SOCIETÀ

Afghanistan, una vera pace?

In Afghanistan, dopo quasi vent’anni, gli Usa iniziano a mettere in atto la loro exit strategy, mentre i Talebani si preparano a riprendere in mano il Paese. Il 29 febbraio l’ambasciatore americano Zalmay Khalilzad e il capo talebano mullah Abdul Ghani Baradar hanno firmato a Doha un accordo tra Stati Uniti e Talebani, con l’obiettivo dichiarato di iniziare un percorso di pace.

Ad assistere alla storica firma, seduto tra le prime file, c’era anche Paolo Cotta-Ramusino, scienziato e dal 2002 segretario del Pugwash Conferences on Science and World Affairs, movimento internazionale per il disarmo, insignito nel 1995 del Nobel per la Pace. Lo studioso, che da anni partecipa attivamente per conto della sua organizzazione al processo di pace afghano, non nasconde però i dubbi sulla tenuta dell’accordo nel martoriato Paese asiatico: “Il presidente afgano Ghani non vuole assolutamente discutere con i talebani” spiega a Il Bo Live. Inoltre anche la situazione a Kabul per il momento è tutt’altro che chiara: dopo uno spoglio durato mesi sia Ghani che il rivale Abdullah hanno dichiarato vittoria alle recenti elezioni presidenziali e si preparano a varare due governi contrapposti.

Professor Cotta-Ramusino, c’è stata una tregua dopo la firma dell’accordo?

“Al momento non mi risulta, e non è detto che ci sia a breve. Del resto in questo momento tutto è concentrato soprattutto sul coronavirus, dall’Afghanistan arrivano pochissime informazioni. Del resto il quello di Doha è semplicemente un accordo bilaterale tra Stati Uniti e talebani: lo stesso discorso di Pompeo era concentrato esclusivamente sul fatto che l’Afghanistan non sarà più una base per l’attacco verso altri Paesi”.

Lei che ne pensa?

“Che si tratta di un’argomentazione sinceramente ridicola. Bin Laden arrivò in Afghanistan invitato da Abd al-Rasul Sayyaf, che c’è ancora ed è molto potente”.

Magari hanno imparato la lezione.

“Tutti a parole fanno i buoni, ma il dato di fatto è che il Paese oggi è profondamente diviso, con una forte competizione interna tra gruppi etnici, politici ideologici. L’unico lavoro disponibile per i giovani è la guerra: 350.000 quelli arruolati nelle forze armate governative, ai quali si aggiungono mercenari, contractors, guardie del corpo, militanti talebani e dell’Isis, conduttori di armored vehicles e quelli che si offrono di scortare gli stranieri. Della società civile dopo decenni di guerra è rimasto pochissimo. Però chissà, vediamo”.

Quindi per gli Usa l’accordo è solo una foglia di fico per ritirarsi.

“Esattamente. Non vedono ora di togliersi di mezzo; si tratta di una ritirata meno visibile mediaticamente di quella del Vietnam ma il discorso è lo stesso: Declare victory and leave”.

Cosa può portare a una pace duratura?

“Un accordo tra tutti gli afghani per stabilire un regime di convivenza, unito a un progetto di crescita economica che non dipenda esclusivamente dalla guerra. Come Pugwash abbiamo già provato in passato a organizzare meeting con imprese e businessmen, ma oggi con il coronavirus è diventato difficile organizzare incontri e spostare le persone”.

Oggi in Afghanistan l’unico lavoro disponibile per i giovani è la guerra Paolo Cotta-Ramusino

Su cosa dovrebbe puntare l’Afghanistan per una rinascita economica?

“Il Paese ad esempio è ricco di miniere, c’è il più grande deposito di litio al mondo, ma al momento l’estrazione è condotta in maniera faziosa da gruppi e potentati locali, che ne usano i proventi per finanziare la guerra. Il problema è proprio che il territorio nazionale è frazionato e non c’è alcun controllo centrale, i minerali attualmente vengono venduti separatamente dai vari attori. Già centralizzare il mercato dei minerali e farlo gestire da un’unica autorità sarebbe un grosso passo in avanti. Poi ci sono i 1.000, forse 2.000 miliardi di dollari arrivati in questi anni come aiuti internazionali, in gran parte finiti nelle mani di alcuni potenti locali. I grandi ricchi del Paese dovrebbero essere spinti a investire nel Paese e non a portare via i soldi”.

Quali sono le prospettive per i negoziati intra-afgani che dovevano partire il 10 marzo 2020?

“Ci sono troppi interessi contrastanti. Le varie parti del conflitto dovrebbero iniziare a parlarsi, a cominciare dal governo e dai talebani. Il presidente Ashraf Ghani però, come ho detto, al momento non vuole, mentre Karzai era più disponibile a trattare. La stessa unità della fazione dei talebani è dubbia, e non perché ci sia una leadership alternativa a quella di Baradar: in un certo senso è straordinario che riescano ancora a porsi all’esterno come un unico interlocutore, e infatti Ghani si attacca proprio a questo per continuare a rifiutarsi di trattare”.

Possiamo concludere che tribù afghane, dopo l’impero inglese e quello sovietico, sono riusciti a sconfiggere anche gli Stati Uniti?

“Diciamo che tutti hanno difficoltà a gestire il caos: anche inglesi, russi e americani”.

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