SOCIETÀ

Amy Jenson, la scienziata che studia il ghiaccio dell'Alaska e difende la sua terra

“Sono cresciuta tagliando legna da ardere, andando a caccia di cervi, raccogliendo bacche e pescando salmoni. Cedri, abeti e tsuga torreggianti ricoprono l’isola, aggrappandosi alle coste rocciose dove la foresta incontra l’oceano. Circondate da orsi, balene e aquile reali, le persone si sentono piccole nell’immensità. Solo da grande ho capito quanto questo posto fosse unico”

Amy Jo Jenson, glaciologa e dottoranda in geofisica presso l’Università dell'Alaska Fairbanks, è cresciuta a Thorne Bay, una cittadina di circa 300 persone nel sud-est dell’Alaska, sull’isola di Prince of Wales. Un’isola dal clima temperato, costellata di laghi e montagne. La foresta pluviale che la ricopre è parte della Foresta Nazionale di Tongass, che con i suoi 68.000 km² è la più grande foresta primaria degli Stati Uniti e si estende per circa 800 km di costa tra Yakutat a nord fino a Ketchikan e le isole vicine a sud. Prince of Wales è una delle aree più colpite dal disboscamento industriale, che ha raggiunto i massimi livelli nella seconda metà del secolo scorso. Dopo un periodo di relativa tregua, grazie alle tutele ottenute dall’impegno costante delle associazioni e delle comunità indigene - come i Tlingit, gli Haida e gli Tsimshian -, nel giugno 2025 l’amministrazione Trump ha revocato la Roadless Rule, una legge voluta nel 2001 da Bill Clinton che vietava la costruzione di strade e il taglio commerciale del legname in circa 237.000 km² di foreste nazionali statunitensi. Questa decisione, parte di un sostanziale processo di smantellamento delle regolamentazioni ambientali in essere negli Usa, permette la creazione di strade e il disboscamento di circa il 30% delle terre del National Forest System

La foresta di Tongass verrà impattata per il 92%, fin nelle sue aree più remote, minacciando equilibri ecologici già fragili e mettendo ulteriormente a rischio la sovranità alimentare, i luoghi sacri e i diritti delle popolazioni indigene. “This land belongs to you and me, keep our public land free” [questa terra appartiene a me e te, le nostre terre pubbliche devono restare libere] protestano gli attivisti, sostenendo che le conseguenze a livello ecologico saranno gravissime, mentre il Segretario degli Interni, Doug Burgum, presenta l’iniziativa come una pietra miliare dell’’era dell’abbondanza’ promossa da Donald Trump: le terre pubbliche si potranno sfruttare prelevando risorse naturali utili alla costruzione, all’energia e dall’alta tecnologia. 

Le trivellazioni in Alaska

L’Alaska è particolarmente colpita anche dal via libera alle trivellazioni e alla costruzione di impianti, miniere e gasdotti. È il caso dei territori dell’Arctic National Wildlife Refuge (ANWR), dove l’attuale governo conferma l’impegno già manifestato nel 2017 per l’estrazione di petrolio e gas. Per il popolo Gwich’in, l’ANWR è “Iizhik Gwats’an Gwandaii Goodlit” – la “luce sacra dove la vita inizia”, ossia il luogo di riproduzione del caribù, fondamentale per la loro cultura e sopravvivenza. Un altro esempio è il Progetto Willow: un enorme piano di sviluppo petrolifero sulla North Slope, che oltre a diventare un nuovo sito di estrazione dei combustibili fossili, secondo gli scienziati danneggerà tundra, permafrost e la biodiversità del territorio, sacro ai Nuiqsut.[Ritorno a capo del testo]“Trivellare in terre sacre o ecologicamente fragili comporta impatti irreversibili. Nel breve periodo la costruzione di strade e impianti disturba la migrazione di pesci e animali, alterando l’equilibrio dell’ecosistema” spiega la dottoressa Jenson “le comunità indigene perdono il diritto alle loro terre ancestrali, tradizionalmente usate per la raccolta o per pratiche culturali. Le conseguenze a lungo termine possono essere più o meno catastrofiche, ma ora che la crisi climatica sta già mettendo sotto pressione gli ecosistemi, anche un piccolo squilibrio può influenzare il mondo intero”. 

