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Uno sguardo alla transizione energetica in Cina e in India

A fine 2022 nel mondo era installata una capacità di generazione di energia elettrica da fonti rinnovabili pari a 3.372 GW. Secondo IRENA, l’Agenzia internazionale per l’energia rinnovabile, il 48% di questa potenza era operativa in Asia (1.630 GW), la gran parte della quale, tra solare, eolico, idroelettrico e altre fonti minori per un totale di 1.160 GW, nella sola Cina. Qui l’idroelettrico da solo aveva una capacità installata di 367 GW, l’eolico di 365 GW, il solare di 392 GW.

La transizione energetica sarà però incentrata su due fonti rinnovabili in particolare, il solare e l’eolico, che nello scenario Net Zero by 2050 della IEA, l’Agenzia internazionale dell’energia, da soli copriranno a metà secolo il 70% della produzione elettrica di un mondo che avrà puntato massicciamente sull’elettrificazione dei consumi, abbandonando quasi del tutto i combustibili fossili. Questo accadrà perché solare ed eolico, come ribadito anche dall’IPCC, il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, sono le due tecnologie in grado di abbattere più emissioni a costi minori.

La Cina pertanto si è data l’obiettivo di raddoppiare la propria capacità installata di solare ed eolico e arrivare entro il 2030 a 1.200 GW. Ora un rapporto di Global Energy Monitor, rivela che quell’obiettivo sarà raggiunto con 5 anni di anticipo, nel 2025. La maggior parte delle nuove installazioni di solare utility-scale (cioè di scala industriale) per circa 379 GW e di eolico (onshore e offshore) per 371 GW sono infatti previste dal 14esimo piano quinquennale approvato dal governo cinese e valido dal 2021 al 2025.

Se confrontata a Europa e Stati Uniti, la Cina surclassa i suoi competitor: i 228 GW di solare utility-scale già oggi operativi in Cina sono più di tutti quelli installati nel resto del mondo (per la stessa categoria), mentre l’eolico offshore cinese, che rappresenta da solo un decimo di tutto l’eolico disponibile nel Paese, è con i suoi 31 GW più di tutto l’eolico offshore presente nei Paesi europei.

Anche sul fronte degli investimenti la Cina la fa da padrone. Nel 2022, secondo BloombergNEF, nel mondo sono stati investiti 495 miliardi di dollari in rinnovabili e la Cina da sola si prendeva il 55% della torta: per il solare aveva allocato 164 miliardi di dollari e per l’eolico 109 miliardi, più di quanto hanno investito insieme Europa e Stati Uniti.

Un altro obiettivo fissato da Xi Jinping a dicembre 2020 era quello di arrivare al 25% di energia primaria non fossile entro il 2030. Nella stessa data la Cina prevede anche di raggiungere il picco delle emissioni di CO2 (l’Europa vorrebbe arrivarci entro il 2025) per poi ridurle progressivamente fino al traguardo della neutralità climatica del 2060 (l’Europa ha fissato il suo al 2050).

Come si sa, Pechino domina anche il mercato delle auto elettriche, della lavorazione dei minerali critici e della produzione di componenti tecnologiche fondamentali come i pannelli fotovoltaici. Ciononostante, arrivare a un quarto dell’energia complessiva (non solo elettrica) prodotta da fonti a basse emissioni non è un compito banale, visto che solo nel 2020, secondo i dati dell’IEA, solare, eolico, idroelettrico, nucleare e bioenergie superavano di poco il 10% del paniere cinese. Quasi il 60% dell’energia che alimentava la Cina proveniva infatti dal carbone, circa il 20% dal petrolio e quasi il 10% dal gas naturale.

Pechino guida certamente la corsa a una transizione energetica basata sulle rinnovabili, ma resta al momento anche la più alta interprete di un modello di sviluppo economico basato sui combustibili fossili, dato che consuma da sola metà del carbone (il più inquinante tra gli idrocarburi) bruciato ogni anno nel mondo ed è in cima alla classifica delle emissioni climalteranti globali, con circa 11,5 miliardi di tonnellate (Gt) di CO2 equivalente prodotti nel 2021, più di un quarto delle emissioni annuali prodotte dal consumo di combustibili fossili e dal settore industriale nel mondo (il totale è poco meno di 40 Gt).

