SCIENZA E RICERCA
"Il male detto". Cosa chiamiamo dolore? Il libro è finalista al Premio Galileo 2024
Un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata a un danno tissutale effettivo o potenziale, oppure che somigli a quella associata a tale danno. "Ho preso la definizione ufficiale della IASP, l’International Association for the Study of Pain, e l'ho smontata parola per parola", per provare a entrare nel dolore, ritrovarne le tracce, l'origine, comprenderne le sfumature, per esplorare i territori ignoti riconoscendo infine "una necessaria autenticità all'esperienza del dolore", riconsegnando voce a chi il dolore non riesce a comunicarlo, superando i limiti imposti dai soli termini con cui viene descritto, (ri)collocando il dolore tra i sensi, lì dove non è mai citato proprio per questo suo status speciale determinato da una componente emotiva importante. Roberta Fulci, matematica di formazione, in redazione e al microfono di Radio3 Scienza, è autrice de Il male detto (Codice edizioni), un saggio che parte da una domanda Che cosa chiamiamo dolore? Esiste una definizione in grado di mettere d’accordo biologi, filosofi, antropologi, medici, linguisti? Potremmo dire che "il dolore è l’oggetto di una facoltà sensoriale diversa dal tatto, con una sua connotazione emotiva"? Fulci ha intervistato i protagonisti della ricerca sul dolore per comporre un quadro ricco di un tema complesso e universale, che ci riguarda tutti (o quasi, vedremo perché), e per il quale non esiste un’unica soluzione, una definizione capace di fare una sintesi: le varianti e le sfumature sono davvero troppe. L’opera è tra i cinque libri finalisti all’edizione 2024 del Premio Galileo.
Perché un libro sul dolore?
"Perché avevo una domanda in mente da tanto tempo: volevo capire come si fa a dire l'indicibile, come si fa a raccontare un concetto che sembra sfuggire a qualsiasi giro di parole che catturi una descrizione. A parte usare sinonimi, che per me è un po' barare, esiste una disciplina con strumenti che siano in grado di incasellare, individuare, definire il dolore che sperimentiamo? Esiste un evento obiettivo, sicuro e osservabile?".
Da dove è partita la ricerca?
"Dalla misura del dolore. Ho scoperto che sono secoli che gli studiosi cercano di misurare il dolore. Esplorando questo tema ho incontrato tante storie incredibili: dall'entomologo che per tutta la vita ha collezionato micidiali punture d'insetto, descrivendole e mettendole in ordine per intensità, al dolorimetro, un dispositivo messo a punto da alcuni ricercatori americani che cercava di simulare in laboratorio il dolore della vita reale, che però è necessariamente diverso".
Parlando di scale e catalogazioni, è possibile classificare i tipi di dolore?
"Io ci ho provato sottoponendo la questione a esperti, ma è complicato e i contorni sono laschi. In ambito medico si tende a distinguere tra dolore acuto e dolore cronico, dove il primo è riferito alla durata entro certi limiti, mentre il secondo dura più a lungo. Già spiegandola così, si può ben capire quanto sia arbitrario il confine. A questa distinzione si aggiunge quella legata all'eziologia del dolore, che può essere causato da un evento traumatico o da un malfunzionamento del sistema nervoso che dà un segnalo sbagliato. Anche questa distinzione è lasca e si inserisce all'interno di un dibattito più grande che parte da una domanda: dobbiamo considerare il dolore come un sintomo? Molti medici faticano a definirlo tale, almeno in condizioni ‘normali’, è certamente qualcosa di scivoloso, perché porterebbe a chiedersi: esistono dolori giusti e dolori sbagliati? Non è così. A volte nel dolore cronico la causa non si conosce, non si vede e la questione diventa sociale: le persone che soffrono di dolore cronico spesso non vedono riconosciuto il proprio dolore. Tuttavia, alcuni passi avanti sono stati fatti, pensiamo solo al riconoscimento della fibromialgia. Il punto è questo: nel momento in cui il paziente lo denuncia, il dolore c'è".
“ Volevo capire come si fa a dire l'indicibile, come si fa a raccontare un concetto che sembra sfuggire a qualsiasi descrizione Roberta Fulci
Mi sposto ora sul concetto di utilità. Un giorno questo dolore ti sarà utile, recita il titolo di un romanzo. Comincio da qui per porre un paio di domande, collegate tra loro. La prima e scontata: il dolore è utile all'essere umano? E aggiungo: se il dolore non si sente mai - lo racconti bene nel libro con la storia di Steven Pete e della sua analgesia congenita -, quali sono i rischi, i pericoli?