Durante i suoi studi presso l’Università del Sud-Est dell’Alaska, a Juneau,  Amy Jenson ha condotto una ricerca sulle inondazioni glaciali (outburst floods) del ghiacciaio Mendenhall. “È stato un percorso scientifico, ma nato da un legame emotivo e di memoria con il ghiacciaio e con la comunità colpita dalle inondazioni” racconta - “potevo vedere il ghiacciaio Mendenhall dalla finestra del dormitorio e lì ho passato molto tempo: sopra, sotto e intorno”. Si è trattato di un percorso scientifico, ma nato da un legame emotivo e di memoria con il ghiacciaio e con la comunità colpita dalle inondazioni. Una tappa importante per la dottoressa Jenson, in un percorso che l’ha portata a un cambio di prospettiva nel suo rapporto con i ghiacciai: “Ora continuo a osservarli con curiosità scientifica, certo, ma penso anche al cambiamento immenso e rapido che rappresentano, causato dall’impronta pesante dell’essere umano sulla Terra. Fra un’analisi di dati e l’altra ascolto i racconti di persone che in Alaska e in Groenlandia sono cresciute: prima si spostavano da un villaggio all’altro con i cani da slitta, ora in molti luoghi non possono farlo. I pesci hanno cambiato comportamento, rendendo difficile la pesca stagionale. Gli iceberg sono molto più frammentati e questo complica la navigazione fuori dai fiordi. Lo scioglimento del permafrost e l’erosione costiera costringono intere comunità ad abbandonare le proprie case. I salmoni reali non risalgono più lo Yukon per nutrire i popoli che vi fanno affidamento da millenni”. 

“La Terra ha attraversato cicli di glaciazione e interglaciazione e probabilmente lo farà ancora. Ma mai il clima sta cambiando così rapidamente e si sta riscaldando a una velocità tale che le persone e gli ecosistemi faticano a tenere il passo – e sono sempre più colpiti. La vera preoccupazione non è solo la scomparsa del ghiaccio” dichiara Amy Jenson  “è ciò che essa segnala. La perdita di massa glaciale significa aumento delle temperature globali, innalzamento dei livelli del mare e spostamento di intere comunità. È questo che cerco di ricordare alle persone: i ghiacciai sono un simbolo. Ma non è il ghiaccio in sé che dovremmo piangere – è il danno a persone, luoghi e futuri”.  

“Qui dove sono cresciuta, come in molte altre cittadine, se da un lato c’è un rispetto per la natura che deriva dal rapporto stretto che abbiamo con la foresta e con l’oceano, dall’altro la cultura dell’estrazione è molto radicata. Tutti vivono gli effetti del cambiamento climatico, soprattutto nelle regioni settentrionali. Si parla spesso di come erano gli inverni una volta, di quanto fosse più freddo, di come siano cambiate le precipitazioni e dell’aumento di eventi estremi. La crisi climatica impatta sulle nostre case, sulle strade, sulla vita quotidiana. Il permafrost sotto molte abitazioni e villaggi si sta sciogliendo, rendendo instabili le infrastrutture. Però l’Alaska dall’epoca coloniale in poi è sempre dipesa dai combustibili fossili e dall’estrazione di risorse, quindi per molti è difficile immaginare un futuro diverso. A differenza dei popoli indigeni, molti di coloro che si sono trasferiti qui nel secolo scorso vedono questa terra come una miniera infinita di pesce, legno, cacciagione, minerali: qualcosa da sfruttare, non da custodire”. 

