Manifestazione per la pace, Milano - foto Reuters
“La guerra è un crimine. L’Ucraina non è il nemico. La Russia pagherà un prezzo enorme per la scelta fatta da Putin. Mentre le bombe cadevano sull’Ucraina nelle prime ore del 24 febbraio, nella metropolitana di Mosca la gente andava al lavoro particolarmente cupa in volto. Non esultava per la guerra improvvisa. La guerra con l’Ucraina è impensabile.” Questo è l’attacco dell’editoriale di Dmitrij Muratov, direttore della Novaya Gazeta russa, giornalista premio Nobel per la pace 2021, assieme alla collega filippina Maria Ressa.
Muratov non è naturalmente il solo, anche all’interno della Russia, a condannare la scelta di Vladimir Putin. Ma considerate le difficoltà e i rischi corsi da chi, all’interno della Russia, prova a manifestare dissenso, sono particolarmente significative. Come abbiamo già ricordato qui, sulle pagine de Il Bo Live, la Novaya Gazeta ha visto ben sei dei suoi giornalisti uccisi negli ultimi anni per il proprio lavoro serio e coraggioso di difesa dell’informazione corretta. E in questi giorni sappiamo che sono migliaia i cittadini e le cittadine russe, soprattutto quelli più giovani, che stanno manifestando contro il proprio governo. E che purtroppo migliaia sono anche i fermi e gli arresti.
Ma oltre alle prese di posizione forti e decise da parte delle popolazioni, dentro e fuori la Russia, ci sono importanti appelli alla pace anche da parte di diverse componenti della società civile e accademica. Tra cui, quella degli scienziati e dei giornalisti scientifici.
“ Let’s make science, not war
Nei giorni scorsi gli scienziati russi hanno pubblicato una lettera aperta contro il proprio governo:
“Noi, scienziati e giornalisti scientifici russi, dichiariamo la nostra ferma opposizione all’aggressione lanciata dalla Russia nei confronti del popolo ucraino. (...) La responsabilità di avviare una nuova guerra in Europa ricade interamente sulla Russia. Non c’è giustificazione razionale per questa guerra. Naturalmente, l’Ucraina non rappresenta alcun rischio per la sicurezza russa. I tentativi di utilizzare la situazione nel Donbass come pretesto per una operazione militare sono totalmente artificiosi. La guerra contro l’Ucraina è ingiusta e francamente è un nonsenso”.
Dura e cristallina dunque la posizione degli scienziati russi, che a domenica aveva raccolto ben più di 4.000 firme tra accademici e giornalisti, sia attualmente operativi in Russia che all’estero, tra cui molti membri dell’Accademia russa delle scienze. I firmatari ricordano che l’Ucraina è un paese vicino e che molti di loro hanno famiglie, amici e colleghi che vivono e lavorano in quel paese. Che hanno combattuto uniti contro il nazismo. E che dunque, oggi, lanciare un’offensiva militare basata su “dubbiose fantasie storiografiche” è un tradimento cinico di questa memoria congiunta. Non solo esprimono rispetto, i firmatari, ma anche simpatia nei confronti dell’orientamento ucraino nei confronti dell’Unione Europea. E si dicono fermamente convinti della possibilità di risolvere le relazioni tra i due paesi in forma pacifica. Ma, soprattutto, sottolineano che “Avendo avviato la guerra, la Russia si è condannata a uno stato di isolamento internazionale. Si è messa nella condizione di stato pariah”. E che questo avrà delle conseguenze anche per loro: gli scienziati e i giornalisti non potranno più lavorare in modo normale, facendo ricerca, perché il loro lavoro richiede cooperazione e fiducia anche da parte dei colleghi di altri paesi. "L'isolamento della Russia significa decadenza culturale e tecnologica del nostro paese e una totale mancanza di prospettive positive. La guerra contro l’Ucraina è un passo verso il nulla.”
La lettera si conclude con la richiesta di fermare tutte le operazioni militari contro l’Ucraina e di riconoscere la sovranità e integrità territoriale del paese. E con una domanda forte di pace. La lettera degli scienziati e giornalisti russi è stata firmata e supportata anche dalla Federazione europea dei giornalisti scientifici.
Gli scienziati ucraini temono per la propria vita e per il proprio futuro
Le parole degli scienziati russi fanno eco a un appello pubblicato nella settimana prima dell’aggressione russa da parte degli scienziati ucraini sulla rivista Nature. Nella lettera, gli scienziati ucraini firmatari raccontavano anche come si stessero preparando all’evenienza, poi diventata realtà, di un attacco russo. Non solo tenendo i propri telefoni e computer costantemente in carica e provvisti di powerbank, ma addirittura facendo in modo di procurarsi armi per la propria difesa e preparandosi eventualmente a fuggire. La situazione era già molto tesa, riporta Nature, dal 2014, e cioè dal momento in cui il governo filorusso di Viktor Yanukovych è stato destituito e a seguito dell’instaurazione di un nuovo governo filo-europeo la Russia ha occupato la Crimea.
