SOCIETÀ

Le cause di Trump

Sono ormai passate settimane dalle elezioni presidenziali e Trump non ha ancora ufficialmente riconosciuto la vittoria di Biden: nonostante sia iniziata la transizione dei poteri il presidente uscente continua a dichiararsi vincitore e come previsto ha scatenato il suo legal team negli Stati considerati in bilico. Così, mentre Biden ufficializza via via le nomine della nuova amministrazione (tra cui Antony Blinken segretario di Stato e l’ex presidente della Fed Janet Yellen al Tesoro), nelle corti continua la battaglia a colpi di ricorsi.

“Chiariamo innanzitutto che i legali di Trump non sembrano avere assi nella manica e che al momento è impossibile che l’esito delle elezioni venga rovesciato – spiega a Il Bo Live Luca Pietro Vanoni, docente di diritto pubblico comparato alla Statale di Milano –. I legali del presidente uscente si muovono in modo confuso, dando l’impressione di non avere argomentazioni né prove. Detto questo a mio avviso tra le questioni proposte ce n’è almeno una che meriterebbe un chiarimento, magari davanti alla Corte Suprema”.

Quale?

“Detto in parole povere: sulle procedure elettorali l’ultima parola spetti al potere legislativo o a quello giudiziario? La legge sul voto postale approvata dalla Pennsylvania nel marzo 2020 prevedeva che per essere conteggiate le schede avrebbero dovuto arrivare entro le 20 della sera del 3 novembre. Successivamente la norma fu impugnata dai Democratici e finì davanti alla Corte Suprema della Pennsylvania, che decise che a causa della pandemia sarebbero stati considerati validi anche i voti arrivati fino a tre giorni dopo. La questione come è noto arrivò davanti alla Corte Suprema federale il 28 ottobre, quando la nuova giudice Amy Coney Barrett non si era ancora insediata, per cui la Corte si trovò spaccata 4 a 4. In caso di pareggio la decisione non viene rivista, ma il giudice Alito scrisse un’opinion e in seguito un order che raccomandava di mettere da parte i voti arrivati dopo la sera dell’election day, con la possibilità di affrontare successivamente la questione con più tempo e calma. Bisogna però considerare che il distacco a favore di Biden in Pennsylvania è talmente ampio – circa 80.000 voti – da risultare quasi impossibile da ribaltare”.

È possibile che si arrivi, come preannunciato da Trump, alla Corte Suprema?

“È molto difficile. Solitamente la Corte interviene quando i giudici federali si pronunciano in disaccordo oppure ci sono tensioni molto elevate rispetto all’interpretazione di una norma costituzionale. Finora – a parte la questione a cui ho accennato sulla Pennsylvania, peraltro ininfluente sull’esito finale – i ricorsi presentati non sembrano soddisfare queste condizioni. In essi si parla soprattutto di piccole e grandi irregolarità nello spoglio, di persone decedute che risulterebbero aver votato e di un glitch sulle macchine per votare prodotte dalla società privata Dominion Voting Systems, utilizzate in molte contee degli swing states. A questo riguardo è stato effettivamente riscontrato un malfunzionamento nella contea di Antrim in Michigan, che pur essendo stato subito riscontrato e neutralizzato ha generato alcune teorie sulla manipolazione del voto ai limiti del complottismo. Occorre però ribadire che anche su questo mancano al momento le prove di un intervento fraudolento”.

I ricorsi potranno influire sull’imminente scelta dei grandi elettori e sul loro scrutinio?

“La costituzione all’art. 2 prevede che i grandi elettori siano nominati dagli organismi legislativi degli Stati, i quali però soprattutto dopo la guerra civile hanno emanato leggi statali con cui hanno affidato la scelta ai loro cittadini: questo secondo alcuni avrebbe fatto sorgere in loro un diritto generale alla parità di trattamento in quanto elettori, in base al XIV emendamento (Equal Protection Clause). Può darsi che, continuando a ventilare frodi elettorali, Trump tenti in qualche modo di spingere i congressi statali – in alcuni casi a maggioranza repubblicana – a riprendere in mano la nomina dei grandi elettori”.