A inizio 2023, da gennaio a marzo, il governo di Xi Jinping ha dato il via libera a nuove centrali elettriche a carbone per un totale di circa 20 GW, due volte e mezzo più di quanto fatto nello stesso periodo l’anno precedente (8,6 GW) e più di quanto approvato nel corso di tutto il 2021 (18 GW). Questo significa che per soddisfare la crescente domanda di energia del Paese, l’aggiunta, per quanto impressionante, di risorse rinnovabili non basta.

Nella Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (UNFCC) firmata nel 1992 la Cina figurava tra Paesi in via di sviluppo: in quanto tale rivendica il diritto di accesso a quelle risorse emissive e inquinanti che hanno permesso per decenni e secoli la prosperità economica ai Paesi occidentali. Trent’anni dopo però la Cina è diventata la seconda economia mondiale e la sua ambigua permanenza in quella lista è stata fonte di scontro con i Paesi industrializzati alle ultime Conferenze sul clima.

Un discorso analogo vale per l’India, che al momento della stesura del testo finale della Cop26 di Glasgow si impose (ma anche gli Stati Uniti erano d’accordo) per rifiutare la dicitura di eliminazione (phase out) del carbone, spingendo per un più morbido termine come riduzione graduale (phase down). Se si guardano alle emissioni storicamente prodotte dai singoli Paesi dalla rivoluzione industriale in avanti infatti l’India risulta responsabile solo del 3% di quelle accumulate in atmosfera, gli Stati Uniti del 25%, l’Europa del 22%, la Cina di quasi il 13% ma la maggior parte di queste si sono condensate negli ultimi 30 anni.


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L’India ha ormai superato la Cina per numero di abitanti ed è terza nella classifica dei Paesi che emettono di più in un anno, dietro Cina e Stati Uniti, appaiata all’Unione Europea. Se si guarda alle emissioni procapite tuttavia un indiano emette 2 tonnellate di CO2 equivalente ogni anno, mentre la media mondiale è intorno alle 7 tonnellate, che è anche quanto emette in media un europeo. Un cinese invece ne emette 10, uno statunitense quasi 15.

Anche l’India sta investendo massicciamente sulle rinnovabili. Sebbene i suoi numeri non siano paragonabili a quelli cinesi, lo sforzo è tale che si parla di leapfrog, un salto in avanti nella decarbonizzazione del suo sistema energetico ed emissivo. Tuttavia, nel 2020 anche l’India era dipendente per oltre il 40% della sua produzione energetica dal carbone (da cui deriva il 70% dell’energia elettrica), per 20% dal petrolio e per circa 10% dal gas naturale.

Il primo ministro Narendra Modi ha fissato l’obiettivo di produrre metà dell’energia elettrica indiana da fonti rinnovabili entro il 2030 (che significa arrivare a 500 GW di capacità rinnovabile installata), di tagliare del 45% le emissioni per fine decennio (rispetto ai valori del 2005) e di raggiungere le zero emissioni nette entro il 2070, 10 anni dopo la Cina e 20 anni dopo l’Unione Europea.

La diffusione di energia solare in India gode di costi di produzione bassi ed è spinta da un settore di aziende private che la IEA definisce vibrante, tanto che la crescita del fotovoltaico sta già avvenendo a ritmi che non hanno eguali in altri Paesi (esclusa la Cina): nel 2022 sono stati aggiunti quasi 14 GW mentre il miglior Paese in Europa (la Germania) si era fermato a 8 GW. Si prevede che la capacità di aggiunta annuale raddoppierà entro il 2026.

I sussidi per petrolio e diesel sono stati tolti nei primi anni ‘10 del 2000, mentre quelli per i veicoli elettrici introdotti nel 2019. Il governo ha anche messo in piedi un programma per l’efficienza energetica (l’altro pilastro della transizione assieme all’elettrificazione) che la IEA definisce robusto per il settore degli edifici, dei trasporti e delle industrie. Il Paese sta anche gettando le basi per aumentare la produzione di batterie, acciaio, cemento e fertilizzanti prodotti a basse emissioni.

L’India dispone inoltre di grande capacità di produzione di bioenergia. Secondo la IEA, nei prossimi anni supererà Cina e Canada piazzandosi al terzo posto tra i produttori di (bio)etanolo, dietro Stati Uniti e Brasile. La crescita dei parchi solari (il più grande al mondo, il Bhadla Solar Park con 2,25 GW, è indiano) permetterà anche di puntare sulla produzione di idrogeno verde (si parla di 5 milioni di tonnellate entro il 2030), che potrebbe contribuire a trainare l’economia indiana nei prossimi anni e ridurre le emissioni dei settori industriali hard-to-abate.