Da allora, le istituzioni scientifiche della Crimea sono rientrate sotto la sfera di influenza di Mosca mentre nel resto del paese si discuteva su come innovare e modernizzare il sistema di formazione e di ricerca ucraino. “Nell’incertezza di quello che il futuro potrebbe loro riservare, gli istituti di ricerca e le università della Crimea hanno chiesto di passare sotto il controllo delle istituzioni russe, attratte dalla loro relativa ricchezza e stabilità” scriveva Alison Abbott sempre su Nature nel 2014, in un articolo intitolato Ukraine’s science in turmoil. Aggiungendo che “Il governo di transizione dell’Ucraina accetta ora che il suo programma di riforme non coprirà gli scienziati della Crimea”. Questa situazione ha avuto un forte impatto sulle collaborazioni in atto e sulla vita degli scienziati e delle scienziate, sia di quelli finiti sotto la sfera di influenza russa che di quelle rimaste sotto il controllo ucraino. Ben 18 università attive nelle regioni di Luhansk e di Donetsk, leggiamo sempre su Nature, hanno trasferito le proprie sedi in altre zone del paese, il che ha significato che molti ricercatori e ricercatrici hanno dovuto lasciare le proprie case, scindere i legami con le proprie comunità, e talvolta anche con i propri laboratori.
Le istituzioni scientifiche ucraine si sono in questi anni avvicinate molto a quelle europee e occidentali in qualche caso chiudendo le relazioni precedenti con il mondo della ricerca russa. Dal 2015, l’Ucraina è entrata come paese associato nei programmi di ricerca finanziati dall’Unione Europea. A più riprese, però, le istituzioni scientifiche ucraine hanno sottolineato l’inadeguatezza dei finanziamenti nazionali alla ricerca e l’eccessiva lentezza nei programmi di riforma e, ancora nel 2019, molti scienziati e scienziate ucraine denunciavano la lentezza dei cambiamenti, gli investimenti troppo ridotti, la non volontà di rivedere l’organizzazione del sistema di ricerca del paese che rendeva difficile perfino la partecipazione ai programmi europei. Adesso, sottolineano nell'appello, il rischio è che la situazione peggiori ulteriormente. Ci saranno conseguenze sulle strutture di ricerca, diventerà difficile incontrarsi, viaggiare internamente al paese, ci saranno ancora meno fondi dedicati.
La scienza per la pace è attiva in tutto il mondo da tempo
La chiamata alla pace da parte degli scienziati russi e la richiesta di supporto di quelli ucraini trovano molta eco nel mondo scientifico internazionale. Uno statement on the war in Ukraine è stato immediatamente prodotto da Pugwash, la Conferenza su Scienza e Affari Mondiali che dal 1957 lavora per promuovere il disarmo nucleare e di tutte le armi di distruzione di massa, utilizzando le evidenze scientifiche per promuovere politiche di pace e di negoziazione per un futuro sicuro per tutti.
Ricordando che la definizione dei confini di nuovi stati indipendenti dopo il collasso dell’Unione Sovietica è stata, in gran parte, realizzata in modo costruttivo e senza conflitti di grande portata, con l’eccezione molto significativa della guerra della ex-Jugoslavia, l’appello di Pugwash firmato dall’attuale presidente, il brasiliano Sergio Duarte, e dal Segretario generale, il fisico italiano Paolo Cotta Ramusino, sottolinea la necessità di risolvere la situazione ucraina nel modo più pacifico possibile, ricordando che la Russia è una delle due massime potenze nucleari al mondo e che le armi nucleari sono ben presenti anche in Europa occidentale.
Pugwash prosegue dando alcune indicazioni molto pratiche: la necessità di un immediato cessate il fuoco; il ritiro totale e incondizionato di qualsiasi forza militare straniera attualmente presente sul territorio ucraino; il riconoscimento dell’autonomia del Donbass e quello del ritorno della Crimea alla Russia; la necessità di garantire libertà di movimento alle persone attraverso i confini dell’Ucraina sia da e per la Russia che verso gli altri paesi. Pugwash inoltre suggerisce di eliminare le sanzioni alla Russia non appena le truppe russe avranno lasciato il territorio ucraino, sottolineando che le sanzioni hanno conseguenze negative non solo per il paese sanzionato. Infine, propone di raggiungere un accordo chiaro sullo stato di neutralità dell’Ucraina, riconosciuto come strategico all’interno di un trattato internazionale. E un programma di riabilitazione economica pacifica per l’Ucraina con nuove negoziazioni per creare un'architettura di sicurezza in tutta la regione europea.
Pugwash - il cui nome deriva dalla località dove si è tenuto il primo meeting, in Nova Scotia, Canada - si è ispirata al manifesto di Bertrand Russell e Albert Einstein del 1955 che chiamava la comunità scientifica a ragionare sui rischi posti dallo sviluppo delle armi nucleari. Già nel primo incontro l’associazione era riuscita a riunire scienziati americani, sovietici, giapponesi, britannici, canadesi, australiani, austriaci, cinese, francesi e polacchi, mostrando fin da subito l’intenzione di mantenere una dimensione che rispecchia quella di una comunità scientifica globale improntata alla collaborazione più che al fronteggiamento. Nel 1995, Pugwash è stata insignita del premio Nobel per la pace.
