Il famoso detto tra il dire e il fare suggerisce un grande distacco tra parole e fatti, come se le parole fossero altro rispetto alla realtà. L’attenzione alle parole frequentemente innesca resistenze, e viene tacciata di pedanteria, artificiosità e persino inutilità. Eppure, nella nostra vita tante cose che contano sono suggellate solo da parole: un matrimonio, un contratto di lavoro, un valore sancito nella nostra Costituzione. Quelle parole contano eccome. Ogni parola è un fatto, che sancisce qualche cosa, mentre ne tace altre: costruisce, riconosce o nega l’identità. La parola è azione e, se sessista, sarà azione sessista.
Un genitore conosce bene l’emozione di sentirsi chiamare papà o mamma per la prima volta: sentirsi nominati, riconosciuti, ha un grande significato. Questo avviene perché attraverso le parole vengono esplicitati i ruoli sociali e, tanto più questi sono rilevanti per noi, quanto più le parole per definirli contano: sanciscono un senso di appartenenza, un significato e uno scopo; esplicitano a noi e agli altri chi siamo. Quando questo ci viene sottratto (per esempio negandoci il riconoscimento legale della genitorialità), ci sentiamo feriti, esclusi, lesi. Il genere è una categoria sociale rilevante, che impariamo da infanti e ci permette di organizzare e comprendere le cose intorno a noi. Nella lingua italiana, la cui grammatica marca il genere in molte parole (nomi, aggettivi, verbi…), questa rilevanza può trasformarsi in esclusione quando viene usato il maschile generico (per esempio il “Carissimi” in una lettera indirizzata sia a donne che uomini), che di “generico” di fatto ha solo l’etichetta grammaticale: la ricerca dimostra infatti che utilizzare il genere grammaticale maschile evoca esempi maschili. La ricercatrice Dagmar Stahlberg ci mostra che chiedendo alle persone di nominare, per esempio, “i potenziali candidati” per un ruolo politico, otterremo una prevalenza di candidati uomini, prevalenza che si riduce con la forma duale “potenziali candidate o candidati”.
Un altro elemento importante è l’ordine delle parole, perché anche questo piccolo dettaglio contribuisce alle asimmetrie di genere in visibilità e importanza. Tipicamente, quando si nomina una coppia (Adamo ed Eva), tendiamo a nominare per prima la persona che riteniamo più importante (per esempio, quando nominiamo una coppia di amici, la prima persona nominata è quella a noi più vicina). Questo effetto di ordine tende a risultare in una asimmetria di genere, per cui gli uomini (rispetto alle donne) vengono più probabilmente nominati per primi e rappresentati sulla sinistra sia nei grafici scientifici che nelle immagini (per esempio nell’arte o in disegni spontanei). Posizionare gli uomini per primi o a sinistra avvalora lo stereotipo secondo cui gli uomini sarebbero prioritari, dominanti e attivi (ovvero, hanno più agency) rispetto alle donne, anche a causa della direzione di scrittura: dato che scriviamo da sinistra verso destra, posizioniamo il soggetto (chi compie l’azione) all'inizio - e quindi a sinistra - della frase.
La centralità e dominanza degli uomini vengono ribadite in molte altre asimmetrie linguistiche, per esempio usando più verbi (espressione grammaticale che veicola agency) quando parliamo di uomini, oppure usando l’uomo come punto di riferimento nei confronti (esempio:, “Rispetto agli uomini, le donne sono più…”). Queste scelte confermano e rinforzano gli stereotipi di genere, e sono così pervasive nel linguaggio che le intelligenze artificiali le replicano in modo evidente; per esempio, associano le donne in politica a parole legate alla bellezza o allo stato maritale, mentre gli uomini a caratteristiche rilevanti per la carica (per esempio “audace” o “rinomato”).
Il linguaggio ha un ruolo centrale anche nel legittimare la violenza di genere. La forma passiva, per esempio, viene usata molto più frequentemente nel descrivere violenze contro le donne (“Donna uccisa…”). Usare la vittima come soggetto della frase, come abbiamo visto, implica un’attribuzione di agency e quindi responsabilità. In altre parole, quando una violenza viene descritta al passivo, la vittima viene ritenuta più responsabile dell’evento (victim blaming), che sappiamo essere associato a minore intenzione di aiuto negli astanti. Questo effetto è maggiore in quelle persone che legittimano la violenza di genere, per le quali è sufficiente raffigurare la vittima a sinistra per aumentarne il victim blaming.
Se questo è il potere che hanno gli elementi sottili del linguaggio, come il genere grammaticale o l’ordine delle parole, è facile immaginare l’impatto che possono avere forme più esplicite e gravi di violenza linguistica. Gli insulti, per esempio, non sono tutti uguali: quelli denigratori (razzisti, omofobi, sessisti…) attaccano le persone sulla base della loro identità sociale e, per questo, fanno molto più male. L’essere esposti/e a insulti denigratori aumenta pregiudizio e discriminazione: uno studio statunitense, per esempio, ha mostrato che negli stati in cui c’è un maggiore uso di insulti sessisti sui social network, c’è una più alta frequenza di violenze sessuali. Inoltre, se da un lato gli insulti denigratori promuovono la violenza verso le minoranze, dall’altro sono essi stessi violenza, in quanto provocano sofferenza nelle vittime e si associano a disturbi quali ansia, depressione, e stress post-traumatico.
Prevenire la violenza, quindi, passa anche attraverso il linguaggio. L’adozione di politiche inclusive da parte delle istituzioni ha un ruolo fondamentale: l’Università di Padova, per esempio, si è dotato di linee guida già nel 2017, aprendo la strada al Comune di Padova. Nonostante le diffuse resistenze, la letteratura ci mostra come il linguaggio inclusivo, seppur faticoso o brutto all’inizio, venga nel giro di poco tempo normalizzato e apprezzato, come nel caso del pronome neutro svedese hen. Purtroppo però dobbiamo frenare gli entusiasmi, perché una soluzione unica non esiste. È sempre necessario adattare il linguaggio ai nostri scopi comunicativi. Per esempio, qual è l’alternativa giusta al maschile generico? Sperimentazioni linguistiche propongono forme neutre moderne (“l* student*”, “lə studentə”) che in altre culture si sono dimostrate efficaci, ma con alcuni tipi di pubblico (es. di età avanzata) sono preferibili le forme impersonali (“chi studia”) per facilitare la comprensione e evitare resistenze. La forma impersonale sarà invece poco adatta per promuovere la partecipazione delle donne nelle STEM, in quanto è percepita come maschile: in tal caso meglio usare il femminile.
La cosa più importante è essere consapevoli che il modo in cui parliamo riflette e plasma chi siamo. Decidere di adottare un linguaggio più inclusivo è una possibilità concreta per affermare i nostri valori e ridurre le discriminazioni di genere nel lungo periodo, promuovendo una società più equa.