SOCIETÀ

La trasformazione del lavoro. Lo smart working tra arretratezze e opportunità

I lockdown del 2020 e 2021 ci hanno reso più familiare il concetto di smart working, una modalità di lavoro che è storicamente poco diffusa nel nostro paese. La pandemia ha costretto una parte del lavoro nelle nostre case, talvolta facilitando, talvolta complicando il rapporto con il resto delle nostre vite. I dati del 2022 dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, però, mostrano un calo dei lavoratori e delle lavoratrici da remoto: sono circa 3,6 milioni, quasi 500 mila in meno rispetto al 2021.

“In effetti abbiamo osservato che la diminuzione riguarda in particolare le piccole e medie imprese (PMI) e le pubbliche amministrazioni”, spiega la direttrice dell’Osservatorio Fiorella Crespi, “mentre si rileva una leggera ma costante crescita nelle grandi imprese”. Per l’amministrazione pubblica, la causa principale del calo è l’insieme di disposizioni del Governo, che dopo il picco dell’emergenza ha preferito spingere su di un ritorno prevalentemente in presenza.

Nelle PMI il calo è dovuto a una cultura organizzativa che, soprattutto in alcuni comparti, si focalizza sul controllo della presenza Fiorella Crespi, direttrice Osservatorio Smart Working

Discorso diverso per le imprese, che forse in modo controintuitivo favoriscono il lavoro da remoto al crescere delle dimensioni. “Nelle PMI il calo è dovuto a una cultura organizzativa che, soprattutto in alcuni comparti, si focalizza sul controllo della presenza”, spiega Crespi. “A questo si aggiungono anche altri aspetti, come una minor necessità di ridurre il pendolarismo e una maggior difficoltà, soprattutto nelle imprese di più piccole dimensioni, a introdurre modelli di lavoro più flessibili e che garantiscano compresenza per lavorare in modo efficace”. 

Smart working non significa (solo) lavorare da remoto

L’emergenza della pandemia ha creato un po’ di confusione nei termini. Smart working, infatti, non significa semplicemente lavorare da casa o in remoto, come invece lo continuiamo a intendere. “Le forme di flessibilità che caratterizzano il modello dello smart working non si riducono al solo lavoro da remoto, ma comprendono anche quella oraria e, soprattutto, l’adozione di una logica di lavoro per obiettivi”, precisa Crespi. Una serie di cambiamenti nell’intendere il modo di lavorare che non abbiamo sempre visto durante l’applicazione in emergenza del lavoro da casa. 

Per parlare di smart working manca ancora un cambio culturale dell’approccio al lavoro. Il lavoro davvero smart è quello in cui si lavora per progetti e si cerca di instaurare un rapporto di fiducia dato dal fatto che il lavoratore ha più autonomia, maggiore responsabilità e può mettere a frutto le proprie abilità in modo più creativo. La flessibilità che rende non indispensabile andare a orari fissi in ufficio o sul luogo di lavoro è solo una conseguenza dell’impostazione, non una premessa. “Dalla nostra ricerca”, prosegue Crespi, “abbiamo visto che se si fa lavorare le persone da casa, senza una vera revisione del modello di organizzazione del lavoro è addirittura controproducente in termini di benefici per il lavoratore perché sono meno i remote worker non smart che stanno bene da un punto di vista psicologico e relazionale rispetto non solo agli smart worker ma anche agli on site worker”.

 

L’Italia è indietro rispetto al contesto nordeuropeo

Oltre alle esigenze dell’emergenza, in realtà lo smart working e il lavoro da remoto sono previsti dal nostro ordinamento, ma poco praticato. Sono soprattutto i paesi del nord del continente i paesi dove un percentuale consistente dei lavoratori e delle lavoratrici svolge sempre o quasi le proprie mansioni fuori dal luogo di lavoro. Lo dicono i dati dell’Eurostat del 2018, l’ultimo anno disponibile, che mettono ben in evidenza le distanze.

Lo stesso si vede se si allarga lo sguardo anche a chi lavora da casa o in remoto almeno una volta alla settimana. La mappa non risulta troppo diversa dalla precedente:

Ma che cosa frena i datori di lavoro italiani a introdurre gradi di flessibilità? “Sono soprattutto barriere di carattere culturale”, risponde la direttrice Crespi, “come la resistenza da parte del vertice e l’assenza di una cultura basata sul raggiungimento degli obiettivi. A questo, si aggiunge per le PMI che rappresentano una parte significativa del tessuto economico del Paese, la forte incidenza di attività che richiedono necessariamente la presenza in sede e che quindi limitano l’utilizzo di alcune forme di flessibilità. Nelle PA, oltre a questo, si aggiungono le difficoltà legate ad aspetti tecnologici. All’estero diversi Paesi promuovono questo modello di lavoro da molto tempo, non si riscontrano le stesse resistenze”.

Il futuro dello smart working

La ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano indica il 2023 come un anno di crescita, almeno stimata, di chi lavora in modalità flessibile. Ma si tratta di un incremento leggero, derivato soprattutto, spiega Crespi, “dal consolidamento dei lavoratori da remoto nelle grandi imprese e a un’ipotesi di incremento dei lavoratori pubblici”. Su questi, come si diceva poco sopra, però, pesa anche il problema dell’ostacolo di tipo tecnologico e tecnico.

Ma c’è anche la possibilità che qualcosa si muova in quei settori del lavoro che facciamo fatica a immaginare flessibili. “Tra le tendenze che stiamo osservando, c’è l’estensione dello smart working a profili di lavoro tradizionalmente esclusi, sperimentando nuove applicazioni dello smart working anche per chi tradizionalmente ne è escluso”. Per esempio, anche la gestione dei turni di fabbrica, svincolata dagli orari fissi può essere gestita entro certi limiti in modalità flessibile. “Inoltre vi sono diversi trend relativi alle forme di flessibilità che stiamo osservando”, conclude Crespi “come il fenomeno delle iniziative italiane ed estere di settimana corta o del cosiddetto nomadismo digitale”.


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