Già all’uscita dalla fase più acuta della pandemia, nel 2021, i prezzi dell’energia avevano iniziato a salire per poi esplodere definitivamente nel 2022 dopo l’invasione russa dell’Ucraina. L’Unione Europea ha imposto sanzioni finanziarie e l’embargo al carbone prima e al petrolio russi poi. In risposta, la Russia ha progressivamente tagliato le esportazioni di gas al vecchio continente, mantenendo però prezzi alti che garantissero gli introiti necessari a far fronte alle sanzioni. Paesi come Italia e Germania sono andati alla ricerca di nuovi fornitori di gas e nel frattempo la crisi energetica ha generato conseguenze anche nel mercato alimentare.
Simone Tagliapietra, analista di Bruegel e professore di energia, clima e politiche ambientali all’università Cattolica di Milano, in un intervento su Nature pubblicato alla fine dello scorso anno ha individuato cinque ambiti in cui ricercatori e analisti dovranno fornire risposte in un 2023 che si preannuncia pieno di incertezze derivanti dall’instabilità del mercato energetico.
La nuova geopolitica dell’energia
Nel 2021 finivano in Europa più della metà delle esportazioni russe di petrolio e circa tre quarti di quelle di gas. Ora l’Europa si rifornisce di gas naturale e gas naturale liquefatto (GNL) da Algeria, Stati Uniti, Norvegia, Medio Oriente (tra cui il Qatar) e altri Paesi africani. Il vecchio continente ha avviato ingenti investimenti su rinnovabili ed efficientamento energetico e ha al contempo esternalizzato la produzione di beni energivori come acciaio o fertilizzanti.
Per la prima volta i Paesi dell’Unione quest'anno acquisteranno congiuntamente, con l’istituzione della EU Energy Platform, il 15% delle riserve di gas. Assieme ad Andreas Goldthau (professore alla Willy Brandt School of Public Policy all’università di Erfurt e direttore di ricerca all’Institute for Advanced Sustainability Studies di Potsdam, in Germania), Tagliapietra sostiene che sarà interessante vedere se l’Europa riuscirà a coordinarsi in questo con gli altri Paesi del G7, che insieme all’Australia hanno già imposto un tetto al prezzo del petrolio russo. In gioco c’è l’idea stessa di quale modello economico debba guidare la transizione energetica: un libero mercato, globale e aperto, oppure un mercato pianificato dagli interventi statali.
La Russia intanto ha reindirizzato il proprio export verso est, principalmente a Cina e India. Sarà interessante monitorare come questo nuovo assetto influenzerà i Paesi dell’OPEC (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, 14 Paesi tra Medio Oriente, Africa e Sud America), specialmente se l’intesa tra Stati Uniti e Arabia Saudita non sarà più quella di una volta.
Gli Stati Uniti infatti stanno puntando a un’autosufficienza energetica che li tuteli dalla volatilità dei mercati globali, estraendo più combustibili fossili nazionali e investendo sulle rinnovabili, specialmente con l’Inflation Reduction Act.
I Paesi dell’Estremo Oriente, tra cui il Giappone, intendono invece ridurre la propria dipendenza dal GNL, troppo caro e con una disponibilità globale limitata, per rivolgersi invece al carbone, più economico ma molto più emissivo.
Se gli investimenti prima pensati per il gas saranno sostituiti con quelli sul carbone o al contrario con quelli sulle rinnovabili farà tutta la differenza del mondo, in quanto verrebbe spalmato in modo diverso il carbon budegt residuo, ovvero la quantità di anidride carbonica che ancora possiamo permetterci di emettere in atmosfera. Una cosa è certa però, secondo Tagliapietra e Goldthau: non si può più fare affidamento sul gas come combustibile economico di transizione verso un sistema energetico più sostenibile.
Altre soluzioni energetiche alternative si stanno facendo strada, come l’idrogeno verde. Germania e Canada hanno siglato un’intesa per lo sviluppo congiunto di questo vettore energetico, mentre l’Europa sta stringendo accordi con Paesi africani quali Algeria, Nigeria e Namibia non solo per la produzione di idrogeno verde, ma anche di combustibili sintetici (e-fuels).
I ricercatori dovranno valutare se queste mosse saranno sufficienti a compensare la carenza di forniture di combustibili fossili che prima venivano dalla Russia. Dovrà poi venire valutata la fattibilità, oltre che la sostenibilità specialmente a lungo termine, di nuove infrastrutture per il gas, due in particolare: una è BarMar, una conduttura che dovrebbe trasportare (entro i prossimi 5 anni) gas prima e idrogeno verde poi, da Barcellona a Marsiglia, grazie a un progetto sviluppato congiuntamente da Francia, Spagna e Portogallo. L’altra è la Power to Siberia 2, una conduttura che passando per la Mongolia dovrebbe far arrivare alla Cina il gas estratto in Russia entro il 2030.
La crisi energetica favorirà la transizione alle rinnovabili?
Gli alti prezzi di gas e petrolio sono risultati naturali incentivi a investire su elettrificazione e rinnovabili e diversi Paesi europei, come pure gli Stati Uniti, hanno approvato procedure semplificate per l’installazione di pannelli solari e pompe di calore elettriche per il riscaldamento domestico.
