Quando si parla di mercato del lavoro, ma non solo, c’è un tema che sembra essere quasi anacronistico ma invece è purtroppo ancora ben presente nella nostra società. Parliamo del gender gap, cioè la disuguaglianza che intercorre tra la situazione, in questo caso lavorativa, maschile e quella femminile.
Partiamo affidandoci ai dati Eurostat, che ci dicono come nel 2021 la percentuale di donne nell’unione europea fosse del 51%, per un totale di 229 milioni di persone. Lo Stato membro con la percentuale maggiore è la Lettonia (54%) quello con la percentuale più negativa invece è Malta (48%).
Andando ad analizzare il gender pay gap, cioè la discrepanza tra gli stipendi maschili e femminili si riscontra una buona ed una cattiva notizia. La buona è che questa differenza negli anni sta calando, la cattiva è che lo sta facendo in modo troppo lento. Negli ultimi dieci anni infatti il gap si è ridotto di soli 2,8 punti percentuali, arrivando ad assestarsi mediamente al 13% nel 2020.
All’interno dell’Unione Europea stessa però sussistono differenze ben più marcate. I Paesi in cui in divario salariale è minore sono il Lussemburgo, la Romania, la Slovenia, l’Italia e la Polonia, tutte sotto al 5%. Quelli in cui la differenza è più marcata invece, superando anche il 18% sono la Germania, la Svizzera, l’Austria, l’Estonia e la Lettonia.
L’altra cattiva notizia è che tutti questi dati, cioè tutte queste discrepanze di retribuzione, non dovrebbero più esistere. Non dovrebbero esserci non solo perché dovremmo vivere in una società più equa e giusta, e ciò gioverebbe a tutti, ma proprio perché c’è un documento che parla di “parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore”. Stiamo parlando dei Trattati di Roma, datati 1957. Il trattato in questione è quello che di fatto segna la nascita della Cee, cioè la Comunità economica europea. Possiamo considerarlo quindi il primo mattone che è servito per costruire l’Unione Europea come la conosciamo adesso.
L’articolo che introduce la parità salariale nel Trattato di Roma è il 119 che dice: “Ciascuno Stato membro assicura durante la prima tappa, e in seguito mantiene, l’applicazione del principio della parità delle retribuzioni fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro. Per retribuzione deve essere inteso, ai sensi del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo, e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo.
La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso implica:
a) che la retribuzione accordata per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura,
b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per un posto di lavoro uguale”.
Insomma, sono passati più di 65 anni ma la parità salariale è ancora ben lontana. I dati Eurostat parlano chiaro, ma per essere precisi è bene vedere a cosa si riferiscono. Il divario retributivo di genere è quindi la differenza nella retribuzione oraria lorda media tra donne e uomini. Viene calcolato basandosi direttamente sugli stipendi lordi corrisposti ai dipendenti e nel calcolo dell’ufficio statistico sono state prese in considerazione solo le aziende con dieci o più dipendenti. Una puntualizzazione necessaria che però non cambia le carte in tavola. Un divario medio del 13%, se si continua con il passo degli ultimi dieci anni, sarà azzerato solamente fra più di 40 anni.
Ma perché le donne guadagnano meno? Se l’è chiesto anche la Commissione Europea che ha dato una risposta che chiaramente non può essere del tutto esaustiva ma che parte da un dato interessante. Circa il 24% del divario retributivo è legato alla sovrarappresentazione delle donne in ambiti lavorativi che hanno mediamente una retribuzione relativamente bassa. Il secondo fattore, secondo la Commissione Europea, è che le donne lavorano di più e soprattutto dedicano più ore al lavoro non retribuito, situazione che poi influenza anche le scelte professionali. Qui si apre un altro argomento, che è quello dei congedi parentali.
C’è una direttiva, del 19 ottobre 1992, che stabilisce a 14 settimane il periodo minimo per congedo di maternità, con 2 settimane di astensione obbligatoria prima e/o dopo il parto. Il diritto a due settimane di congedo di paternità invece è stato introdotto il 1° agosto 2019. Naturalmente gli Stati membri hanno diverse disposizioni. A ben vedere i dati rilasciati dall’OECD, le differenze anche all’interno della stessa Unione Europea sono piuttosto evidenti.
Si passa dalla Spagna, che dal 1 gennaio 2021 offre la possibilità ad entrambi i genitori di prendersi un congedo di 16 settimane. Di queste 16 settimane le prime sei dopo il parto sono obbligatorie mentre le altre sono facoltative. Come visualizzato dal grafico sottostante è bene focalizzare l’attenzione non solo sui giorni concessi, ma anche sull’obbligatorietà degli stessi.
Il congedo parentale è anche strettamente connesso con l’avanzamento della carriera. È qui che si vedono le discrepanze maggiori tra uomini e donne. La posizione nella gerarchia influenza il livello di retribuzione e, come riporta la Commissione Europea, “meno dell'8% degli amministratori delegati delle aziende più importanti sono donne. Inoltre, la professione con le maggiori differenze di retribuzione oraria nell'UE è quella dei dirigenti con retribuzioni inferiori del 23% per le donne rispetto agli uomini”.
Le differenze maggiori poi, si riscontrano soprattutto nel settore privato. Guardando i dati rilasciati dall’Eurostat vediamo come questo divario maggiore nel privato sia presente nella maggior parte dei paesi dell'Unione Europea. La spiegazione di ciò è abbastanza scontata e riguarda il fatto che nella maggior parte dei paesi, la retribuzione nel settore pubblico è determinata da contratti collettivi nazionali del lavoro ed è stabilita entro determinate griglie salariali.
C’è infine il tema dell’occupazione femminile. In molti Stati membri la discrepanza tra il tasso di occupazione tra uomini e donne è estremamente elevato. È questo il caso dell’Italia che ha un tasso di occupazione femminile del 53,2% e maschile del 72,4%. Quasi 20 punti percentuali che risultano essere il terzo dato più elevato di tutta l’Unione Europea dopo Romania e Grecia.
Quando si parla di gender gap i numeri però non riescono a raccontare tutta la storia in modo esaustivo. Le cause di questa disparità sono antiche e varie, ciò che abbiamo provato a mettere in fila in questo articolo sono alcuni dei fattori. Potremmo riassumerli con queste cause diverse: il lavoro part-time, cioè il fatto che in media le donne svolgono più ore di lavoro non retribuito, come la cura dei figli o le faccende domestiche; le scelte professionali influenzate dalle responsabilità familiari, in cui si calcola che nel 2018 un terzo delle donne occupate nell'UE ha avuto un'interruzione del lavoro per motivi di assistenza all'infanzia, rispetto all'1,3% degli uomini e la questione del lavoro a basso reddito e della grande disparità in termini numerici tra i sessi nelle posizioni manageriali.
Ridurre questo divario retributivo è necessario per poter vivere in una società più giusta ed uguale. Colmare il gap significherebbe anche ridurre la povertà, stimolare l’economia e dare a tutti parità di diritti ed opportunità. Una società più giusta, è quasi scontato dirlo, gioverebbe a tutti.
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