"Se il dolore non si sente è un dramma. La storia di Steven Pete apre il mio libro perché mi sembra illuminante. Si chiama analgesia congenita quella condizione che non permette di provare dolore, mai, in nessun modo. La vita di queste persone è molto difficile, spesso muoiono giovani, perché la quantità di pericoli a cui sono esposti è enorme, soprattutto da piccoli. Crescendo si fa esperienza, si impara cos'è pericoloso, ma da piccolo proprio non lo sai e, quindi, i bambini con analgesia congenita fanno cose come masticarsi le dita, mordersi la lingua, battere la testa contro il muro per sentire la vibrazione, tuffarsi perché è semplicemente divertente. Io mi chiedo come facciano queste persone a capire che cosa significa che qualcosa è pericoloso, come fanno a cogliere il concetto di pericolo? Per noi una cosa è pericolosa quando può farci del male, può causare una ferita, possiamo contare su segnali precisi che spiegano benissimo cosa significhi stare male, possiamo contare appunto sul dolore".
C'è poi la sindrome Marsili.
"La condizione genetica, che prende il nome dalla biologa italiana Letizia Marsili, è insolita ma tutto sommato favorevole. Marsili sa cos'è il dolore (soffre di mal di schiena, ndr) ma in determinate circostanze, quelle in cui la maggior parte delle persone proverebbe un dolore forte e invalidante, lei sente solo un piccolo stimolo destinato a passare dopo pochi secondi. Se si ustiona, sente qualcosa per qualche istante, poi niente più. Si tratta di una sorta di superpotere nel quotidiano, una fortuna ma non completamente, perché potrebbe non accorgersi di infezioni in atto nel suo corpo. Sentendo però anche solo un piccolissimo dolore in caso di eventi traumatici, Marsili e altri membri della sua famiglia (che sono come lei, ndr) possono percepire il pericolo e quindi prestare maggiore attenzione".
Restando sull'utilità del dolore, vorrei spostare l'attenzione sul parto. Non è un evento patologico, non è una malattia e non è neppure legato a situazioni da evitare, se fosse indolore non potrebbe essere più utile alla sopravvivenza della specie?
"Partorire non è una circostanza patologica, anzi dovrebbe essere il momento maggiormente favorito dall'evoluzione, allora perché alla donna viene dato un segnale così catastrofico di dolore? Con questa domanda sono andata a intervistare un bel po' di persone, tra le quali Telmo Pievani. Non sono la prima a porsi domande del genere, siamo di fronte a qualcosa di antico: si parla di dilemma ostetrico. Le risposte che ho ricevuto non sono semplici e non sono definitive, ma ecco cosa ho capito: pima di tutto, noi interpretiamo ogni meccanismo evolutivo come se dovesse sempre essere finalizzato, come se dovesse avere sempre uno scopo perfetto, ma non è così perché ci possono essere esigenze contrastanti che, in qualche modo, si devono aggiustare. Il dolore del parto, per esempio, è probabilmente l'effetto collaterale della combinazione tra la postura eretta dell'homo sapiens e la grandezza della testa dei cuccioli di essere umano: la testa è grande, ma la postura bipede non consente un bacino altrettanto grande e quindi questa condizione implica una operazione scomoda e dolorosa. Le donne sono particolarmente sfortunate perché non tutti gli animali soffrono così, a dircelo sono gli studi sull'ormone dello stress. Poi esistono anche ipotesi più fantasiose, una è questa: se la donna che deve partorire soffre molto, quasi certamente chiederà aiuto, e il fatto di ricevere aiuto in quel momento le garantirà maggiore sicurezza rispetto a un parto meno doloroso ma vissuto in solitudine. Ecco, c'è pure questa ipotesi, ma diciamo che la più condivisa e accettata dalla comunità scientifica ci dice che forse conviene affrontare un parto doloroso e più pericoloso piuttosto che rinunciare a una bella capoccia".
“ Esiste una disciplina con strumenti che siano in grado di incasellare, individuare, definire il dolore che sperimentiamo? Esiste un evento obiettivo, sicuro e osservabile? Roberta Fulci
A proposito di riconoscimento e comunicazione del dolore, nel saggio approfondisci la questione, molto dibattuta, legata al dolore degli animali. Tema su cui ancora ci si confronta e che ha portato alla dichiarazione di Cambridge secondo cui "l'assenza di neocorteccia non sembra impedire agli organismi di sperimentare stati di coscienza".
