SOCIETÀ

Clima, decrescita e gli accordi di Parigi

Nel 2019 l’umanità ha immesso nell’atmosfera più di 38 Gigatonnellate di CO2, quasi il doppio della quantità di CO2 emessa nel 1990 (22 Gt). In questi trent’anni, dunque, le emissioni hanno continuato a crescere, seguendo l’espansione dell’economia globale, sempre più ampia e più avida di energia e di risorse.

Per raggiungere gli obiettivi per la mitigazione del riscaldamento globale individuati nell’Accordo di Parigi, questa tendenza avrebbe dovuto essere invertita già da tempo. Come sottolinea Net Zero by 2050, il recente rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), le nostre società dovrebbero procedere a grandi passi verso la neutralità climatica, da raggiungere entro i prossimi trent’anni. Ma è realistico un simile traguardo?

Scrivendo su Nature Communications, due ricercatori pongono l’attenzione su un aspetto spesso trascurato, ma importante e controverso, che andrebbe posto al centro della riflessione sulla transizione verso un nuovo modello economico e sociale. I principali studi e proiezioni che indicano le strade da intraprendere per la mitigazione, sottolineano Lorenz Keysser e Manfred Lenzen, danno per assodata la necessità di perseguire una crescita economica – valutata, peraltro, unicamente in termini monetari – continua e illimitata, trascurando il fatto che «una crescita continuativa del PIL è largamente associata a un aumento della difficoltà negli interventi di mitigazione, ad esempio a causa del crescente consumo di energia e di risorse materiali».

Sono diversi gli studi che mostrano l’incompatibilità de facto fra l’obiettivo di non superare 1,5°C di aumento delle temperature medie e la tutela di un sistema economico imperniato sulla crescita materiale. Lo studio di Nature Communications aggiunge un ulteriore tassello di evidenza a questa argomentazione: comparando, infatti, gli scenari prodotti dall’IPCC – nessuno dei quali prevede un rallentamento della crescita economica – con alcune previsioni che inseriscono la decrescita come variabile, gli autori suggeriscono che una strada alternativa al business as usual è possibile, e forse auspicabile.

Nella definizione adottata dai ricercatori, la decrescita è «un’equa riduzione della produzione e una parallela salvaguardia del benessere». Da più parti, infatti, emerge come la qualità di vita non sia necessariamente legata al successo produttivo di un’economia; al contrario, qualora venissero messe in atto sostanziali riforme politiche e adeguati cambiamenti socioeconomici si potrebbe mantenere un tenore di vita simile a quello occidentale, pur con una drastica riduzione della domanda di energia rispetto ai livelli attuali.

Il paragone condotto dai ricercatori si concentra su due parametri: la fattibilità (tecnica e politica) e la sostenibilità degli scenari presi in considerazione. I modelli proposti si distinguono principalmente per il grado di disaccoppiamento (decoupling) tra richiesta di energia e crescita del PIL: laddove non si lavori a una riduzione dell’input energetico, e dunque delle emissioni di gas climalteranti, sarà necessario implementare in modo esponenziale soluzioni tecnologiche come le varie modalità di Carbon Capture and Storage (CCS), che pongono, ancora oggi, diverse criticità sia in termini di fattibilità pratica sia dal punto di vista della sostenibilità.

Secondo i risultati della comparazione, fra tutte le alternative possibili la più praticabile sembra quella che abbraccia, in un futuro piuttosto prossimo, una prospettiva di decrescita. Nel valutare fattibilità e sostenibilità dei diversi scenari, gli autori prendono in considerazione tre variabili:

  • il grado di disaccoppiamento energia-PIL,
  • la velocità dell’espansione dell’energia rinnovabile,
  • il livello complessivo di implementazione delle tecnologie NET (Negative Emission Technologies) e CCS.

Come emerge dalle proiezioni, maggiore è la separazione tra crescita economica e domanda energetica, minore è la necessità di ricorrere a interventi di sequestro delle emissioni e all’espansione di tecnologie per la produzione di energia “verde” per poter rimanere al di sotto di 1,5°C di riscaldamento. L’efficientamento energetico, infatti, non è sufficiente a ridurre il consumo di energia, poiché – lo dimostrano decenni di costante espansione economica – il minore impatto ambientale che l’efficienza energetica avrebbe potuto assicurare è stato sempre neutralizzato da un’ulteriore espansione del settore economico e produttivo.

