SOCIETÀ

Perché non dimenticheremo quei duecento espulsi dal Bo

27 gennaio 2014: tra gli stemmi e i marmi del palazzo dell’università viene apposta una semplice targa: “Angosciata dalla memoria della strage di milioni di innocenti martiri del delirio nazista, l’università di Padova rende onore ai 200 professori, studenti e tecnici ebrei che il regime fascista allontanò da queste aule con l’infame volontà di espellerli dal consesso civile, spesso consegnandoli all’aguzzino nazista”.

Quest’anno abbiamo celebrato il giorno della memoria in modo non rituale, compiendo un atto di giustizia e di riparazione storica rispetto alla vergogna della discriminazione introdotta e attuata in una antica e gloriosa comunità scientifica e di idee. Pesa come un macigno sul passato di tutti noi il ricordo di coloro che, nel 1938, furono espulsi da questo ateneo in forza delle leggi razziali, che misero in moto la macchina della accelerazione antisemita e della persecuzione: oltre 200 tra docenti e studenti – 51 docenti e 139 studenti e una decina di tecnici – dovettero subire l’onta e l’umiliazione dell’espulsione dall’università.

Conosciamo ora, da studi storici recenti, tra i quali il volume L’Università dalle leggi razziali alla Resistenza recentemente ripubblicato, quasi tutti i loro nomi: il fisico Bruno Rossi, l'economista Marco Fanno, il filosofo del diritto Adolfo Ravà, il giurista Donato Donati – preside di Scienze politiche – alcuni professori incaricati e assistenti, tra i quali Cesare Musatti e Eugenio Curiel, per citarne solo alcuni. Ma il numero esatto non lo possiamo ricostruire perché, alcuni di essi non inseriti nei ruoli universitari, non ebbero semplicemente rinnovata la nomina alla scadenza annuale, e si sono quindi smarrite le tracce di alcune di queste piccole e grandi tragedie personali nel grigiore degli atti burocratici. Li ricordiamo oggi con commozione profonda e partecipe, e con la pena di immaginare una terribile esperienza consegnata alla storia: e tra tutti voglio in particolare ricordare Adolfo Ravà, uno dei maestri del mio maestro, di cui Enrico Opocher sottolineò più volte la grande forza morale e il fascino e l’imponenza anche fisici e l’amarezza di chi, pur nutrendo una fede profonda nel “sociale” e nella “giustizia”, dopo aver moltiplicato le sue energie in un altissimo magistero, fu cacciato con atroce ingiustizia da quella cattedra che tanto aveva onorato.

Per molto tempo rimasero ignoti molti dei nomi degli studenti espulsi, ma anche di essi si stanno via via recuperando i profili, ricostruendo il loro percorso nel nostro ateneo: brandelli di vite giovanili cui la storia cerca di offrire almeno la giustizia del ricordo.

Di queste vite, alcune furono stroncate, come quella di Nora Finzi, triestina, laureatasi a Padova in Lettere nel 1941: di lei ci resta il certificato di nascita, ma non quello di morte, perché ad Auschwitz non si teneva questa contabilità. Lo stesso accadde agli studenti ungheresi Giorgio Arany e Giuseppe Kroò, entrambi iscritti a Ingegneria, e a Paolo Tolentino, nato a Graz, iscritto a Lettere: tutti deceduti in data ignota. E lo stesso tragico epilogo ebbe la vita di Alberto Goldbacher, docente a Ingegneria, eliminato lo stesso giorno del suo arrivo ad Auschwitz, nel 1944.

