SOCIETÀ

La più grande foresta del mondo, quella boreale, sempre ai confini del ghiaccio

Tutti noi abbiamo fatto esperienza della linea degli alberi. C’è un punto in cui la vegetazione cambia, da erba e arbusti ad alberi piccoli e grandi, da mare e sabbia ad alberi piccoli e grandi, da ghiaccio ad alberi piccoli e grandi. Non si tratta di un confine istituzionale, in genere per quello le amministrazioni statali e periferiche preferiscono la linea dei fiumi o dei crinali. Non si tratta nemmeno di un confine biologico o ecologico, la linea è spesso mutata nel tempo lunghissimo dei cicli glaciali, medio dei cambiamenti climatici, breve dell’intervento umano. Il limite degli alberi o linea degli alberi è quell'astrazione della climatologia che fissa il confine ecologico delle forme di vita vegetale sviluppate, come appunto gli alberi. La linea può riferirsi all’altitudine nel caso di rilievi collinari o montuosi, alla latitudine nel caso delle zone pianeggianti e soprattutto polari, o semplicemente alla topografia nel caso di zone desertiche.

Siamo nei campi della transizione e dell’evoluzione, la linea degli alberi non è stata tracciata da qualcuno preventivamente su una mappa, non è un confine o una frontiera, e nemmeno una barriera in senso stretto. Piuttosto si tratta di una barriera biologica in senso lato, un percorso lineare o sinuoso che è mutato nel tempo in quello stesso ecosistema e che connette gli areali di ecosistemi differenti. La si individua sempre e solo a posteriori, sulla base di fotografie o narrazioni della realtà fisica e sapendo che costituisce una traccia mobile, transitoria ed evolutiva, sottoposta alle dinamiche di sopravvivenza, riproduzione e migrazione delle coeve specie che condividono l’ecosistema, ai cambiamenti geomorfologici e climatici, antropici e non antropici. Oggi però la preoccupazione diventa forte perché siamo abbastanza in grado di fare previsioni sulle dinamiche future della linea degli alberi, almeno su quella lunghissima e peculiare dell’ecosistema artico al Polo Nord.

Rammentiamolo schematicamente: l'Antartide sta al Polo Sud, risulta il quarto continente più vasto della Terra, ed è principalmente territorio insulare  (un’isola e più isole) circondato dai tre oceani, per quanto i suoli e le acque siano coperte di ghiaccio; ovvero un ecosistema ghiacciato non abitato dalle specie umane, per quanto sapiens vi siano arrivati forse millenni fa, per quanto nostri contemporanei (residenti altrove) vi lavorino da decenni con attrezzate spedizioni scientifiche molto utili o per quanto vi siano rischi di turismo insostenibile. Solo circa l’uno per cento del territorio non è oggi sempre ricoperto dal ghiaccio; la copertura risulta spessa in media oltre due chilometri e formata anche da enorme singoli ghiacciai in movimento; possono inoltre staccarsi immensi iceberg dal ghiaccio che non si trova sopra il suolo terrestre. Pur ghiacciato, il suolo è come quello intorno a noi: catene montuose e laghi, valli e altipiani, vulcani e depressioni). Nel resto dell’emisfero australe, come noto, i ghiacciai sono complessivamente rari, con l’eccezione di Patagonia e Nuova Zelanda.

L’Artide, invece, sta al Polo Nord e non c’è suolo, risulta uno dei bacini acquiferi dell’unico grande oceano terrestre, quello artico, insieme ai mari che lo connettono ai continenti intorno. Si tratta di ghiacci sopra le acque, soltanto mari ghiacciati per larghissima parte della miliardaria vita del pianeta. La linea degli alberi è, dunque, particolarmente significativa al Polo Nord (artico): via via che appare il suolo dei vari continenti tutt’intorno, sono le glaciazioni cicliche del pianeta a determinare dove e quanto riesce a crescere vegetazione su quei primi suoli dopo le acque, dinamica oggi legata anche ai contemporanei cambiamenti climatici antropici. Un saggio recente di buona comunicazione scientifica consente di aggiornare bene la nostra conoscenza in materia, soprattutto qui da noi nell’emisfero boreale e rispetto agli ultimi dodicimila anni (circa): Ben Rawlence, Treeline. L’ultima foresta e il futuro della vita sulla Terra, traduzione (dall’inglese) Alessandra Neve, Francesco Brioschi Editore Milano 2022 (orig. inglese 2022).

