SOCIETÀ

Etiopia: tentativo di colpo di Stato o guerra civile?

È il secondo stato africano più popoloso, oltre 100 milioni di persone, situato in un contesto geopolitico al centro dei traffici tra Africa, Asia ed Europa. Ma sarebbe un errore ridurre a questo l’importanza politica e storica dell’Etiopia e della sua una cultura plurimillenaria. Fra le nazioni africane più antiche e prestigiose, è stata anche l’ultima a cadere – in realtà per poco – in mani occidentali ad opera dell’Italia mussoliniana. Oggi dopo anni di dittatura e di transizione, l’ex regno del Leone di Giuda si avvia verso un percorso di pacificazione e di sviluppo, in un difficile  cammino che qualche giorno fa sembrava messo in pericolo da un tentativo di colpo di Stato. Ne parliamo con Bianca Maria Carcangiu, docente di storia e istituzioni dell'Africa presso l’università di Cagliari.

Professoressa Carcangiu, cosa è successo in Etiopia?

“Da quello che sappiamo il 22 giugno il presidente dello Stato regionale di Amara e tre alti funzionari sono stati uccisi in due attacchi: uno a Bahir Dar, capoluogo di Amara, l’altro nella capitale federale Addis Abeba. All’alba del giorno successivo il premier Abiy Ahmed si è rivolto alla nazione in uniforme militare con un discorso trasmesso dalla tv, annunciando che il golpe era stato sventato e sollecitando la popolazione a rimanere unita per contrastare le ‘forze malvagie’ che vorrebbero dividerla”.

Sarà andata così?

“In realtà da più parti vengono avanzati diversi dubbi. Secondo il ricercatore francese Gérard Prunier ad esempio un vero e proprio golpe ‘avrebbe richiesto un significativo movimento di truppe e l’occupazione di luoghi strategici’, mentre per l’analista dell’International Crisis Group William Davison si è trattato di ‘un attacco contro la classe dirigente dell’Amara, forse per prendere il controllo del governo regionale. Ma le intenzioni degli attentatori sono veramente poco chiare’”.

Insomma potrebbe trattarsi di un problema locale?

“L’Amara è il secondo più grande dei nove Stati regionali (kililoch) su base etnica che secondo la costituzione del 1994 compongono la Repubblica Federale Democratica d'Etiopia. Gli Amara sono storicamente molto forti e hanno profondamente influenzato Il Paese dal punto di vista culturale e religioso: da essi ad esempio provengono l’alfabeto e la lingua ufficiale, l’amarico appunto, nonché la dinastia che ha regnato sul Paese fino al 1974. Con la deposizione del Negus Hailé Selassié sono stati emarginati dal potere, ma nell’ultimo periodo la loro coscienza nazionale sembra essersi risvegliata e hanno avanzato una serie di rivendicazioni territoriali nei confronti del vicino Stato regionale del Tigrai, innescando tutta una serie di tensioni. Eventi che hanno rischiato di far cadere il governo e che hanno messo in difficoltà il processo di transizione democratica e di pacificazione avviato da Abiy Ahmed: pensiamo solo che in poco più di un anno è sfuggito a tre attentati o tentativi di deposizione”.

Parliamo della figura premier eletto nell’aprile dell’anno scorso.

“Di famiglia di etnia Oromo e in parte Amara, rappresenta una nuova leadership non solo per la giovane età (è nato nel 1976), ma anche perché segna una discontinuità rispetto alle élites che hanno gestito l’Etiopia per quasi 30 anni. Da quando nel 1991 la dittatura socialista di Menghistu è crollata ed è salito al potere il primo ministro Meles Zenawi, le posizioni chiave sono state sostanzialmente occupate da personaggi di etnia tigrina, che conta circa il 6% della popolazione (contro il 27% degli Amara e il 34% degli Oromo) e che hanno governato con il pugno di ferro controllando gli apparati di sicurezza e l’esercito. Ora per la prima volta dopo molto tempo sono proprio loro ad essere emarginati e a contestare apertamente la politica del governo centrale”.

