l’Europa è tornata in piena emergenza con un’impennata di contagi, ricoveri, decessi. L'Unione Europea ha avvertito tutti ufficialmente che la pandemia è mediamente peggiore ora rispetto al picco di marzo. Alcuni paesi hanno aggiunto o ripristinato restrizioni, magari con una certa flessibilità connessa all’esistenza o meno di focolai. Alcuni hanno deciso o stanno decidendo di nuovo addirittura un lockdown totale. Come ovvio, ciò ha un’immediata conseguenza sulla libertà di movimento fra città e regioni, come pure fuori dai confini patri, con divieti e limitazioni, talora di uscita, talaltra di ingresso, di rado in entrambi i versi. E enormi ripercussioni economiche e produttive. In questo momento, in Italia ce ne accorgiamo meno, ma stanno influendo enormemente ovunque sulle diseguaglianze sociali e sulla esistenza quotidiana di centinaia di milioni di uomini e donne sapiens, in prospettiva incideranno anche sulla vita italiana.
Nelle prossime settimane assisteremo alla recrudescenza della corsa politico-elettorale fra e negli Stati verso il vaccino, Il punto di svolta è il voto americano del primo martedì di novembre, il 3. Abbiamo descritto con cura il nazionalismo dei vaccini: non solo ognuno per sé, ma anche ognuno a danno degli altri, ovvero delle nazioni e delle popolazioni più povere del pianeta. Stati Uniti, Cina, Russia, India, Regno Unito e numerosi paesi dell’Unione Europea (Italia inclusa) stanno perseguendo una strategia, appunto, nazionalista, sia impedendo la libera circolazione delle conoscenze acquisite sia stringendo accordi con le case farmaceutiche per l’accesso privilegiato a un eventuale vaccino. I governi nazionali, spesso solo per il proprio presente tornaconto elettorale interno, competono con altri Stati vicini e lontani per imporre una diacronia nella diffusione dell’unico vero antidoto alla pandemia in corso (prima e possibilmente solo per alcuni dei propri cittadini), un vaccino efficace di libero gratuito accesso somministrato prima possibile a quanti più umani possibile. Ha iniziato Putin (ma già si parla a Mosca di un secondo migliore vaccino russo) e ha rovinato la necessità di Trump di essere il primo gestore planetario per i votanti americani. Nel mondo sono state avviate 187 sperimentazioni, 9 sono alla fase conclusiva, nessuna ha avuto finora il via libera al pieno utilizzo. Aspettiamoci strepiti e clamori nel mese di ottobre, assolutamente a prescindere dalla indispensabile invocata (anche da Fauci) prudenza quando si parla di interventi sanitari davvero utili a masse di persone.
Nei giorni scorsi Anthony Fauci, uno degli scienziati più esperti al mondo di virus e numero uno della task force della Casa Bianca sul coronavirus, ha tracciato la road map che ci separa dalla fine della pandemia, dichiarando più o meno così: "Ce la faremo grazie a una combinazione di vaccini sicuri ed efficaci e di politiche sanitarie adeguate. Ma non prima di Natale 2021". Per avere una uscita sincronica dall’emergenza sono prevedibili ancora quasi quindici mesi di misure un poco restrittive della libertà di movimento e di contatto sociale. Facciamocene una ragione. Altro che virus clinicamente morto! Alcune misure personali potrebbero divenire un nuovo uso e costume permanente: lavarsi spesso le mani, misurarsi periodicamente la febbre. Costano poco. Altre potrebbero essere misure ad adozione intermittente e puntiforme a seconda dell’evoluzione di contagi e focolai: indossare la mascherina all’aperto o in luoghi affollati, limitare abbracci e baci. Abbiamo capito che non ci sono obblighi e libertà irreversibili, se si è prudenti possiamo graduare comportamenti di distanziamento e prevenzione. E attrezzare il sistema sanitario nazionale, investendo fondi e intelligenze nella ricerca multilaterale ed europea, nella qualità pubblica statale, nei reparti poco profittevoli per i privati (come le terapie intensive), nella medicina territoriale generale e nella salute preventiva dei cittadini residenti in ogni paese. Un anno e mezzo sarebbe un record assoluto per lo sviluppo di un vaccino contro un virus che fino a pochi mesi fa era sconosciuto, tanto più che resta non del tutto compreso come il nostro sistema immunitario risponda all’attacco del virus: le scienze dovranno continuare a lavorarci anche dopo la somministrazione, altre malattie e pandemie sono in agguato.
Una delle scelte da rendere permanenti, non legata a contingenze politiche o elettorali, è comunque proprio la prudenza, fino al vaccino e oltre. Investiamo nella ricerca scientifica e nella comunicazione prudente. Se ci sarà da rimettersi più spesso le mascherine, ora qui ora là, per un altro contingentato periodo, non è un dramma. Meglio non accada. Preferibile prevenirlo. Con circoscritti obblighi di legge e con caute esecrazioni morali. La maggioritaria diffusa prudenza è un bene comune, un virtuoso valore pubblico universale generale del presente e del futuro. Almeno un poco aiuta a discernere e distinguere il meglio dal peggio (più che il bianco dal nero, il vero dal falso, il bene dal male), smaschera conoscenze presunte o parziali o false (a volte difficilmente identificabili nell’immediato), consente di approfondire. Comunità e individui prudenti non sono indecisi o titubanti, sanno decidere con “sano” realismo, senza esagerazioni paralizzanti e facili entusiasmi in una direzione o nell’altra. La prudenza è la premessa di giustizia, fortezza, temperanza e di altre scientifiche virtù che volessimo davvero perseguire. Il fronteggiare per mesi la pandemia Covid-19 dovrebbe avercelo ormai insegnato anche per gli anni a venire, suggerendo di applicarla ad altre malattie sanitarie o psichiche, individuali e collettive. Forse.