SOCIETÀ

Paura e rabbia: emozioni contemporanee

Di questi tempi è difficile non sentirsi spaesati, in balia di cambiamenti storici, sociali ed economici. Qual è la reazione dell'essere umano confuso e impotente? La paura. Quest'emozione è diventata quasi la normalità nella società odierna: basti pensare all'uso smodato della parola “ansia” anche tra i giovanissimi e ai numerosi meme sui social network dedicati all'argomento. L'incertezza in cui viviamo, quindi, è alla base dei nostri timori, ma non solo: l'altra emozione caratterizzante la società contemporanea è la rabbia, principalmente basata su un bisogno di rivalsa.

Adriano Zamperini, direttore del master in Dirigente della sicurezza urbana e contrasto alla violenza presso l'università di Padova, spiega: “La paura è un'emozione alla base della convivenza umana. Infatti, lo Stato nasce e si sviluppa come quel progetto che permette ai cittadini di vivere senza preoccuparsi della propria incolumità, perché c'è un terzo che si prende cura della loro convivenza, la quale può essere armoniosa, ma anche conflittuale e pericolosa. I cittadini hanno concesso allo Stato una sorta di esclusiva sull'uso della forza, ciò significa che i suoi rappresentati sono legittimati a intervenire quando qualcuno rompe il patto sociale e disobbedisce alle norme. Questo percorso storico ha sancito l'avvento dello Stato moderno come garante di una condizione di maggiore agio nei rapporti interpersonali. È evidente che il ritorno della paura, di cui oggi si parla tanto, sia legato a un problema strutturale della nostra organizzazione statuale che oggi non è più in grado di rispettare il patto fondativo alla base della sua origine. Lo Stato è in crisi da molti punti di vista. Rispetto alla capacità di proteggere i cittadini, uno Stato forte lo fa attraverso le Istituzioni, non mette loro in mano una pistola, né gli dice di armarsi perché così saranno al sicuro. Questo è, invece, un modo implicito per riconosce le proprie debolezze”.

Come è accaduto ciò di cui parla Adriano Zamperini? Gli stati vivono in un contesto globale: “Anche il nostro pianeta ha subito dei cambiamenti epocali – continua il professore – la globalizzazione non è solo uno spostamento di merci, ma anche di persone. Oggi viviamo dei cambiamenti molto repentini da un punto di vista societario, generazionale e antropologico, questo può generare spaesamento e confusione. Se a questo panorama aggiungiamo le trasformazioni economiche, il mutamento della protezione sociale, la crisi del welfare, ci accorgiamo che si sono verificati tutta una serie di cambiamenti che hanno reso il singolo cittadino sempre più solo, disorientato, e, perciò, sempre più impaurito”.

Lo sviluppo tecnologico ha creato un gap generazionale. Storicamente la quantità di vita equivaleva alla quantità di esperienze e conoscenze. Oggi, invece, i nipoti, nativi digitali, sono più esperti dei loro nonni Adriano Zamperini

La rabbia, da questo punto di vista, la vedrei come una reazione al senso di smarrimento. Va intesa come un'emozione etica, cioè un modo di dare una risposta, spesso anche distruttiva o non sempre produttiva: mostra che qualcosa non sta andando per il verso giusto. Io, come individuo, do un segnale, perché avverto un senso di ingiustizia, perciò tutti i movimenti sociali che stiamo vedendo sono mossi da un senso di indignazione e rivalsa. Queste proteste non hanno elaborato un proprio manifesto programmatico, sono semplicemente spinte dal disappunto verso la situazione attuale. In questo scenario rabbia e paura sono emozioni politiche, quindi facilmente usabili e manipolabili”.

