SCIENZA E RICERCA

L’Europa, una colonia tecnologica

Con alcuni articoli pubblicati nei giorni scorsi, Il Sole24Ore ha (ri)proposto un problema: il ritardo tecnologico dell’Europa. E ha posto una domanda: riuscirà la risposta alla crisi da COVID-19 a invertire un lungo percorso che non è sbagliato definire di declino nei settori delle tecnologie di punta? Domanda quest’ultima decisiva per il futuro dell’Unione Europea, visto che l’hi-tech è ovunque nel mondo il settore trainante?

Uno dei temi sollevati dal giornale di Confindustria è il fatto che nel gruppo delle grandi aziende hi-tech non ce ne sono di europee, mentre crescono a vista d’occhio le cinesi. È notizia di questi giorni la Huawei con 55.8 milioni di pezzi venduti nel 2020 è diventata la prima produttrice di smartphone al mondo, avendo superato sia la coreana Samsung sia l’americana Apple. E questo nonostante la guerra che il presidente americano Donald Trump ha dichiarato alla giovane industria fondata nel 1987 a Shenzhen, la metropoli del Guandong nella Cina meridionale. 

Non è un’eccezione, Mentre a sei mesi dall’inizio ufficiale della pandemia da coronavirus le economie in Europa e negli Stati Uniti sono in caduta libera, quella cinese è in aumento, sia pure fortemente rallentato. 

Non è neppure una novità. Già all’inizio degli anni novanta del secolo scorso Konrad Seitz, storico, filosofo, economista e diplomatico, scriveva un libro che è stato tradotto in italiano nel 1995 da Edizioni di Comunità con una domanda tanto chiara quanto retorica: Europa: una colonia tecnologica? La domanda, è ovvio ammetteva un’unica risposta: sì, l’Europa è diventata una colonia tecnologica.

Va detto che, negli anni successivi la Germania e una vasta area che la circonda e che va dalle Alpi (Svizzera, Austria) alla Scandinavia (Svezia, Finlandia, Danimarca, Norvegia) ha cercato di resistere, con successo, al declino registrato più che annunciato da Seitz. Ma, se guardiamo all’Unione Europea nel suo complesso, possiamo certamente affermarlo: l’Europa è una colonia tecnologica. Con molte eccezioni, naturalmente, che tuttavia non cambiano il quadro complessivo. 

La domanda, allora, è perché?

A questo ulteriore quesito ha cercato di rispondere, sempre su Il Sole24Ore, Jean-Marc Ollagnier, CEO (come si dice oggi per indicare l’amministratore delegato) di Accenture in Europe. La sua tesi è che i manager europei sono restii a investire in innovazione. 

Il francese ha certamente ragione. Ma non la dice tutta. Perché anche i governi europei – salvo le solite eccezioni – hanno la medesima timidezza. A documentare questa affermazione è, per esempio, l’americana National Science Foundation (NSF) con il suo recente report Science & Engineering Indicators 2020. Tra gli altri dati di estremo interesse pubblicati dall’Agenzia federale americana ve ne sono alcuni storici particolarmente significativi, perché mostrano come, negli ultimi decenni, tutto è cambiato nel mondo in fatto di investimenti di ricerca e sviluppo (R&S). La ricerca scientifica è – lo diceva Vannevar Bush esattamente 75 anni fa, quando inaugurò l’”economia della conoscenza” – il motore primo dell’innovazione tecnologica e, quindi, della moderna economia.

Ebbene, sostiene la NSF, nell’anno 2000 i leader mondiali della R&S erano gli Stati Uniti, che da soli investivano il 37,2% del totale mondiale in ricerca. Asia (25,3%) ed Europa (25,0%) erano sostanzialmente appaiate. Lo scenario è completamente cambiato nel 2017 (ultimo anno di rilevamento dati della NSF). L’Asia era ormai saldamente prima col 41,7% degli investimenti totale in R&S; gli Stati Uniti erano scesi al 25,5% e l’Europa al 20,0%. E questo non perché nel Nuovo e nel Vecchio Continente si fosse smesso di investire, ma perché un’intera costellazione di paesi in asia ha aumentato ogni anno gli investimenti a ritmi incredibili. La Cina, per esempio, ha visto crescere la spesa in R&S tra il 2000 e il 2017 a un ritmo con rarissimi precedenti del 17,3% annuo. Anche gli Stati Uniti (4,3% annuo) e l’Unione Europea hanno accresciuto gli investimenti (5,1% annuo), ma con un’intensità decisamente minore.

Ecco dunque i motivi che spiegano perché l’Europa è, come trent’anni fa, una colonia tecnologica: pochi investimenti relativi in R&S e timidezza dal management industriale. E tutto questo malgrado che, leggendo la situazione europea allo stesso modo di Konrad Seitz, i leader europei nel 2000 a Lisbona si impegnarono, nero su bianco, a diventare leader al mondo entro il 2010 nell’economia della conoscenza e due anni dopo, a Lisbona, indicarono anche come: portando la spesa in R&S da poco meno del 2% ad almeno il 3% del Prodotto interno lorco. Il 2010 è arrivato, il risultato non è stato conseguito, la spesa è rimasta inferiore al 2%, e allora i leader degli stessi paesi europei hanno spostato di dieci anni il traguardo. Entro il 2020 …

Il 2020 è arrivato, il mondo – soprattutto quello asiatico – ha accelerato la sua corsa e l’Europa è sempre al palo. Per fare un esempio: nel 2017 secondo la NSF la spesa dell’UE in R&S è stata dell’1,97% rispetto al Prodotto interno lordo. Mentre la Cina, che nel 2000 investiva meno dell’1% è salita al 2,15%, e questo nell’ambito di un’economia che è cresciuta al ritmo del 10% annuo o giù di lì. In altre parole, oggi la Cina da sola in termini assoluti investe molto più dell’Unione europea e poco meno degli USA in R&S.

La domanda a questo punto ritorna quella posta all’inizio: riuscirà l’Europa, con la risposta alla crisi da COVID-19, a invertire il suo lungo percorso di declino nei settori delle tecnologie di punta?

La partenza non è stata promettente. Per recuperare quattrini a favore del Recovery Fund l’Unione ha deciso di tagliare quelli a favore di Horizon Europe, il programma con cui a partire dal 2021 verranno finanziate la ricerca e l’innovazione nei 27 paesi che riescono talvolta a fare lucide analisi ma riescono quasi mai a comportarsi di conseguenza. 

Se continuiamo così l’Europa continuerà a essere una colonia tecnologica e, di conseguenza, ad avere un’economia soffocata. Con un effetto che spesso viene sottovalutato: il Green Deal, il progetto per un’economia sostenibile, difficilmente può essere raggiunto senza scienza e innovazione tecnologica.   

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