UNIVERSITÀ E SCUOLA

Scuola, in bilico tra misure di prevenzione ed esigenze didattiche

La scuola è ricominciata. Con lunghe file di bambini che entrano nei plessi scolastici, distanti un metro da compagni e maestre e con la mascherina sul volto negli spazi comuni. Ma come sarà, ora, andare a lezione e imparare, in questa “nuova” scuola, in bilico tra misure di prevenzione ed esigenze didattiche?

Facciamo un passo indietro e ripercorriamo in breve alcuni dei momenti che hanno scandito il dibattito sul tema. Nei mesi scorsi da più parti è stata ribadita la necessità di riaprire le scuole in sicurezza con il nuovo anno scolastico, adottando tutte le misure del caso, alla luce delle conoscenze che si possiedono sulla suscettibilità dei bambini al virus Sars-CoV- 2 e sulla loro contagiosità. In questo senso si esprimeva, ad esempio, Susanna Esposito, ordinaria di pediatria all’università di Parma e presidente della World Association for Infection Diseases and Immunological Dosorders, sostenendo che per un bambino la scuola è anche formazione e che non può essere completamente sostituita dalla didattica in rete. L’insegnante, argomentava, ha un ruolo formativo di valore che non può limitarsi alla didattica online. E suggeriva una serie di misure da adottare nei plessi scolastici per contenere il rischio di contagio. Sulla stessa linea anche Antonella Viola, direttrice scientifica dell'Istituto di Ricerca Pediatrica Città della Speranza e ordinaria di patologia generale al dipartimento di Scienze biomediche dell’università di Padova: “Naturalmente dobbiamo riaprire le scuole – dichiarava in un’intervista alla collega Barbara Paknazar – perché se non riapriamo si ferma il Paese, inoltre per i ragazzi e per i bambini la socialità è importante”. E, su tutti, ricordiamo anche la lettera firmata dagli oltre 1.500 membri del Royal College of Paediatrics and Child Health del Regno Unito, secondo cui il protrarsi delle chiusure avrebbe rischiato di minare le “opportunità di vita di una generazione di giovani”.

Proprio in questi giorni le scuole hanno infine riaperto i cancelli, seguendo una serie di protocolli e linee guida indicate dal Ministero dell’Istruzione, a partire dal Piano Scuola 2020/2021. Misure di prevenzione necessarie, del resto, se si tiene conto di quali sarebbero le conseguenze in caso di contagio: “È stato calcolato che ogni bambino che a scuola si ammala – ha sottolineato Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Medicina molecolare dell’università di Padova, in una recente intervista a Il Bo Live – genera la necessità di effettuare almeno un centinaio di tamponi: al bambino stesso, alla classe, ai docenti, a tutto il personale non docente che eventualmente è venuto in contatto, e ai genitori. A ciò si aggiunga che si sta per avvicinare la stagione dell’influenza, in Italia si ammalano nove milioni di persone di influenza, e sei milioni di questi sono ragazzi dai 4 ai 16 anni”.

Guarda l'intervista completa a Franco Lorenzoni, insegnante, fondatore della Casa-laboratorio di Cenci, autore di "I bambini pensano grande". Servizio di Monica Panetto, montaggio di Elisa Speronello

Oggi si concorda nel ritenere che i bambini siano meno suscettibili all’infezione da Sars-CoV-2 e, quando contraggono il virus, manifestino sintomi più lievi (lo studio condotto a Vo’ da Andrea Crisanti dimostra, per esempio, che nessuno dei 234 bambini al di sotto dei 10 anni, 13 dei quali a contatto con persone in grado di trasmettere l’infezione, è risultato positivo al virus, ma anche altri studi vanno in questa direzione). Molti bambini sono asintomatici e paucisintomatici e per questo, secondo Enrico Bucci, professore di biologia dei sistemi alla Temple University di Filadelfia, che ne scrive su Il Foglio, il semplice controllo dei sintomi attraverso la misura della temperatura per esempio, “ove i bambini dovessero risultare infettivi, non servirà affatto a contenere i focolai scolastici” e indica piuttosto una politica più aggressiva a livello diagnostico. Non si possiedono ancora dati definitivi su quanto bambini e ragazzi possano essere infettivi. Va citato, tuttavia, uno studio realizzato dal Korea Centers for Disease Control and Prevention di Cheongju, che ha preso in esame circa 60.000 contatti di 5.706 soggetti positivi a Sars-Cov-2, secondo cui i ragazzi al di sopra dei 10 anni avrebbero la capacità di trasmettere il virus come gli adulti, mentre i bambini con meno di 10 anni sembrerebbero essere meno contagiosi. Sebbene si tratti di uno studio robusto e ben strutturato, c’è però un aspetto da considerare, ha evidenziato Antonella Viola nel commentare il paper, e cioè che l’indagine coreana probabilmente sottostima il numero di bambini che possono essere effettivamente portatori dell’infezione, proprio perché spesso sono asintomatici o hanno una sintomatologia molto lieve. Un recente studio, di cui riferisce il Centre for Disease Control and Prevention, dimostra per esempio che anche i più piccoli possono trasmettere la malattia.

