SCIENZA E RICERCA

L'organismo vivente come ecosistema: l'ipotesi evolutiva dell'olobionte

Il corpo umano è affollato da milioni di miliardi di microrganismi, tra batteri, archaea, virus, funghi. Vivono sulla pelle, nelle mucose della bocca e delle vie respiratorie, nell'intestino, e svolgono importanti funzioni, come quelle digestive, metaboliche o immunitarie, indispensabili alla nostra salute. Microbiota è il nome dato all'insieme di questi nostri inquilini, che raggiungono un numero di individui 10 volte superiore alle cellule del nostro organismo. Il microbioma, ovvero l'informazione genetica totale contenuta nei microrganismi che ci abitano, è 100 volte più grande del genoma umano. Viene allora da chiedersi se sia sufficiente chiamarlo umano, il nostro corpo, o non sia più opportuno considerarlo una sorta di ecosistema.

Un quesito simile se lo sono posti, negli ultimi anni, alcuni biologi (microbiologi e biologi evoluzionisti), che hanno coniato un termine, olobionte, per ridefinire l'organismo vivente alla luce della convivenza con il proprio microbiota. Lynn Margulis, la microbiologa che ha sviluppato negli anni '60 la teoria dell'endosimbiosi, è la stessa che ha introdotto, a inizio anni '90, il concetto di olobionte.

Ciascun organismo eucariote infatti (animale, vegetale o fungino) da sempre vive in simbiosi con miliardi di microorganismi appartenenti agli altri due regni della vita: batteri e archaea.

La tilapia ad esempio è un pesce che solitamente vive in acque tiepide. Alcuni individui tuttavia sono in grado di vivere a temperature più basse, a 12 gradi: hanno una serie di geni espressi differenzialmente, ma anche una popolazione di batteri dell'intestino leggermente diversa, che secondo uno studio pubblicato su eLife, potrebbe contribuire a questo adattamento.

Secondo la versione ortodossa della teoria dell'evoluzione, soltanto i geni, e le loro mutazioni, costituiscono la materia prima per la variazione degli organismi, mentre le relazioni ecologiche selezionano le varianti che meglio si adattano all'ambiente in quel dato momento. Esiste tuttavia una corrente eterodossa, ma non meno autorevole, di biologi convinti che l'esclusiva della variazione non debba spettare ai soli geni. Se l'organismo è un olobionte, il suo genoma sarà un ologenoma, ovvero l'insieme del genoma dell'organismo ospite (uomo o tilapia che sia) e del genoma dei microrganismi che lo abitano. Non solo. Se davvero questi genomi si comportano come una cosa sola, l'ologenoma deve essere considerato un'unità di selezione, ovvero un unico bersaglio della selezione naturale, e in quanto tale evolve come un unico individuo.

Oltre che sui pesci sono stati condotti studi su vespe e altri insetti, su coralli, alghe e altri organismi marini, sulle piante, ma anche sul comportamento dei topi. I teorici dell'olobionte ritengono che le evidenze accumulatesi negli ultimi anni spingano in direzione di una riforma concettuale di alcuni processi evolutivi. Sono in molti tuttavia a non essere ancora persuasi della necessità di questo cambiamento.

I critici sono convinti che l'idea dell'ologenoma come unità di evoluzione non sia necessaria: è sufficiente dire che l'organismo ospite funge da ambiente di selezione per il microbiota, filtra le varianti a lui favorevoli e tanto basta. Il fenomeno osservato verrebbe dunque spiegato da strumenti già presenti nella cassetta degli attrezzi della teoria evoluzionistica, come le dinamiche co-evolutive o quelle simbiotiche tra due o più organismi. Nel caso dell'adattamento della tilapia inoltre, i risultati raccolti mostrano solo una correlazione tra temperature fredde e modifiche al microbiota: queste ultime quindi potrebbero solo essere un effetto dell'adattamento, di cui le modifiche nell'espressione genica sarebbero responsabili, e non una causa.

Secondo alcuni autorevoli scienziati come W. Ford Doolittle, biologo evoluzionista della Dalhousie University a Halifa, in Nuova Scozia, considerare l'organismo ospite e il suo microbiota come un'unica entità oscura la comprensione di tutta una gamma di interazioni che i due possono intrattenere a seconda dei bisogni ambientali: non solo simbiosi e mutualismo, ma anche parassitismo e commensalismo.

Doolittle riconosce tuttavia dei meriti alla teoria dell'olobionte. È infatti possibile che interazioni prolungate portino la selezione naturale a lavorare sui percorsi metabolici instauratisi, facendo evolvere le diverse entità come una sola.

L'unico modo per capire come stanno le cose è quello di passare l'ipotesi dell'olobionte al setaccio della verifica sperimentale: occorre metterla alla prova in vari organismi e in diverse condizioni ecologiche. I risultati raccolti stabiliranno l'ipotesi sarà confermata dai dati, o se piuttosto il concetto di olobionte risulterà insufficiente a descrivere le interazioni osservate, che avranno allora bisogno di altri tipi di modelli descrittivi. Il dibattito è aperto e la ricerca avanza.

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