Tra gli argomenti più dibattuti nell’ultimo periodo occorre senza dubbio annoverare la discussione sul clima, che ha conosciuto un enorme interesse mediatico soprattutto in seguito alla nascita e alla diffusione del movimento Fridays for future, un movimento che è divenuto in poco tempo globale, mostrando come il problema del cambiamento climatico non sia incline ai favoritismi.
Vediamo più nel dettaglio quanto è accaduto e sta accadendo sul nostro territorio. Il Mediterraneo costituisce quello che in gergo si definisce un hot spot, ovvero un’area che risulta molto sensibile ed esposta ai cambiamenti climatici. Di conseguenza l’Italia risente particolarmente della sua posizione: se l’aumento della temperatura media degli ultimi cento anni a livello globale è stato all’incirca di 1°C, quello che si è registrato sulla nostra penisola è stato di 2°C.
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Ciò di cui si inizia ad avere una chiara consapevolezza non è tanto questo aumento termico, bensì gli estremi di caldo e di freddo che ne derivano. Un recente studio del Cnr-Iia, pubblicato sull’International Journal of Climatology, condotto da Antonello Pasini, ricercatore dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iia), e Stefano Amendola, dottorando in fisica dell'Università di Roma Tre, si è interrogato sulla possibilità che questi nuovi record di caldo e di freddo registrati in Italia possano ancora essere classificati come comportamenti standard degli estremi di un clima costante. I risultati ottenuti rivelano che i record di caldo sono stati nettamente più frequenti rispetto a quelli previsti in condizioni di temperatura media stazionaria, mentre i picchi di freddo sono in diminuzione. Ciò che questo studio ha dimostrato è che “siamo in presenza di una nuova legge di comportamento di questi eventi estremi e di una netta deriva climatica, ben al di là della variabilità naturale del clima italiano. In particolare, dobbiamo aspettarci tempi di ritorno molto più brevi per i record di caldo e un po’ più lunghi per quelli di freddo” commenta Pasini.
Ciò che va sottolineato è che questo cambiamento non rimane circoscritto a una mera questione di temperature, ma è profondamente impattante, con importanti conseguenze sull’ambiente, sull’uomo e sulla società. Su tali questioni abbiamo chiesto delucidazioni proprio al professor Pasini. Consideriamo in primo luogo l’aumento della siccità e prendiamo come esempio la situazione del Po: è stato calcolato che già nel mese di aprile 2019 il bacino del fiume tocca un livello solitamente registrato ai primi di giugno, inequivocabili dunque le ripercussioni sull’agricoltura. A tal proposito il professore ci ha portato un esempio particolarmente efficace che mostra chiaramente le interconnessioni tra i vari livelli e riguarda le colture di mais: "nel 2012, a causa dell’aumento delle temperature, il mais prodotto è divenuto altamente tossico e di conseguenza non è più stato destinato alla filiera alimentare, i produttori si sono visti costretti a svenderlo e a destinarlo alla produzione di biodiesel".
Dall’altro lato si assiste a un aumento della piovosità, non tanto in termini di frequenza quanto di violenza dei fenomeni. Anche in questo caso gioca un ruolo centrale l’influsso del Mediterraneo, infatti il calore più elevato delle acque scarica molta più energia nell’atmosfera, la quale si riversa poi nell’intensità delle piogge.
Rilevanti poi gli effetti sull’inquinamento atmosferico delle città, gli inquinanti che fuoriescono dalle automobili, in condizioni di forte radiazione solare ed elevata temperatura, vanno incontro a reazioni chimiche che portano alla produzione sempre più massiccia di ozono, minaccia particolarmente rilevante per le funzioni respiratorie dell’uomo.
Ulteriore aspetto da considerare è il legame esistente tra il clima e i flussi migratori. In un recente studio pubblicato sulla rivista Environmental Research Communications, Pasini e Amendola hanno dimostrato il collegamento tra le variazioni meteo-climatiche e le migrazioni dall’area del Sahel all’Italia relative alla fascia di tempo 1995-2009, dunque prima delle primavere arabe e della crisi in Siria. Le ondate di calore, i raccolti poveri e le carestie che ne sono derivate hanno costituito dei fattori di spinta centrali per questi fenomeni, afferma Pasini: “Ritengo che già ora le evidenze presentate in questo studio vadano seriamente prese in considerazione dal mondo della politica, affinché anche in Africa si adottino strategie doppiamente vincenti, come il recupero di terreni degradati e desertificati, che possano condurre a mitigare il riscaldamento globale e, nel contempo, a creare situazioni che prevengano il triste fenomeno delle migrazioni forzate”. Proprio su questo tema il libro del ricercatore dal titolo Effetto serra effetto guerra. Clima, conflitti, migrazioni: l'Italia in prima linea.
Quale dunque la strada da seguire? Occorre lavorare su un doppio binario. Da un lato bisogna agire concretamente e prendere misure adeguate per ridurre i gas serra, dall’altro è necessario adattare i territori, spesso molto fragili, che inevitabilmente si troveranno a dover fronteggiare condizioni estreme.
Speriamo che il buon segnale lanciato dal ministro dell’ambiente Sergio Costa con la candidatura dell’Italia a ospitare la Conferenza Onu sul clima del 2020, la Cop26, sia sintomo di un lavoro costante e volto al miglioramento.