I protocolli e le linee guida adottate nelle scuole per l’infanzia, nelle primarie e secondarie, devono dunque tener conto di quanto via via la ricerca acquisisce in termini di nuove conoscenze. “Già a giugno è stato varato il Piano per la ripartenza di settembre –  ha sottolineato la Ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, in un messaggio indirizzato ai docenti e a tutto il personale delle scuole italiane, in occasione della ripresa dell’anno scolastico – preparato insieme ai tanti attori del sistema scolastico e istituzionale. Da allora non ci siamo mai fermati. Abbiamo collaborato con le autorità sanitarie per avere regole condivise. E se queste si sono evolute nel corso dell’estate è perché il quadro di una pandemia non è una fotografia, non è statico, e al mutare delle condizioni la politica può e deve prendere nuove decisioni. […] Abbiamo stanziato risorse per l’edilizia leggera […], risorse per i dispositivi di protezione, per predisporre quella logistica che consentirà di evitare assembramenti proteggendo la salute di tutti, per acquistare dispositivi digitali, connettività, libri e kit didattici per i meno abbienti”.  

Il Piano Scuola 2020/2021 (di cui qui si citano per sommi capi alcuni punti, senza pretesa di esaustività) pone come “punto di primaria importanza nelle azioni di prevenzione” il distanziamento fisico. Raccomanda di evitare assembramenti, con particolare attenzione agli orari di inizio e fine delle lezioni (si possono considerare ingressi e uscite a orari scaglionati). Prevede l’impiego di mascherine solo per i bambini di età superiore ai sei anni. Nell’ambito dell’autonomia regionale, il documento offre la possibilità di riconfigurare il gruppo classe in più gruppi di apprendimento, di valutare una frequenza scolastica in turni differenziati, di considerare una diversa modulazione settimanale del tempo scuola. Le scuole secondarie di secondo grado, possono inoltre pianificare attività didattica in presenza e, in via complementare, didattica digitale integrata (regolata da ulteriori linee guida). Sono previsti inoltre possibili accordi tra scuole ed enti locali, istituzioni pubbliche e private che operano sul territorio per mettere a disposizione, per esempio, altre strutture o spazi. Il Piano dà indicazioni anche sulla gestione dei laboratori e della refezione scolastica. Il Protocollo di sicurezza indica più nel dettaglio le misure di prevenzione da adottare (dalla misurazione della temperatura corporea, alle modalità di ingresso e uscita, all’igienizzazione di luoghi e attrezzature, alla gestione degli spazi comuni e di una persona sintomatica all’interno dell’istituto). Disposizioni a parte, invece, sono previste per i servizi educativi e le scuole dell’infanzia per i bambini da zero a sei anni.

Fatte queste premesse, ci siamo chiesti se e in che modo questa “nuova" scuola, rivisitata nella gestione degli spazi, delle relazioni e delle attività possa influire sull’apprendimento degli studenti e ne abbiamo parlato con Franco Lorenzoni, insegnante, fondatore ad Amelia della Casa-laboratorio di Cenci e autore di molti libri, tra cui (l’ultimo) I bambini pensano grande, edito da Sellerio.  

“Dal punto di vista sanitario non ho competenze per esprimermi, ma mi pare che ci siano linee guida abbastanza stringenti. Mi sembra anche, però, che vi sia una grande carenza nell’affrontare la questione dal punto di vista pedagogico e relazionale: la distanza necessaria per contenere la diffusione (del virus Sars-CoV-2, ndr) va intrecciata con l’attività didattica, con il senso che ha lo stare a scuola, lo stare insieme. Serve una grande dose di immaginazione e creatività da parte dei docenti. Ciò che mi preoccupa sono i tanti ragazzi con disturbi del comportamento, presenti praticamente in tutte le classi. È necessario costruire delle regole dal basso, con la partecipazione attiva degli studenti. Se non c’è un lavoro di costruzione di senso, se non si ragiona su come si sta insieme nell’emergenza, c’è il rischio che le regole vengano imposte dall’alto e creino discriminazioni. Che creino pericolosi apartheid educativi”.

Il nodo è la ‘prossimità’ che è più faticosa, ma più interessante, perché l’altro non lo ‘spegni’ mai Franco Lorenzoni

La pandemia, abbiamo visto, costringe a ripensare gli spazi dell’apprendimento, ma le misure adottate possono avere un’enorme influenza sul percorso formativo ed educativo degli studenti, secondo Lorenzoni. “Molti spazi oggi - spiega - sono utilizzati per le aule. Il rischio però è che si torni a una scuola in cui c’è solo l’aula, con i banchi in fila rivolti verso un’unica direzione, nonostante la ricerca negli ultimi decenni si sia rivolta verso gli spazi mobili, le isole, verso una modalità didattica diversa e più attiva, che coinvolga maggiormente bambini e ragazzi. Si rischia un passo indietro pauroso. Penso che sia necessario essere molto duttili, usare maggiormente le mascherine magari, però mettersi in cerchio e parlare. È importante che i bambini continuino a cooperare, a lavorare insieme. Il dialogo, la costruzione culturale nel gruppo classe è fondamentale”.