C’è bisogno di lavorare insieme: scienza e comunità, ricerca e politica

“Per questo c’è bisogno di lavorare insieme: scienza e comunità, ricerca e politica. È assurdo che la maggior parte degli articoli scientifici venga letta solo da altri scienziati. Come ricercatrice sono convinta che ci sia bisogno di molti più comunicatori scientifici che condividano le nostre scoperte con il resto del mondo. Dobbiamo comunicare e lavorare con le comunità locali: le persone hanno diritto di sapere e studiare cosa sta succedendo nei loro territori e collegarlo a ciò che accade nel resto del mondo, oltre a comprendere quali sono i passi necessari per mitigare gli effetti della crisi climatica. Sennò restiamo in balia dello scollamento che c’è tra la consapevolezza fattuale di ciò che sta accadendo e l’azione concreta - anche politica! - necessaria per affrontarlo”. 

In una scienza sempre più colpita da un taglio di finanziamenti che negli Stati Uniti non ha precedenti nella storia, il mondo della ricerca è però spaesato e spaventato. “Rischiamo la paralisi”, dice Amy Jenson. “Alcuni accademici stanno lasciando il Paese. Altri tengono la testa bassa e vanno avanti, ma negli ultimi sei mesi l’impatto dell’amministrazione sulla scienza ha raggiunto livelli che non possono più essere ignorati”. Nel frattempo, gli Usa stanno assistendo alla revoca di protezioni storiche per parchi e riserve, e all’apertura di vaste aree di pregio ecologico e culturale a trivellazioni petrolifere e attività minerarie. Parallelamente, aumentano gli ostacoli per attivisti, ricercatori e giornalisti ambientali. Alcuni reporter che documentavano le proteste dei nativi americani contro l’oleodotto Dakota Access Pipeline sono stati arrestati o messi sotto indagine. Le comunità indigene e afroamericane che si oppongono a impianti inquinanti o alla distruzione del loro territorio si scontrano spesso con una repressione feroce, a cui si aggiunge un indebolimento sistemico degli organi federali preposti al controllo ambientale, come l’Environmental Protection Agency (EPA), svuotata di fondi, competenze e potere sanzionatorio. 


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“Colonialismo, inquinamento, ingiustizia razziale, disuguaglianza di genere e crisi climatica sono tutti parte di un modello di sfruttamento delle persone e della Terra che va avanti da secoli” dichiara la dottoressa Jenson  “Non si possono opprimere le persone senza colpire la terra, e non si può sfruttare la terra senza colpire le persone. La mancanza di rispetto per l’ambiente e la priorità data al profitto rispetto alla Terra e alla vita umana stanno portando a conseguenze gravi per il pianeta e per l’umanità ”. 

Le prospettive per il futuro 

Secondo Amy Jenson sono tante e variegate, come ogni cambiamento sistemico necessita per essere giusto e duraturo: “Ayana Elizabeth Johnson, nel suo libro What if we get it right, elenca molti movimenti e iniziative che propongono soluzioni climatiche ed esempi già esistenti. Bisogna senz’altro agire a livello politico e legislativo, ma contano anche le azioni sui territori: la Fairbanks Climate Action Coalition e il Native Movement sono organizzazioni locali impegnate nella restituzione delle terre ai popoli indigeni, nel disinvestimento dai combustibili fossili, nelle energie rinnovabili e nella sovranità alimentare. Seguire le attività di questi movimenti mi aiuta a mantenere la speranza. Io ho contribuito a fondare un orto comunitario dove condividiamo la responsabilità della coltivazione del cibo. L’estate è breve e io viaggio per il lavoro sul campo, quindi ci affidiamo l’un l’altro per fare ciò che da soli non potremmo” conclude ala dottoressa Jenson “anche se sono piccole cose, compiere questi atti di resistenza quotidiana con persone affini mi aiuta a restare positiva: sono una scienziata, ma sono anche una cittadina e in entrambi i ruoli cerco di prendermi le responsabilità che mi competono”. 

Le parole di Amy Jenson restituiscono l’immagine di una scienza che riconosce il proprio ruolo nel tessuto sociale e politico in cui opera. È in questa intersezione tra responsabilità scientifica e responsabilità civica che si gioca, oggi, una parte cruciale della sfida climatica, così come è dalle scelte consapevoli di singoli e comunità che dipende il destino delle ultime terre selvagge d’Alaska. 

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