Poiché nella realtà una separazione su vasta scala fra PIL e consumo energetico non è mai stata realizzata, e poiché è improbabile che si riesca a realizzare nel breve margine d’azione concesso dalla crisi climatica, sembra che «gli scenari che presentano il rischio più basso in termini di fattibilità si trovino nel gruppo di “ridotto disaccoppiamento energia-PIL”, gruppo del quale – ricordano gli autori – fa parte anche il nostro modello di decrescita». Questo modello, oltre a non richiedere una netta separazione tra energia e PIL (abbandonando il “dogma” della crescita illimitata arriva a prevedere, infatti, una riduzione di entrambi), consente anche di superare le problematiche legate all’implementazione rapida e su larga scala di tecnologie per le energie rinnovabili, che pongono diversi problemi ambientali (si pensi all’impatto ambientale dell’estrazione delle cosiddette “terre rare”) e sulle quali vi sono ancora molte incertezze, ad esempio circa la possibilità che le rinnovabili siano in grado di offrire una capacità energetica pari a quella fornita dai combustibili fossili, necessaria per il mantenimento di un sistema economico ampio come quello attuale.

Molte perplessità aleggiano anche intorno al dispiegamento di tecnologie per la riduzione delle emissioni: solo l’afforestazione e il sequestro del carbonio sono attualmente applicabili su vasta scala; eppure, la maggior parte dei modelli prende in considerazione l’utilizzo di biomasse con sequestro di carbonio (BECCS, BioEnergy Carbon Capture and Storage), tecnologia che pone diverse problematiche, tra cui il massiccio utilizzo di suolo, l’impatto sulle risorse idriche e il contributo al superamento di diversi confini planetari, fra cui la perdita di biodiversità. Come riportano gli autori, «gli sforzi di mitigazione dovrebbero essere programmati a partire dal riconoscimento del fatto che su vasta scala le NET non funzioneranno. Le implicazioni di questo mancato riconoscimento rappresenterebbero il rischio morale per eccellenza». Viceversa, «gli scenari imperniati sulla decrescita sono basati sulla più lenta espansione delle energie rinnovabili e sul più basso disaccoppiamento energia-PIL in relazione ai diversi livelli di applicazione delle tecnologie di riduzione delle emissioni, esponendo così [i sistemi socioeconomici] ai rischi minori in termini di fattibilità e di sostenibilità».

Ogni riduzione del PIL è considerata un costo. Ma il PIL non è un concetto neutrale. Ecco perché ci si dovrebbe chiedere per chi la riduzione sia un “costo”, chi ne benefici e chi, in fin dei conti, decida i parametri Lorenz Keysser e Manfred Lenzen

Infine, a differenza di tutte le altre proiezioni, la decrescita tiene conto dell’esigenza di equità, riconoscendo, ad esempio, come il rallentamento della crescita economica sia un dovere morale per le economie più avanzate, che hanno la maggiore responsabilità per la situazione attuale e che, inoltre, potrebbero in questo modo garantire una più giusta redistribuzione delle risorse ancora disponibili.

Gli autori stessi riconoscono che il principale ostacolo alla realizzazione di un modello basato sulla decrescita sia di natura politica e culturale: adottare tale modello significherebbe infatti mettere in atto un vero e proprio rovesciamento dell’attuale sistema sociale ed economico, e comporterebbe profondi mutamenti anche dal punto di vista morale e culturale. Qualora si decidesse di intraprendere il percorso della decrescita, ad esempio, bisognerebbe ridurre l’uso di energia e di risorse: questo comporterebbe una riduzione del PIL globale, effetto che – paradossalmente – potrebbe determinare altissimi costi sociali, se non accompagnato da misure in grado di rendere la transizione socialmente sostenibile.

La crisi climatico-ambientale è un problema complesso – e per un problema complesso non esistono soluzioni semplici. Proprio per questo è importante non escludere a priori nessuna possibilità, anche se si tratta di una possibilità che mette in discussione le nostre certezze. «Chiaramente – concludono gli studiosi – la decrescita non sarebbe una soluzione facile, ma, come i nostri risultati mettono in luce, ridurrebbe significativamente diversi rischi potenziali, in ambito sia di fattibilità che sostenibilità, rispetto ai più seguiti scenari fondati su soluzioni tecnologiche. Per questo, sarebbe auspicabile che tale proposta venisse presa in considerazione e fatta oggetto di dibattito con la stessa rilevanza riservata a scenari basati sulle tecnologie i cui rischi, in definitiva, sono del tutto comparabili a quelli insiti nella decrescita».

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012