E continua: “Lo spazio educa: se siamo seduti sotto a un albero, per terra, o se discutiamo dietro a un banco o stando in cerchio, guardandoci nel volto, la relazione cambia, cambia l’ascolto, cambia la qualità dell’attenzione. E la qualità dell’attenzione è uno dei fondamenti della qualità dell’apprendimento. Per questo, fare attenzione allo spazio è fondamentale”. Vogliamo parlare del (contestato) banco a rotelle? In questo caso, secondo Lorenzoni, il problema non sta tanto nella facilità di movimento, ma nel piano d’appoggio, piccolo, ribaltabile, adattissimo a un tablet, ma non a disegnare, a fare un cartellone, a consultare dei libri, a mettere due banchi vicini per imparare insieme. “Non si può lavorare insieme solo attraverso il virtuale, c’è un altro modo di lavorare che richiede anche una prossimità fisica. Se questo viene meno, si perde uno degli aspetti fondamentali della relazione educativa, che è la creazione della comunità, una comunità che ricerca e crea cultura”.

Nei mesi scorsi, proprio l’impiego delle nuove tecnologie e il ricorso alla didattica a distanza hanno consentito di dare continuità alle attività formative. E tuttora, come abbiamo visto, gli istituti scolastici possono continuare a servirsi di queste modalità didattiche. Tuttavia, secondo Lorenzoni, sebbene tali strumenti e metodologie siano stati sicuramente utili, ci sono degli aspetti da considerare: “Innanzitutto abbiamo perso più di un milione di studenti: la didattica a distanza (Dad) è stata un momento in cui è cresciuta enormemente la discriminazione e non possiamo non tenerne conto". Gli studenti, almeno nella prima parte del lockdown, hanno potuto fare affidamento infatti solo su risorse personali, e sull’accessibilità alla scuola “in modalità digitale” hanno dunque inciso in maniera significativa fattori socio-economici. Basta fare un cenno, del resto, ai dati Istat (Spazi in casa e disponibilità di computer per bambini e ragazzi, 2020), secondo cui nel periodo 2018-2019 il 12,3% dei ragazzi tra i 6 e i 17 anni non aveva un computer o un tablet a casa, quota che raggiunge quasi un quinto nel Mezzogiorno (470 mila ragazzi). E solo il 6,1% viveva in famiglie in cui era disponibile almeno un computer per ogni componente.  


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"Certamente - continua Lorenzoni - la didattica a distanza è stata molto importante per continuare in qualche modo a mantenere i collegamenti, ma per gli alunni ‘l’assenza del corpo’, della condivisione è stata troppo penalizzante, anche rispetto all’apprendimento. Io penso che sicuramente le tecnologie possono essere utilizzate per l’apprendimento, anzi bisogna capire come farlo in modo creativo, come costruire collaborazioni anche a distanza. Il nodo però è la ‘prossimità’ che è più faticosa, ma più interessante, perché l’altro non lo ‘spegni’ mai, sta lì, c’è la presenza del suo corpo. I bambini hanno bisogno di corpo, di mani, di occhi, hanno bisogno di toccare oggetti”. Spiega Lorenzoni: “Quando si studia storia, geografia, lingue o matematica, il corpo non sta sempre nella stessa posizione: in geometria serve guardare, in geografia si deve esplorare, in storia è necessario consultare materiali. Anche fisicamente, dunque, le discipline sono diverse. Se c’è qualcosa che nella scuola non funziona è che tutto si assomiglia: ascolti, leggi, impari, ripeti. Ma non è questo l’apprendimento, l’apprendimento è una costruzione, è un dialogo. Il dialogo è fondamentale e penso che in presenza sia enormemente più efficace, più coinvolgente, anche perché c’è l’aspetto emotivo”.

Lorenzoni conclude con una riflessione: “Con la didattica a distanza è successo qualcosa di impressionante: siamo entrati nelle case degli studenti e loro in quelle degli insegnanti. C’erano bambini accerchiati dai genitori da un lato e dalle maestre dall’altro. Stiamoci attenti. Io ritengo che ci sia bisogno di un po’ di ‘opacità’, non sono per la trasparenza assoluta. Penso che la scuola sia una cosa, la casa un’altra”. Il bambino ha un modo diverso di vivere la scuola e la casa, e la crescita si giova anche di queste due polarità. C’è un approccio diverso alla relazione. Secondo Lorenzoni, bisognerebbe esonerare le famiglie da tutto ciò che riguarda l’apprendimento, ma ovviamente al tempo della didattica a distanza i genitori sono stati necessariamente molto coinvolti. “Questo però non fa bene al bambino, e non fa bene alle relazioni reciproche”.

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