SOCIETÀ
Il rischio Covid-19 nei campi profughi: il caso Rohingya in Bangladesh
Momento di preghiera nel campo di Kutupalong. REUTERS/Rafiqur Rahman (2019)
Nel mondo circa 70,8 milioni di persone sono state costrette a fuggire dal loro paese. Di queste, circa 25,9 milioni sono rifugiati. 70,8 milioni significa che ogni due secondi una persona nel mondo è costretta a scappare dalla propria casa a causa di conflitti o persecuzioni.
La fuga come ben sappiamo spesso si ferma in dei campi in cui i migranti sono rinchiusi in attesa di ulteriori sviluppi, campi in cui le persone sono in sovrannumero e le condizioni igieniche scarseggiano.
In questi giorni in Italia stiamo parlando di come affrontare la fase 2 della pandemia, una fase in cui la parola d’ordine è distanziamento sociale. Ci sono luoghi però, in cui questo distanziamento sociale non esiste, non esistono nemmeno le condizioni igieniche necessarie a fermare un possibile focolaio di coronavirus e,troppo spesso, non esistono nemmeno i più basilari diritti umani.
Abbiamo spesso raccontato della situazione che più ci coinvolge come Stato, cioè quella libica, ma c’è un capo profughi che ha la popolazione di una grande città italiana, in cui gran parte delle persone sono costrette a dormire all’aperto. La zona è quella della spiaggia più lunga del mondo, con 120 km di sabbia della foce del fiume Bakkhali fino a Teknaf. Siamo in Bangladesh, a Cox’s Bazar, a 150 km da Chittagong, la seconda città più popolosa del Bangladesh. Nella lingua di costa che divide il Myanmar dall’India, in un angolo di paradiso c’è anche il campo profughi tra i più grandi del mondo.
Già nel 2018 la situazione, raccontata in un reportage de L’Espresso, era critica, con più di un milione di persone fuggite dalla regione birmana del Rakhine. In questa zona, che si trova nella Birmania settentrionale, vivono i Rohingya, un gruppo etnico di religione islamica. Dal 1982 per la legge Birmana di fatto i Rohingya non sono riconosciuti come etnia, e di conseguenza non possono avere la cittadinanza birmana.
Rohingya
E’ del 2018 un duro rapporto della Nazioni Unite sulla questione dei Rohingya in Myanmar, in cui si legge che ”una caratteristica delle operazioni dell’esercito birmano contro i Rohingya è la violenza sessuale. La dimensione del fenomeno, la sua crudeltà e la sua natura sistematica rivelano oltre ogni dubbio che lo stupro viene utilizzato come tattica di guerra, strumento di una pulizia etnica che comprende anche le uccisioni di bambini”. I Rohingya sono quindi considerati «la minoranza più perseguitata al mondo».
Kutupalong refugee camp (Cox’s Bazar)
L’unica via di salvezza è la fuga, che quasi sempre si conclude in Bangladesh, al campo profughi di Cox’s Bazar. Secondo Simone Garroni, direttore generale di “Azione contro la Fame”, ad oggi lì vivono “855.000 civili Rohingya, in 34 campi di fortuna, sempre più affollati”. Parliamo di distanziamento sociale ma la stima è che nel campo profughi bengalese vivano 40 mila persone per chilometro quadrato, una densità 4 volte più alta di quella di New York e quasi sei volte quella di Milano.
L’Ong sta cercando anche di far fronte alla diffusione del Covid-19, in una situazione drammatica anche dal punto di vista igienico. “Abbiamo creato un piano di emergenza vero e proprio - hanno dichiarato i responsabili di Azione contro la Fame -, coordinato in sinergia con le autorità locali, finalizzato a creare una “cintura di protezione” attorno al campo di Cox’s Bazar.
Cox’s Bazar e Covid-19
Un articolo su Nature inoltre riporta come proprio il campo profughi bengalese sia stato il primo ad essere utilizzato in un modello per quanto riguarda la pandemia di Covid-19. Paul Spiegel, uno dei firmatari dello studio presente in pre-print su Medrxiv e direttore del Center for Humanitarian Health della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, ha creato un modello che proietta i risultati nel campo usando i dati che erano disponibili riferiti dalla Cina, sull'età, sulla gravità del caso e sui tassi di mortalità per il focolaio. L'analisi è stata pubblicata il 26 marzo scorso e non è stata sottoposta a peer-review.