Sia Cina sia India poi si sono impegnate nella costruzione di nuove centrali nucleari. Delle circa 50 in programma o in costruzione nel mondo, 19 sono in Cina e 8 sono in India. La nuova energia nucleare tuttavia non è paragonabile alla crescita che avranno le rinnovabili in questi Paesi.

Proprio per la loro forte dipendenza dal carbone, le popolazioni sia cinese sia indiana devono fare i conti con una qualità dell’aria tra le più scarse al mondo, con tutti i problemi sanitari che ne conseguono. Entrambi i Paesi inoltre negli ultimi anni sono stati attraversati da ondate di calore che hanno fatto registrare temperature record e gravi siccità. Sulle coste del sud-est asiatico il Bangladesh è tra i Paesi che maggiormente soffrirà l’innalzamento del livello dei mari, una delle conseguenze attese del cambiamento climatico causato principalmente dal consumo di combustibili fossili, costringendo milioni di persone ad abbandonare le proprie abitazioni.

Proprio per ridurre le emissioni climalteranti e gli inquinanti che derivano dalla combustione del carbone, i due più popolosi Paesi asiatici, oltre a lavorare al miglioramento di una rete elettrica spesso inefficiente, stanno tentando di sostituire la più sporca delle fonti fossili con maggiori quote di gas naturale. Fino ad oggi gran parte del gas consumato in Asia arrivava in forma liquefatta via nave: l’uscita dalla fase acuta della pandemia nel 2021 e la repentina crescita di domanda di gas che è venuta soprattutto da Oriente è stata tra i principali fattori che hanno fatto crescere i prezzi dell’energia già prima dell’invasione russa dell’Ucraina.

Il GNL (Gas naturale liquefatto) è considerato però un asset poco affidabile, per prezzi volatili (specialmente negli ultimi due anni) e limitata disponibilità aggiuntiva, scrive Global Energy Monitor in un altro rapporto. Nel 2022 ad esempio solo poco più del 2% dell’energia elettrica indiana è stata prodotta a partire dal gas, la percentuale più bassa da 20 anni a questa parte, secondo un rapporto di Ember.

Anche per questo la Cina si tiene stretta l’alleanza con la Russia da cui vorrebbe far arrivare più gas via tubature: Gazprom ha in programma di far arrivare al Dragone 50 miliardi di metri cubi di gas all’anno entro il 2030 tramite una nuova infrastruttura di 2.600 km che passerà dalla Mongolia: si chiamerà Power of Siberia 2 e sarà la sorella di Power of Siberia 1, che nel 2019 ha iniziato a far arrivare in Cina 5 miliardi di mc di gas, nel 2022 ne ha fatti arrivare 15 e si stima, aggiungendo nuovi pezzi, possa raggiungere i 38 miliardi di mc annui.

Una buona parte del gas russo da cui l’Europa ha scelto di emanciparsi dopo l’aggressione all’Ucraina fluirà quindi verso Est, per sostenere la decarbonizzazione di un’Asia ancora troppo dipendente dal carbone.

Questa scelta strategica tuttavia incontra anche in Oriente forme di contestazione organizzata da parte della cittadinanza: “l’espansione del gas in Asia dovrebbe essere mirata ad affrontare la povertà energetica e la crisi energetica nella regione. Ma il gas non è una soluzione. Né dovrebbe essere parte della risposta alla crisi climatica, non è un carburante di transizione” si legge sul sito della campagna Don’t Gas Asia, lanciata a inizio maggio 2023 in occasione del meeting annuale della Asian Development Bank. “La soluzione risiede nella rapida, giusta ed equa transizione a 100% energia rinnovabile”.

Attiva in numerosi Paesi e città asiatiche (ma non in Cina), la campagna contro il gas in Asia vuole essere “un veicolo comune per le organizzazioni e i movimenti che vogliono lavorare insieme per far crescere e intensificare la battaglia contro il gas fossile in Asia” si legge nel sito. A riprova che il fenomeno dei nuovi movimenti ambientalisti ha sempre più una portata globale.

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