Le crisi politiche, economiche e sociali sono cicliche. Questo significa che torneremo a vivere in armonia col passare degli anni? Come spiega Zamperini, non è esattamente così: “L'esperienza mi ha insegnato che il tempo non fa nulla. Non è vero che il tempo lenisce le ferite: davanti a queste crisi importanti e strutturali non serve inventarsi dei nemici per mettere una pezza a un problema contingente. Il rischio è innescare cortocircuiti di difficile risoluzione. È invece necessaria un'analisi puntuale, e le scienze psicologiche possono dare un contributo importante. Se non prendiamo in mano questo momento di crisi, rischiamo di dare implicitamente il messaggio che non si possa far nulla. Quando, con un tono rassegnato, ci viene detto che così funziona la globalizzazione, anche le persone si rassegnano e si piegano su loro stesse oppure possono diventare rabbiose e cariche di risentimento. La crisi va studiata, analizzata e soprattutto non va banalizzata. La paura di questi cittadini non è legata a un problema marginale, ma è un problema fondativo della vita collettiva. Noi oggi stiamo vivendo un passaggio epocale fondamentale, infatti ci troviamo davanti, per la prima volta, a una situazione in cui gli altri, che abbiamo visto per decenni nello schermo televisivo, oggi sono sotto casa, convivono con noi negli spazi pubblici, mandano i loro figli a scuola coi nostri figli. La convivenza richiede lo sforzo di tutti: gli esperti nel campo sociale, ma anche chi gestisce la cosa pubblica, affinché si dia una risposta costruttiva per far funzionare una convivenza che deve affrontare, a mio avviso, una sfida importante, cioè costruire la nostra identità senza annichilire l'altro. Per fare questo, è necessario formare amministratori, tecnici, esperti, operatori di comunità, come si propone di fare il master di cui sono direttore”.

Una persona impaurita, è una persona che oltre ad avere reazioni scomposte, porta avanti una società che impoverisce la propria capacità di espandersi e svilupparsi. La nostra società davanti a questa crisi ha scelto la strada dell'orientamento alla prevenzione, che punta a un eccesso di preoccupazione e di atteggiamento difensivo. Abbiamo bisogno, invece, di sviluppare maggiormente l'orientamento alla promozione, che libera le energie e permette di sperimentare e raggiungere i propri ideali. In qualsiasi essere umano e in qualsiasi contesto collettivo, prevenzione e promozione devono essere bilanciate, un individuo deve sapersi proteggere in modo preventivo, ma deve sapersi anche sviluppare. Oggi siamo una società sbilanciata: il peso maggiore è sulla prevenzione e questo sta mortificando la nostra capacità di sviluppo. Non esistono ricette magiche per raggiungere l'equilibrio, bisogna calarsi nella società con idee molto chiare e con delle prospettive scientifiche fondate, promuovendo un cambiamento dal basso che sia duraturo nel tempo, solo così possiamo introdurre un senso di fiducia e di speranza nelle comunità che non trovano risposte ai loro problemi”.

Forse un valido cambiamento sociale dal basso potrebbe concretizzarsi nel ritrovare la capacità di fare rete, come quando alla crescita dell'individuo contribuiva tutta la comunità e quando ci si conosceva, si comunicava maggiormente e perciò ci si fidava gli uni degli altri, sconfiggendo la paura. Oggi gli esseri umani sono delle isole, come spiega il professore: “Siamo diventati una società di individui. Le reti sociali si mantengono nelle realtà più piccole, questo permette di affrontare al meglio alcune questioni, come un tempo quando, ad esempio, all'educazione dei bambini partecipava tutto il vicinato. Se oggi provassimo a riprendere il figlio di un vicino di casa, rischieremmo di essere presi di mira dai genitori, così come accade ad alcuni insegnanti nelle scuole. Questo è un evidente segnale della crisi che stiamo vivendo, ma non può essere risolta solo con la produzione di norme, perché così si arriva alla giuridificazione del conflitto”.

Il conflitto appartiene alla vita collettiva, certamente è necessario disciplinarlo, ma, a un certo punto, l'eccesso di leggi porta a una paralisi delle interazioni. Dobbiamo riscoprire uno spazio relazionale dove affrontare i problemi di convivenza, senza arrivare sempre all'ambito giuridico. Le norme possono inibire l'abilità dei singoli di affrontare e risolvere in modo costruttivo i problemi normali di convivenza. Dobbiamo ritrovare uno spazio di socialità, altrimenti ci impoveriamo come esseri umani, non è semplice, ma dobbiamo riconquistare questi spazi, perché senza i rapporti interpersonali non possiamo vivere insieme: senza fiducia non c'è possibilità di vita collettiva”.

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