Gli alberi antichi sono fonte di meraviglia, profughi di un’altra era con un ciclo vitale molto più lungo di quello umano. I loro areali sono il risultato di cicli planetari geologici, climatici ed evolutivi incredibilmente lunghi. A partire dal Pliocene, tre milioni di anni fa, quando l’esplosione delle piante ha rinfrescato l’atmosfera fino al livello di equilibrio attuale, le ere glaciali hanno interessato il pianeta circa ogni centomila anni. Come detto, il Polo Sud è un’isola, i ghiacci nell’emisfero australe sono rari. Dalle nostre parti del globo, invece, il ghiaccio si è esteso e ritirato ritmicamente e la massa verde con esso, migrando in senso opposto. La fine dell’ultima era glaciale risale a un po’ più di diecimila anni fa, per l’orologio del pianeta è questione di qualche secondo. Dopo la ritirata dei ghiacci, gli alberi hanno riconquistato terreno verso il Nord nel nostro emisfero, fino alla Treeline, appunto la “linea degli alberi”, quella in cui alcune specie (come anticamente i tassi in Galles) crescono floride in ambienti marginali, in terreni inospitali e poveri di nutrimento, in un ecosistema prossimo a quello ghiacciato.

Le condizioni di crescita sono limitate sia dall’altitudine (sulle colline o sui fianchi di una montagna) che dalla latitudine (verso i poli) e sono legate soprattutto al contesto vitale, alla disponibilità di terra, a sostanze nutritive, a luce, anidride carbonica e calore. Man mano che il ghiaccio si ritira, gli alberi lo seguono lentamente, mettendo radici in terreni poveri, facendo la fotosintesi, perdendo gli aghi e poi morendo, fino a creare il suolo ricco e fertile per la tanta biodiversità vegetale esistente, gettando le basi degli habitat di tutte le altre specie viventi. La foresta boreale copre un quinto del globo, il secondo grande bioma dopo l’oceano, e contiene un terzo di tutti gli alberi terrestri. Ora lo sconvolgimento è in corso, i cambiamenti climatici antropici globali stanno provocando effetti irreversibili. Gli alberi della Terra sono stati qui già spesso oggetto di attenzione.

Il giornalista e scrittore inglese Ben Rawlence (1974) ha a lungo lavorato come reporter di migrazioni umane forzate, in aree di violazione dei diritti umani, di conflitti civili e guerre internazionali. Vive con la famiglia in Galles, dove ha fondato il Black Mountains College, dedicato allo studio dell’emergenza climatica e ai modi in cui affrontarla. E proprio dal suo Galles parte nel prologo del nuovo bel saggio documentario: Llanelieu, 52° 00’ 01” N, ovvero l’area meridionale della foresta “fantasma”, quella abbattuta per millenni da antenati neolitici per fare spazio ai pascoli o per ricavarne legna da ardere, e che oggi resta come una boscaglia di arbusti, biancospino e felci aquiline mista a latifoglie, una zona di transizione tra gli habitat di pianura e quelli di montagna. Ognuno dei successivi sei capitoli indica la latitudine della località d’inizio del percorso geografico e scientifico verso il sole che sorge, da ovest verso est, fra comunità biologiche e umane del larghissimo “confine” fra vegetazione e ghiaccio.

La foresta boreale è da sempre decisiva nella regolazione del clima terrestre. È lì che bisogna guardare per capire cosa resterà dopo le grandi trasformazioni in atto oggi sul pianeta. Fra migliaia o forse milioni di anni, quando la Terra si sarà di nuovo raffreddata, le specie che strisceranno fuori per ripopolarla saranno probabilmente quelle endemiche della foresta boreale. Quando gli esseri umani non saranno più che fossili queste tenaci specie del Nord saranno ancora in piedi e in movimento. Oggi, comunque, non se la passano tanto bene, il viaggio è istruttivo. I sistemi planetari (cicli dell’acqua e dell’ossigeno, circolazione atmosferica, effetto riflettente “albedo” della neve fresca, correnti oceaniche, venti polari) sono plasmati e diretti dalla posizione della linea degli alberi e dal funzionamento della foresta boreale.