Il team di ricerca è partito analizzando la situazione del campo profughi, in cui sono presenti cinque ospedali gestiti da organizzazioni non governative e governi stranieri, per un totale di 340 posti letto. L’obiettivo era quello di capire come il Covid-19 potrebbe avere conseguenze ancora più terribili tra i rifugiati che vivono nei campi rispetto alle popolazioni in generale. L’analisi quindi ha riportato i risultati secondo tre scenari diversi: alta, bassa e moderata trasmissione del virus, prendendo in considerazione il numero e il tasso giornaliero di infezioni, ricoveri, decessi e bisogni sanitari previsti in ogni scenario.
“ L’obiettivo era quello di capire come il Covid-19 potrebbe avere conseguenze ancora più terribili tra i rifugiati che vivono nei campi rispetto alle popolazioni in generale
Nello scenario peggiore lo studio riporta come in soli 58 giorni la capacità ospedaliera sarebbe esaurita e ciò potrebbe provocare oltre 2.000 decessi.
Una prima critica allo studio, riporta Nature, arriva da Theo Vos, un epidemiologo presso l'Università di Washington a Seattle, che avrebbe messo in luce come l’approccio del modello abbia delle limitazioni, tra le quali il fatto che sia stata considerata una costante riproduzione (R0), cosa che in realtà abbiamo già visto, anche sul nostro giornale, essere variata nel tempo.
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Lo stesso Spiegel però afferma che i risultati, anche per lo scenario peggiore, sono probabilmente sottostimati e che il bilancio finale che il virus potrebbe assumere su gruppi di persone in cui ci sono cattive condizioni di salute e malnutrizione è ancora sconosciuto. A questo bisogna aggiungere che, nel caso gli ospedali venissero sopraffatti dal virus, anche le morti per altre malattie infettive, come ad esempio la malaria, potrebbero aumentare.
Ad oggi nel campo di Cox’s Bazar non sarebbero stati riscontrati casi di Covid-19. La situazione però rischia di essere una bomba ad orologeria. L’UNHCR infatti, ha lanciato l’allarme “in merito alle conseguenze potenzialmente letali derivanti dall’eventualità che i preparativi di risposta all’imminente stagione dei monsoni in Bangladesh non siano completati per tempo, in una fase in cui il Covid-19 continua a diffondersi”.
I preparativi per la stagione annuale dei monsoni, secondo l’agenzia, “avrebbero risentito della sospensione delle operazioni di riduzione del rischio da catastrofi (Disaster Risk Reduction/DRR), compresi i miglioramenti alle reti fognarie e i lavori di stabilizzazione delle pendenze. Analogamente, anche il trasferimento di rifugiati che vivono in aree a rischio elevato di inondazioni e frane ha subito ritardi. Anche la consegna di forniture è stata problematica, dal momento che il “confinamento” imposto a causa della pandemia Covid-19 ha condizionato i trasporti su strada”.
Nel settembre 2019 furono oltre 4mila le famiglie presenti nei campi di Cox’s Bazar rimaste sfollate a causa delle precipitazioni monsoniche. Per evitare che la situazione possa essere peggiore quest’anno il Governo del Bangladesh, insieme all’UNHCR, ha incluso i rifugiati Rohingya nel piano di risposta nazionale, costruendo strutture per l’isolamento e di unità di terapia, con l’obiettivo di mettere a disposizione 1.900 letti a beneficio tanto dei rifugiati quanto delle comunità di accoglienza nelle prossime settimane.
Se la situazione è grave e di difficile gestione in società evolute, in cui il sistema sanitario funziona ed è all’avanguardia e l’economia, nonostante tutto, rappresenta il motore del Paese, è facile immaginare le difficoltà che si possono riscontrare in situazioni precarie, sia dal punto di vista igienico che umanitario. Se i dispositivi di protezione individuale, tra polemiche futili, sembrano scarseggiare da noi, è necessario non dimenticare chi è presente nel campi rifugiati di tutto il mondo.