"Sicuramente gli animali provano dolore, anche se non sappiamo quanti e quali. Quando un animale ci somiglia parecchio, di fronte a certi segnali come il lamento o l'inappetenza legati a un trauma o una malattia, perché mai dovremmo dubitare del fatto che possa provare dolore? Oggi biologi, veterinari, evoluzionisti dicono che si può supporre che almeno i mammiferi provino dolore: cosa non così ovvia, se consideriamo che tempo fa si credeva che addirittura i neonati non provassero dolore o che le donne ne provassero meno degli uomini. Oggi la questione relativa al dolore degli animali è al centro di un dibattito che si è acceso soprattutto con i pesci: gli esperti si sono divisi. Sono state fatte molte ricerche relative alla parte del cervello che risulterebbe indispensabile per provare dolore: quali reti neurali devo avere, essendo animale, per provare dolore? Neanche per gli esseri umani la risposta è chiara: ci sono casi gravissimi di bambini che che nascono senza parti del cervello ritenute indispensabili per una serie di funzioni tra le quali anche provare dolore, ma sembra che ciononostante questi bambini siano in grado di provarlo. E poi passiamo al caso del polpo, mascotte di esperimenti e studi importanti, che dimostra di avere facoltà strabilianti pur essendo così diverso da noi: Giorgio Vallortigara mi ha detto che il polpo è stato assunto a mammifero ad honorem per gli esperimenti in laboratorio, a lui vengono applicate norme etiche che solitamente vengono riservate ai mammiferi per garantire che soffrano il meno possibile. Alcuni esperimenti portano a pensare che il polpo provi dolore: in sintesi, gli viene somministrato un piccolo stimolo doloroso, una scossetta, in un ambiente di un certo colore, quando quel polpo dovrà scegliere se entrare nella stanza dove ha ricevuto la scossa o in un'altra sceglierà la seconda, dimostrando così di voler evitare il dolore. Per evitare l'esperienza negativa deve averla vissuta e incamerata".
Parliamo di effetto placebo. Il placebo si usa nella ricerca per convalidare nuovi farmaci. In contesti terapeutici, in quali casi può funzionare?
"Questa è stata una delle parti più entusiasmanti da studiare ed esplorare. Il mio interlocutore è stato Fabrizio Benedetti, un esperto di placebo a livello internazionale che mi ha spiegato molte cose: la prima, il placebo non è solo la pillola di zucchero o l'iniezione finta, ma è un rituale che il paziente associa a probabili benefici, a una aumentata probabilità di guarigione. Per rituale possiamo intendere anche il mio ingresso in un ambulatorio dove ad aspettarmi c'è un medico, che indossa il camice, che ha un importante attestato appeso al muro, che mi dà una terapia mostrandosi sicuro e preciso. Tutto questo mi rassicura. La seconda cosa che non sapevo riguarda il ruolo della nostra consapevolezza. Partiamo da una domanda: affinché l'effetto placebo funzioni, io devo avere una convinzione cieca? No, non è così. Quello che funziona non è un meccanismo consapevole ma qualcosa che, in maniera inconscia, associamo alla cura. Quindi ben venga l'effetto placebo, sia nei trial clinici che in contesti terapeutici. Il dolore è uno dei sintomi perfetti per l'effetto placebo per un motivo molto semplice, ovvero che inizia e finisce nel nostro corpo. Con una infezione in corso e batteri in circolo, nel corpo non vi è qualcosa in grado di uccidere quei batteri, per questo abbiamo bisogno dell'antibiotico. Il dolore, invece, è completamente regolato da sostanze che noi abbiamo già nel nostro corpo. La storia del placebo è curiosa: fino a un certo punto è stata considerata una cura non valida. Soprattutto, si pensava: su di te ha funzionato? Allora non stavi provando vero dolore. Non è così, perché il placebo muove fisicamente delle molecole vere, che si possono osservare".
In tutto questo che ruolo ha la componente emotiva?
“Ricordiamo che in ogni dolore fisico c'è anche una componente emotiva, tanto è vero che la definizione ufficiale del dolore parla di esperienza sensoriale ed emotiva. Una esperienza sensoriale che non abbia una connotazione emotiva negativa non è considerata dolore".
Nel libro spieghi che dolore e piacere sono legati a meccanismi diversi, ma possono coesistere e dialogare. Esiste un 'dolore piacevole'?
"Questo è stato uno dei miei punti di partenza, per un motivo che potrebbe sembrare ridicolo legato all'acqua frizzante. Suona strano considerando che stiamo approfondendo un tema serio come il dolore, ma per me è stato illuminante. Più della 'mia' acqua frizzante, un altro esempio può farci arrivare direttamente al centro della questione: pensiamo al peperoncino, tutti concordiamo sul fatto che mangiando qualcosa di molto piccante ciò che proviamo in bocca può essere definito dolore, ma la verità è che a molti piace. Mi sono chiesta: il dolore è sempre spiacevole? Non stupisce che la classe medica pretenda che nella definizione del dolore ci sia la parola spiacevole: banalmente, se non si rifugge qualcosa perché crea una sensazione di disagio perché mai dovremmo curarlo? Quindi a livello medico il dolore è spiacevole, ma se guardiamo la singola esperienza ci sono circostanze che fanno crollare l'idea di spiacevolezza: Siri Leknes, una neuroscienziata che vive a Oslo, mi ha raccontato di un suo collega dermatologo esperto di un disturbo della pelle che procura un tremendo prurito e il modo per combatterlo era immergere le mani nell'acqua gelida. Ma l'acqua gelida fa male, l'ho provato anch'io durante un esperimento domestico". Esistono dunque dei piccoli dolori che possono dare sollievo, capaci di distrarci dal dolore principale più intenso? A quanto sembra…
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