Non conosciamo tutte le tragedie che furono causate dall’applicazione di queste leggi, uno scempio del diritto così immane da non poter essere tollerato: ne ricordiamo una, quella di Tullio Terni, di cui Angelo Ventura ha tracciato un ritratto vibrante, ricostruendo i tratti della sua vita caduti nell’oblio. Terni, fondatore, direttore e animatore dell’istituto di Istologia ed embriologia della facoltà di Medicina, fu sospinto dalla legislazione antiebraica lungo un piano inclinato che non poté più risalire: lui, illustre scienziato, insignito della croce di guerra, era stato costretto a lasciare la cattedra e le sue innovative, stimatissime ricerche, e ridotto a mendicare certificati di battesimo, attestati vari, atti notori, da allegare alla domanda di accertamento di non appartenenza alla razza ebraica. A nulla valse l’interessamento del rettore Carlo Anti che gli ottenne il permesso, se non di insegnare, almeno di continuare le ricerche nel “suo” istituto. Terni fu cacciato nuovamente nel 1941 perché il regime, impegnato in una folle guerra, trovava ancora il tempo per perseguitare gli scienziati. La depressione lo avvolse, e lo condusse al suicidio, nel 1946, dopo essere stato reintegrato nel suo insegnamento.

Ma dicevamo dell’interessamento del rettore Carlo Anti a favore dell’insigne collega, come aveva cercato di fare anche per altri, adoperandosi per far ottenere loro la cosiddetta “discriminazione”, che li sottraeva alla sorte riservata agli ebrei. Questo fatto getta luce sul clima di sgomento in cui Padova visse quei terribili anni: la comunità universitaria, come del resto gran parte delle classi dirigenti, accolse le leggi razziali con un diffuso sebbene tacito sentimento di disapprovazione, e sul piano personale, quello degli affetti, si tentò di dare qualche aiuto ai colleghi, cercando di sottrarli alla persecuzione. Tuttavia, a parte gli antifascisti convinti, prevalse, a fronte dell’accentuarsi della pressione del regime sul mondo della cultura, l’allineamento a livello ufficiale. E il rettore Anti – al di fuori degli atti che gli erano consentiti dalla legge – applicò con secco linguaggio burocratico le norme discriminatorie imposte dalla politica razziale. Alcuni maestri di questo ateneo, pur accettando per necessità di vita quest’odiosa discriminazione, inconciliabile con la libertà che è propria al mondo della cultura, seppero però tener fede anche in quel fosco periodo, alla loro missione, insegnando alle giovani generazioni la forza liberatrice della verità.

Basti citare un solo esempio, quello di Concetto Marchesi che dopo aver infiammato i cuori di centinaia di studenti esaltando i modelli della classicità, all’atto di abbandonare l’università di Padova il 28 novembre 1943 si rivolgeva a studenti e docenti con queste parole: “Per la fede che vi illumina … liberate l’Italia dall’ignominia”.

La sciagurata politica persecutoria antiebraica fu poi denunciata a chiare lettere e coraggiosamente – nel 1944, in pieno dominio nazifascista – dal pro-rettore Egidio Meneghetti, che osò vergare righe colme di sdegno, denunciando "il rassegnato lamento degli ebrei miserandi, braccati, scovati in ogni rifugio, premuti negli immondi vagoni del bestiame e condotti a morire di stenti". Dopo il crollo del regime, Padova seppe rialzare la testa, e il Bo divenne segretamente la centrale operativa della Resistenza veneta, conquistando al nostro ateneo la responsabilità storica che gli competeva e dischiudendo con onore e con il prezzo di moltissimi caduti le vie al ritorno della libertà. Sotto il rettorato di Giuseppe Gola, notoriamente antifascista che – dopo il forzato allontanamento di Marchesi – seppe reggere con dignità e fermezza l'università di Padova durante l'occupazione tedesca, si coltivava in segreto o in clandestinità il seme dell’antica libertas, in anni di silenziosa, ma tenace difesa della missione di civiltà del nostro ateneo.

Non lasciamo morire questo seme: i segni tangibili di memoria servono, affinché alla vergogna per gli errori del passato non si sommino l’indifferenza o il disincanto del presente.

Giuseppe Zaccaria

Dal discorso pronunciato il 27 gennaio 2014, in occasione della Giornata della memoria

 

Gli allievi della scuola superiore ebraica di Padova, 1939. Foto tratta dal libro Il cammino della speranza. Gli ebrei a Padova (Papergraf, 2000)

---- SPECIALE GIORNATA DELLA MEMORIA

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