SOCIETÀ

La fragile forza del sultano

Anche in questi tempi dominati dalla pandemia la Turchia continua a giocare la sua partita sulla scena internazionale: lo abbiamo visto con la liberazione di Silvia Romano, per la quale l’apporto dei servizi segreti turchi, molto influenti nel Corno d’Africa, si è rivelato essenziale. Un ‘favore’ che Recep Tayyip Erdoğan prima o poi cercherà di far valere, magari in Libia o a Cipro.

A livello interno però la situazione non è così rosea: a cominciare dalle polemiche sulla gestione dell’emergenza Coronavirus, che recentemente hanno portato il ministro dell'interno Süleyman Soylu, considerato la persona più potente del Paese al di fuori della cerchia familiare del presidente, a offrire le proprie dimissioni, che però sono state rifiutate.

“Finora la pandemia è stata gestita soprattutto dai ministri della salute e dell’interno, favorevoli al lockdown; Erdoğan, legato alla grande industria, all’inizio è apparso più prudente e defilato”. A parlare è Carlo Pallard, giovane storico e analista presso l’università di Torino, dove sta svolgendo un dottorato, nonché autore di Turchia. Dai generali a Erdoğan 1960-2020 (Eiffel edizioni 2020): un compendio non specialistico ma niente affatto banale su un Paese che da sempre è fondamentale per gli equilibri internazionali.

Non si tratta comunque di un buon momento per il sistema di potere erdoganiano: sul fronte economico a dare pensiero ci sono il crollo della lira turca e la conseguente fuga di capitali, frutto delle politiche del governatore della banca centrale Murat Uysal, fortemente voluto da Erdoğan; recentemente l’opinione pubblica è stata inoltre colpita dalla morte di tre componenti del gruppo musicale Yorum, a seguito di uno sciopero della fame contro la censura da parte del governo.

Erdoğan ha realizzato il suo progetto superpresidenzialista ma le basi del suo consenso appaiono indebolite ed erose

Una situazione che a livello interno mina il consenso dell’Akp (Adalet ve kalkınma partisi, partito della giustizia e dello sviluppo), oggi più che mai partito-Stato anche se non (ancora) partito unico. “Con le ultime riforme, frutto peraltro di un referendum contestato, si è realizzato il progetto superpresidenzialista di Erdoğan – continua Pallard –. Le basi di consenso appaiono però indebolite ed erose; lo abbiamo visto nelle ultime elezioni amministrative, dove il partito del presidente ha perso Ankara e Istanbul: per di più maniera tragicomica, facendo ripetere le elezioni a Istanbul per poi perderle nuovamente. Nelle poche occasioni in cui può esprimersi insomma il malcontento emerge, e sono convinto che al momento vediamo solo la punta dell’iceberg”.

Fino a che punto questo possa diventare un problema politico per il regime è però tutto da valutare: “Anche se il dissenso appare in ascesa, soprattutto nei grandi centri e presso le realtà produttive, è comunque difficile fare una valutazione in un sistema sottoposto a un controllo così rigido – continua lo studioso –. Quello che è certo è che una volta l’Akp si avvicinava al 50% del consenso, mentre oggi per mantenere il potere deve allearsi con altri partiti”.

Intanto l’Akp si avvia a compiere vent’anni: venne infatti fondato nell’agosto del 2001, per divenire il partito di maggioranza relativa già con le elezioni dell’anno successivo (Erdoğan sarebbe diventato premier nel 2003). Dopo aver guidato il Paese in una fase di notevole sviluppo economico, accreditandosi come forza moderata e riformatrice, nel 2011 arriva la svolta conservatrice e autoritaria, prima con l’appoggio ai ribelli islamisti in Siria e ai Fratelli musulmani in Egitto, poi con la brutale repressione nel 2013 del movimento di protesta nel parco Gezi.

Nel bene e nel male in questi anni l’Akp ha comunque rappresentano un elemento di continuità in un Paese prima abituato ai ricorrenti colpi di Stato militari – quattro dopo il 1960. Ed è stato sempre un tentativo di golpe, nella notte tra il 15 e il 16 luglio 2016, ad aver dato il via alla fase più dura e repressiva, che però non è riuscita a spegnere la grande vitalità della società turca, da secoli sospesa tra oriente e occidente, passato e futuro. Secondo Pallard “il processo di occidentalizzazione forzata messa in atto nel secolo scorso non è riuscito a trasformare l’essenza del Paese, ma allo stesso tempo è così profondo da rendere impossibile tornare indietro. Gli stessi partiti conservatori nascono in un contesto occidentalizzato e i loro padri ideologici (come ad esempio Alparslan Türkeş, ideologo dei famigerati ‘Lupi grigi’, ndr) hanno un background occidentale e nazionalista, molto diverso da quello dei leader islamisti negli altri Paesi mediorientali”. Un’‘occidentalizzazione problematica’ che ha creato una società profondamente divisa, le cui diverse parti non hanno ancora trovato un punto di equilibrio condiviso tra modernizzazione e tradizione, laicità e contesto culturale islamico: “Ci sono in definitiva più Turchie, spesso divise dalla politica, dalla geografia e dalle classi sociali. Anche questo rende quella turca una società estremamente complessa e vivace”.

Erdoğan è un grandissimo tattico ma non uno stratega. Con la sua politica opportunistica ha reso la Turchia una scheggia impazzita

Un dinamismo che negli ultimi anni ha trovato riscontro anche a livello di politica internazionale, perennemente oscillante tra pragmatismo e aspirazioni neo-ottomane. “A partire dal 2003 – spiega Pallard – la politica estera ha fatto capo ad Ahmet Davutoğlu, che con la sua ‘dottrina della profondità strategica’ ha cercato portare la Turchia a conquistarsi uno spazio autonomo tra le grandi potenze, secondo una visione neo-ottomana che vedeva la sua influenza estendersi dal Medioriente ai Balcani”. Un obiettivo che si è concretizzato nel sostegno alle cosiddette primavere arabe, ma che è fallito con la caduta di Morsi in Egitto e soprattutto con la guerra in Siria.

Il conflitto siriano ha ancora oggi un effetto destabilizzante per il Paese. Il problema non è solo il rinnovato protagonismo politico e militare dei curdi ma anche il massiccio afflusso di profughi: “Se in un primo tempo questi erano stati accolti a braccia aperte – lo stesso Erdoğan voleva concedere loro addirittura la cittadinanza – con il tempo sono divenuti una bomba sociale, con un forte aumento della xenofobia nel Paese. Il presidente ha cercato di sfruttare la situazione usandoli come arma di ricatto nei confronti dell’Europa, ma finora i benefici non sono stati all’altezza delle aspettative”.

Nel 2016, poco prima del fallito golpe, Davutoğlu è stato esautorato e il sultano ha avocato a sé anche la gestione della politica estera: “Con continui cambiamenti e improvvisi colpi di teatro è riuscito a cogliere qualche risultato – conclude Carlo Pallard –: ad esempio in Libia e in Siria, dove ribaltando le alleanze sta cercando di contenere i curdi”. Attenzione però: “Erdoğan è un grandissimo tattico ma non uno stratega. Fa una politica opportunistica: entra nelle situazioni di crisi, valuta velocemente i rapporti di forza e cerca di ottenere il massimo dei benefici. Questo però lo porta immancabilmente a conflitti con gli alleati, isolando il Paese e facendone una sorta di scheggia impazzita. Quando si gioca con il fuoco però ci si può sempre bruciare: questo oggi è uno dei grandi problemi della Turchia”.

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