Qual è oggi la sfida di Abiy Ahmed?

“Quella di dimostrare che lo Stato è di tutti i cittadini, a prescindere dal gruppo etnico a cui si appartiene. Per questo ha avviato un importante programma di riforme, liberando centinaia di prigionieri politici e facendo rientrare molti esuli; sta inoltre promuovendo la libertà di stampa la partecipazione delle donne, che formano quasi la metà del suo governo. In ottobre per la prima volta una donna, Sahle-Uork Zeudé, è stata eletta Presidente della Repubblica: un gesto molto importante, anche se si tratta di una carica essenzialmente onorifica”.

Oggi la sfida del premier Abiy Ahmed è dimostrare che lo Stato è di tutti i cittadini, a prescindere dal gruppo etnico Bianca Maria Carcangiu

Tutto bene quindi?

“Non proprio: il nuovo governo si trova anche di fronte a tensioni interetniche ricorrenti, legate generalmente al possesso della terra e all’utilizzo delle risorse, che spesso degenerano in violenze che negli ultimi tempi hanno provocato lo spostamento di più di un milione di persone; inoltre l’attuale costituzione è stata essenzialmente concepita come strumento per un divide et impera. Tutto questo secondo gli analisti rischia di portare a un indebolimento del partito del premier: l’Eprdf, il Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope. In questo momento stiamo assistendo a un passaggio decisivo:  Abyi Ahmed è salito al potere perché ha promesso al Paese un cambiamento, soprattutto a livello economico, ma diversi gruppi stanno cercando di approfittare della transizione per tentare di imporre i loro interessi”.

Che ruolo hanno negli equilibri interni i rapporti con gli Stati vicini?

“Il Corno d’Africa negli ultimi anni è stato dominato dalla conflittualità, con la guerra tra Etiopia ed Eritrea e la presenza di uno Stato fallito come la Somalia. A sua volta poi il governo eritreo ha sostenuto le forze islamiste in Somalia in funzione antietiopica, mentre l’Etiopia ha ospitato l’opposizione eritrea e tentato di sostenere la transizione somala. In questo contesto Abiy Ahmed è finalmente riuscito ad avviare un processo di pace con l’Eritrea organizzando due incontri: uno ad Asmara lo scorso 5 settembre e l’altro l’8 novembre proprio a Bahir Dar. A quest’ultimo vertice era presente non solo il dittatore eritreo Isaias Afewerki, ma anche il presidente somalo Mohamed Abdullahi Mohamed. Quindi ha aperto non soltanto un processo di pace con l’Eritrea ma ha iniziato un percorso di stabilizzazione regionale nel quale ha incluso la stessa Somalia, e questo è sicuramente molto importante”.

Come sta procedendo il processo di pace?

“In quest’ultimo periodo poi la normalizzazione sembra essere rallentata: non è un caso se non sono state ancora demarcati i confini tra Etiopia ed Eritrea, che rappresentano la causa per cui la guerra è scoppiata. Si sperava poi che anche il regime eritreo avrebbe allentato un poco la presa nei confronti delle opposizioni interne, ma è ad esempio bastata una piccola critica dalla Chiesa cattolica, peraltro molto blanda e costruttiva nei toni, perché Afewerki reagisse chiudendo tutti gli ospedali cattolici del Paese”.

Cosa possono fare l’Unione Europea e l’Italia per la regione?

“Tutti possono fare qualcosa: l’Italia ha già iniziato – la viceministra agli Esteri Emanuela Claudia Del Re ha fatto diversi viaggi ad Addis Abeba per consolidare i rapporti – e anche l’Ue fa la sua parte per cercare di sostenere questo grande Stato e per risolvere le tensioni. Anche le grandi potenze hanno appoggiato il primo ministro, a cominciare da Usa e Cina, che sta investendo tanto sull’Etiopia. Il governo di Abyi Ahmed può rappresentare una svolta per la pacificazione dell’intera regione, non andrebbe lasciato solo”.

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