CULTURA

Padova, storia di un palazzo: lo Storione, com'era e non è più

L’antica “birraria” Storione era una modesta taverna nel centro storico di Padova dove un tempo trovavano ristoro, a pane e vino, i venditori dei banchi delle piazze, vicino al Salone. La tradizione narra che in questo ristorante e albergo ottocentesco un giorno fu portato da un gruppo di amici, per essere cucinato, uno di quei pesci lunghi dall’aspetto quasi primordiale che nuotavano numerosi (sempre in salita) nell’acqua dolce del fiume Brenta: uno storione.

Inizia così la storia de Lo Storione. Il gioiello liberty che non c’è (Il Poligrafo, 2024) di Virginia Baradel. La studiosa ripercorre tutte le articolatissime vicende storiche e storico-artistiche dello Storione con un approfondito studio, pieno di novità, sulla trasformazione di questo luogo, con un testo che non “ricostruisce” solo le vicende di un palazzo, ma che offre un prezioso spaccato storico contemporaneo sulla città di Padova.

È descritto, capitolo dopo capitolo, il dinamismo di una città in continua trasformazione, il suo mutare incessante con l’avanzare della contemporaneità. Il volume, ricco di fotografie, immortala una città d’altri tempi, affascinante ma a tratti spiazzante, specie per chi cerchi oggi d’orientarsi fra annotazioni di vie e luoghi del proprio quotidiano. La città che muta non è solo una scenografia che cambia forma, luci, colori, ma spazi del vissuto che scompaiono per lasciare il posto ad altre prospettive, altre fughe, altre vibrazioni.

Agli inizi del nuovo secolo ha luogo, sull’esempio di altri importanti centri europei, la voltata modernista. Le grandi novità tecnologiche, estetiche e l’adozione di una nuova urbanistica, portano in città la modernità dell’illuminazione pubblica elettrificata, la realizzazione del Corso del Popolo, la sistemazione dei giardini dell’Arena, la realizzazione della nuova tramvia elettrica.

Lo Storione, parte del complesso di Palazzo del Gallo, costruito tra il 1892 e il 1904 su progetto degli ingegneri Giulio Lupati e Marco Manfredini, subisce nel tempo molte trasformazioni, non solo architettoniche, ma anche relative alla distribuzione e destinazione d’uso degli ambienti, sino al nuovo progetto di disposizione dei locali di Alessandro Peretti.

È il sindaco Vittorio Moschini, figura dalla forte personalità culturale e che immagina il palazzo sugli esempi polifunzionali europei, a prendere personalmente a cuore il suo progetto decorativo. Lo sguardo è rivolto a Venezia e la scelta cade, nel 1903, su di un pittore di spicco, Cesare Laurenti. Autore di un famoso fregio ceramico alla Biennale, Laurenti non si occupa “solo” della sala da pranzo (di ben “venti metri per nove”), ma di tutta la decorazione, avvalendosi di collaboratori di grandi promesse, divenuti poi notissimi, come Alessandro Milesi e Pietro Fragiacomo.

Innanzi a palazzo del Bo, sede dell'Università di Padova, dietro il fronte delle botteghe, si distende così la magnifica sala, e accanto ad essa una più piccola, il ‘tempietto’, con un grande e luminoso lucernaio. Qui, fra il ferro battuto, i bulbi muranesi e i lampadari disegnati da Laurenti, compare, sulla parete piccola, il pannello mitologico della Caccia allo storione.

Nella grande sala da pranzo un cordone in ceramica invetriata di Murano separa la fascia più bassa dal magnifico giardino “pensile” dipinto in alto. Un pergolato ritmato dal volteggio di eleganti fanciulle incorniciate da archi di melagrani e il prezioso decoro di aste di gazebo in stucco dorato. Le tempere, rese “tangibili” dal rilievo del gesso e dello stucco, sottolineano le movenze “musicali” delle danzatrici, mentre si passano fra loro, leggiadre, cordoni piumati. Suggestioni leonardesche, ma anche mantovane di Palazzo Te, forse emiliane di Fontanellato. Ricordi, insomma, cinquecenteschi, dove “s’intrecciano” decorazione ed erudizione. Ma anche un colloquio tutto padovano, scrive l’autrice, con le muse e le baccanti del Caffè Pedrocchi.

Subito dopo la trionfale inaugurazione di questa grande opera del nostro più bel Liberty, avvenuta il 3 giugno 1905, si assiste all’emergere di gravi problemi economici, della proprietà anzitutto, ma anche a causa delle richieste di Laurenti, pronto a rinunciare al salario pur di liquidare la sua equipe. L’apprezzatissima decorazione a tempera è peraltro poco lungimirante sul piano della conservazione (si pensi ai fumi, ai vapori, ai sigari). Il fascino signorile del palazzo, che permane durante la Grande Guerra e che accoglie Cadorna e Diaz (Padova è capitale al fronte) e grandi penne come D’Annunzio e Ojetti, deve fare i conti con il deperimento delle pitture e al generale deterioramento, più tardi, di tutto il palazzo.

Una grande ristrutturazione dell’albergo, avvenuta fra il 1928 e il 1929, lo trasforma in Grand Hotel, e anche la sala Laurenti si rinvigorisce grazie alla volontà del suo artefice, che decide di tornare, settantenne, sui ponteggi.

Nelle alterne fasi di ombra e di fortuna della sua decennale storia, vi alloggeranno tutti gli artisti coinvolti nella decorazione del Bo e del Liviano, ma anche ministri e studiosi, gerarchi fascisti.

Il palazzo, come è noto, viene venduto alla Banca Antoniana e chiude ogni attività nel 1959.

Il progetto di una nuova sede sarà assegnato a un architetto di grande prestigio (specie a Padova), come Gio Ponti; e sempre a questi sarà affidata la nuova costruzione della banca, in una città che frattanto non finiva di mutare pelle con il tombinamento dell’adiacente Ponte di San Lorenzo e l’abbattimento del Palazzo del Gallo. La demolizione del 1962 porterà via per sempre un palazzo storico dal cuore di Padova. Al suo posto non lo spazio di una piazza ma, innanzi al Bo, il “nuovo”, la razionale modernità della nuova costruzione dello Studio Ponti.

E il pergolato? L’idea di Ponti di ricollocarlo nel secondo piano del “nuovo” edificio viene accantonata. L’incauto strappo della decorazione (avvenuto sbrigativamente nell’autunno del 1961) “chiude” l’opera, in decine di tele arrotolate, all’interno di trecento (luttuose) casse di legno. Nessun vincolo era stato deciso per quelle pitture. I rotoli, donati all’Università, finiscono parcheggiati per tre anni (già in frantumi) negli umidi sotterranei del Liviano, infine ai Musei Civici. Non c’era ancora la coscienza (forse la prospettiva) storica dell’importanza culturale del Liberty.

Alcuni frammenti vengono restaurati. Ma vi rimane pochissimo: un paio di testine nell’atrio della banca (divenuta nel frattempo una nuova sede dell'università di Padova) e parti del pergolato nel deposito del Museo Civico.

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