I Paesi occidentali in generale stanno tentando di rendersi progressivamente meno dipendenti per la produzione di tecnologie green dalla Cina: gli Stati Uniti con il Chips for America Act e l’Europa con l’analogo Chips Act mirano a rafforzare la produzione domestica di semiconduttori.
Tuttavia, siccome per decenni la Cina ha investito sulla produzione di pannelli solari, secondo Tagliapietra e Goldthau la strategia vincente per Europa e Stati Uniti dovrebbe essere quella di investire sulla nuova generazione di tecnologie per l’energia sostenibile, tra cui innovativi sistemi di accumulo (come le batterie al sodio) o pannelli solari alternativi a quelli in silicio.
I ricercatori, oltre a dover valutare gli effetti di queste nuove politiche, dovranno monitorare l’impatto sociale delle attività estrattive necessarie alla transizione energetica, specialmente nei Paesi ricchi di minerali cruciali e critici come litio e cobalto.
Anche la disparità di distribuzione degli investimenti è un fattore che potrebbe condizionare la transizione, perché spesso il carbone è la fonte energetica più economica per i Paesi in via di sviluppo: questi ultimi nel 2021 hanno ricevuto solo l’8% degli investimenti globali in energie pulite, mentre il resto è stato spartito tra Paesi industrializzati e Cina. Appuntamenti come la COP sul clima dovrebbero servire ad appianare queste disuguaglianze, discutendo più di finanza climatica ed energie rinnovabili e meno di sussidi ai combustibili fossili.
La strada che la decarbonizzazione globale dovrà percorrere dipende da una scelta politica e il punto, secondo Tagliapietra e Goldthau, è il seguente: “il mondo deve affrontare la transizione come una sfida globale comune o piuttosto come una gara a chi diventa più green?” I ricercatori dovrebbero riuscire a produrre evidenze per i decisori politici a riguardo di quale approccio sia il più vincente.
Come cambierà il panorama industriale?
Settori industriali come acciaio, fertilizzanti e alluminio sono tra quelli le cui emissioni sono più difficili da abbattere (hard-to-abate). Già oggi tuttavia si sta diffondendo una maggiore attenzione alla sostenibilità della loro produzione. In Europa ad esempio l’industria siderurgica sta investendo sull’idrogeno verde prodotto da fonti rinnovabili.
Sul lungo termine però, secondo Tagliapietra e Goldthau, molte di queste industrie si troveranno a spostare i propri siti produttivi in aree dove sono più abbondanti fonti energetiche sostenibili come l’eolico, il solare, l’idroelettrico, come pure l'idrogeno verde che da queste verrebbe prodotto, nonché i biocarburanti. Di conseguenza, regioni come il Nord Africa, l’Australia occidentale, il Mare del Nord e alcune regioni del Medio Oriente potranno diventare vere centrali elettriche e poli industriali.
Un tale rimescolamento tuttavia avrà conseguenze sull’occupazione e sulla crescita economica di vaste aree e i ricercatori dovranno sia studiare la fattibilità di questi nuovi modelli economici sia supportare i governi nel decidere a chi destinare eventuali sussidi.
Quali impatti economici sul lungo termine?
Nel corso del 2023 si capirà meglio anche quale sia la reale portata dei trend di deglobalizzazione in atto. Secondo alcuni economisti il ritorno ai nazionalismi economici potrebbe rallentare la transizione ecologica per via di una frammentazione dei mercati. I ricercatori dovranno cercare di capire come questo impatterebbe ad esempio sul costo dei pannelli fotovoltaici che nell’ultimo decennio si è ridotto drasticamente.
La crisi energetica colpisce più duramente i Paesi a basso e medio reddito e potrebbe trasformarsi in una crisi finanziaria del debito in Paesi che hanno già accresciuto di molto il proprio debito durante la pandemia da Covid-19. I ricercatori dovranno valutare quanto e come una crescente povertà energetica e un’inflazione guidata dai prezzi alti dell’energia possano indebolire la coesione sociale e la stabilità politica, non solo in Paesi in via di sviluppo ma anche in paesi ricchi come il Regno Unito e la Repubblica Ceca, che hanno già assistito a numerose proteste.
Come la crisi energetica influenzerà l’azione climatica?
A livello globale il principio delle responsabilità comuni ma differenziate è essenziale per evitare tensioni crescenti tra Paesi ricchi e poveri: i primi vedendo calare le forniture di gas non possono affidarsi al carbone mentre chiedono ai secondi di non affidarsi ai combustibili fossili.
L’istituzione alla Cop27 di un fondo di riparazione per i danni causati dal cambiamento climatico ai Paesi più vulnerabili è da questo punto di vista un impegno che va assolutamente rispettato. “Scienziati politici e sociali ed economisti devono identificare i meccanismi bilaterali, multilaterali e regionali che promuovono la finanza climatica e il trasferimento di tecnologie e conoscenze per rispettare gli impegni presi con l’accordo di Parigi”, concludono Tagliapietra e Goldthau. “La crisi energetica è al contempo una sfida e un’opportunità”.