Pugwash è una delle più conosciute iniziative in cui scienziati di tutto il mondo si mobilitano per promuovere una cultura della pace. Ma non è l’unica. Come ha più volte ricordato Pietro Greco, nostro caporedattore fino al 18 dicembre 2020, una parte della comunità scientifica si è mossa in favore della pace fin da metà ‘800. Per ricordare alcuni episodi chiave di questo rapporto e l’impegno di diversi fisici per la promozione della pace e per il contrasto alla guerra e alla corsa agli armamenti, Pietro Greco aveva curato uno dei suoi numerosi libri, Fisica per la pace - tra scienza e impegno civile, per Carocci editore 2017. Nel volume sono raccolti nove esempi di impegno forte e determinato della comunità scientifica per promuovere una cultura di pace e di collaborazione tra i popoli. Si parte dai manifesti pubblicati durante la I e la II guerra mondiale, da quello di Einstein e Nicolai del 1914 ma ancor più dal già citato Manifesto di Russell e di Einstein del 1955, che raccolse un immenso seguito, per ricordare poi la costruzione del CERN di Ginevra, una risposta pratica e concreta alla necessità di avere anche un luogo fisico dove la scienza europea potesse essere fatta in modo collaborativo. Uno degli esempi più recenti, citato da Pietro Greco, è quello dell’acceleratore Sesame, in Giordania, dove palestinesi, iraniani e israeliani lavorano insieme.
Molto più di recente, il fisico italiano Carlo Rovelli e Matteo Smerlak, ricercatore dell’Istituto Max Planck per la matematica nelle scienze, hanno lanciato un appello globale, una vera e propria campagna anche mediatica, intitolata “Global peace dividend”. L’iniziativa non è strettamente inserita nel contesto di promozione della pace ma allarga lo sguardo, proponendo una riduzione della spesa militare a tutti i paesi del mondo pari al 2% annuo per almeno 5 anni per raccogliere i fondi necessari a mettere in pratica gli accordi e le politiche di contrasto alla crisi climatica. La campagna è stata supportata e firmata da 50 premi Nobel e successivamente da molte personalità del mondo della cultura ed è ancora in corso. Hanno firmato anche i presidenti di 5 accademie scientifiche e delle diverse associazioni storicamente impegnate contro la guerra, come il Bullettin of the atomic scientists, il Peace research institute di Francoforte, la Union of concerned scientists e molte altre. Purtroppo, proprio in questi giorni, diversi paesi stanno annunciando semmai un rafforzamento dei propri sistemi di difesa, in risposta a quello che sta avvenendo. Di queste ore è l’annuncio del cancelliere tedesco Olaf Scholz che ha deciso un incremento significativo della spesa bellica tedesca, con l’impegno di oltre 100 miliardi di euro e la prospettiva di aumentare la percentuale di spesa oltre il 2%.
Anche in Italia le iniziative della scienza per la pace sono diverse. Esiste l’Unione scienziati per il disarmo, l’Uspid, nata nel 1983 dall’idea del fisico Carlo Bernardini e altri tre scienziati. C’è poi il Gruppo di lavoro per la Sicurezza Internazionale e il Controllo degli Armamenti (SICA) dell’Accademia dei Lincei, nato a fine anni ‘80 per volere dell’allora vicepresidente dell’Accademia Edoardo Amaldi. Oggi presieduto da Luciano Maiani, il SICA organizza le conferenze Amaldi per lo sviluppo della cooperazione scientifica internazionale e contro la proliferazione nucleare. E c’è Isodarco, una ONG fondata nel 1966 nuovamente da due fisici, Edoardo Amaldi e Carlo Schaerf, che organizza una vera e propria scuola internazionale e forum di ricerca sui problemi della sicurezza e del disarmo.
Tante le iniziative e le forze in campo, dunque. Tante anche se mai sufficienti, perché com’è evidente in queste giornate buie e tristi in cui assistiamo allo sviluppo di un conflitto che non avremmo mai immaginato potesse accadere in questi termini nel cuore dell’Europa contemporanea, c’è moltissimo lavoro da fare per la pace, e la scienza, come appunto ricordava in tanti suoi articoli il nostro Pietro Greco, può e deve fare avere un ruolo di primo piano.
Tanto più, come sottolinea il fisico Alessandro Pascolini dell’Università di Padova, vicepresidente di Isodarco, che sul nostro giornale scrive frequentemente di controllo degli armamenti nucleari, che anche quest’anno c’è stato il Doomsday Clock “a ricordarci quanto sia delicato e incerto l’equilibrio che permette la sopravvivenza dell’umanità in presenza delle armi nucleari e di nuove destabilizzanti tecnologie e nella attuale fase dei cambiamenti climatici che condizionano la vita sul nostro pianeta”. Lo scorso 20 gennaio, il Doomsday Clock aveva ancora le lancette posizionate alla distanza “dalla catastrofe globale a soli 100 secondi, come gli scorsi due anni, la peggior situazione di sempre”. E l’invasione dell’Ucraina non c’era ancora stata.