Largamente intorno al Polo Nord, la linea degli alberi è composta da una manciata di specie, un club vegetale esclusivo, i segni distintivi delle terre settentrionali. Si tratta di tre conifere e di tre latifoglie che si sono evolute per sopravvivere al freddo, ognuna capace di impossessarsi di un segmento della linea, prevalendo sulle altre e creando ecosistemi unici (alcuni sapiens accanto a loro): il pino silvestre in Scozia, la betulla in Scandinavia, il larice in Siberia, l’abete in Alaska e, in maniera minore, il pioppo in Canada e il sorbo in Groenlandia. Rawlence ha visitato tutti quei luoghi tra il 2018 e il 2020 in diversi periodi dell’anno per apprezzare anche i cambiamenti stagionali, poi ha utilizzato la geografia per l’ordine della narrazione scritta e la storia per l’evoluzione della foresta in ogni contesto. Così, introducendo il primo capitolo, sottolinea il ritorno sulle isole britanniche, all’inizio dell’attuale periodo interglaciale (quando il mare si alzò quasi ovunque, i ghiacci iniziarono a ritirarsi in alto e il canale della Manica in basso sopraggiunse a provocare una Brexit naturale), di tante specie che non si vedevano da migliaia di anni. La foresta boreale partì all’inseguimento sul suolo non più ghiacciato, secondo i cicli del vento e della pioggia e le rotte migratorie degli animali, sapiens inclusi.

Subito dopo l’indice iniziale del volume trovate l’indispensabile mappa geografica con l’attuale linea degli alberi artica: comincia nella parte alta dei tre paesi scandinavi, prosegue allargandosi immensa in Russia, arriva al mare di Bering e prosegue in Alaska e Canada; poi c’è il bacino atlantico settentrionale con l’Islanda; in mezzo la Groenlandia e il mar glaciale artico. Il primo capitolo riguarda appunto la Scozia, Glenn Loyne, 57° 04’ 602 N, ovvero l’area settentrionale della ex foresta, ora un “fantasma”. La posizione della linea degli alberi dovrebbe in teoria coincidere quasi perfettamente con un’altra “linea”, l’isoterma di dieci gradi centigradi del mese di luglio, che individua tutte le zone del Nord del pianeta che hanno una temperatura media estiva di dieci gradi centigradi; oggi subisce varie oscillazioni e, man mano che il clima si fa più caldo, gli enormi ecosistemi della tundra e della foresta stanno subendo trasformazioni varie e imprevedibili; il luogo in cui gli alberi dovrebbero essere in grado di crescere e quello in cui effettivamente crescono non coincidono più.

Ora il riscaldamento globale ha lo stesso effetto di un dislocamento inesorabile degli alberi verso sud, la velocità attuale sarebbe di circa venti chilometri l’anno, un effetto gradevole per l’arrivo progressivo dei vigneti alla mediterranea nel sud dell’Inghilterra, ma un vero guaio per i pini silvestri in Scozia (potrebbero sparire dalle pianure europee entro la fine del secolo, resteranno forse sulle Alpi). Più di ottomila anni di storia delle foreste e tutti gli uccelli e i mammiferi che compongono il delicato sistema evolutosi intorno al pino silvestre potrebbero essere cancellati nell’arco dell’esistenza di un solo albero. Se un tempo la Scozia era posta sul limite settentrionale della vegetazione arborea, oltre il quale i pini non crescevano per il troppo freddo, in meno di cento anni potrebbe ritrovarsi al di sotto del limite meridionale.

In ogni capitolo l’autore si sposta a est verso altre latitudini della stessa area: nel secondo “sulle tracce delle renne” dall’altopiano di Finmark in Norvegia, 69° 58’ 0722 N; nel lunghissimo terzo (siberiano) dall’”orso addormentato” di Krasnojarsk in Russia, 56° 01’ 00” N; nel quarto alla “frontiera” decisiva per il popolamento delle Americhe, lo stretto di Bering, da Fairbanks in Alaska, 64° 50’ 37” N; nel quinto verso la “frontiera del mare” da Merrickville in Canada, 44° 55’ 06” N; nel sesto per l’”ultimo tango col ghiaccio” da Narsarsuaq in Groenlandia, 61° 09’ 41” N. Ogni volta riporta opinioni scientifiche e interviste sul campo, a parlare spesso sono sapiens incontrati durante viaggi e soste, ricercatori o residenti rappresentanti di gruppi e di popoli. L’epilogo è una saggia esortazione: “pensare come una foresta”. Il volume è completato dalle illustrazioni delle principali specie vegetali citate, da un bel glossario degli alberi e dalle note bibliografiche.

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