Sarebbe uno scenario realistico?

“A mio avviso no, e in ogni caso non è augurabile perché significherebbe l’implosione dell’intero sistema: per questo ad esempio in Georgia, dove pure la maggioranza è repubblicana, hanno subito detto che non se ne parlava. Bisogna poi ricordare che i grandi elettori non hanno vincolo di mandato. È già successo, ad esempio durante l’elezione di Bush figlio nel 2000, che un grande elettore si sia astenuto, senza che però risultasse alterato l’esito finale”.

In generale che idea si è fatto sulle ultime elezioni?

“Che sono state fortemente impattate dalla pandemia, con il Covid che ha messo in luce le debolezze strutturali del sistema. L’elezione del presidente degli Stati Uniti si basa su un modello ideato alla fine del ‘700 e stabilizzatosi nella forma attuale circa 150 anni fa. Per evitare la tirannia i Framers, i padri costituenti, decisero di dare voce sia al popolo che agli Stati; le due basi dell’Unione – popolo e Stati – nel potere legislativo vengono espressi dai due rami del Congresso, mentre per quello esecutivo era stato appunto ideato il meccanismo dell’elezione indiretta del presidente: per questo ogni Stato stabilisce autonomamente la propria legge elettorale. Il problema è che quello che funzionava con 13 colonie e 5 milioni di persone non necessariamente va bene per 50 Stati e una popolazione di 320 milioni, peraltro sempre più complessa e disomogenea”.

Furono populisti anche presidenti progressisti come Andrew Jackson o Franklin Delano Roosevelt, che per realizzare il New deal ebbe un aspro conflitto con la Corte Suprema

Perché finora il sistema ha retto?

“Per un clima generalizzato di fairness costituzionale, di profondo rispetto delle istituzioni secondo il quale si litigava forsennatamente per mesi durante la campagna elettorale ma poi ci si riconosceva tutti nell’esito delle urne: Right or wrong he is my president. Già però alcune crepe si erano viste con lo scontro tra Bush Jr e Gore nel 2000: il candidato democratico riconobbe la sconfitta solo dopo numerosi ricorsi e una pronuncia della Corte Suprema. In quel caso dichiarò di essere in disaccordo con la decisione, ma di accettarla perché la democrazia Usa era governata dalle leggi e non dai singoli, e che dall’indomani si sarebbe messo a disposizione del presidente eletto Bush per riunificare la nazione”.

Perché oggi questo non accade più? Colpa di Trump?

“Già prima di Trump questo clima di correttezza e di rispetto delle istituzioni aveva mostrato segni di affaticamento. Lo abbiamo visto nella tendenza di alcuni Stati a limitare l’accesso al voto da parte di alcune fasce di elettorato o nella pratica del gerrymandering, che consiste nel disegnare le circoscrizioni elettorali a seconda delle convenienze di parte. Il vero problema è che le società postdemocratiche sono sempre più polarizzate: un dato già in parte emerso nelle elezioni del 2000, e i presidenti successivi non sono sempre stati capaci di rappresentare in modo unitario la nazione. L’uso dei social network negli ultimi anni, ma anche certe posizioni assunte dalla stampa tradizionale, hanno poi acuito il fenomeno”.

Trump comunque ha rappresentato un salto.

“Donald Trump è stato certamente un presidente anomalo e divisivo. Già nel 2016, appena eletto, aveva provocatoriamente ricordato in un tweet che, se non fosse stato per presunti brogli a suo danno, avrebbe facilmente vinto anche il voto popolare. Ma le elezioni del 2016 sono state fortemente contestate anche dai democratici, come testimoniano le polemiche sull’ingerenza nel voto da parte di alcune potenze straniere: anche qui non sappiamo se le accuse fossero vere o false, ma come nei ricorsi di Trump avrebbero dovuto esserci delle prove commisurate alla loro gravità. Alla fine l’effetto è stato quello di minare la credibilità del voto. Ricordiamo, inoltre, che Trump non è il primo populista della storia americana: furono populisti anche presidenti progressisti come Andrew Jackson o Franklin Delano Roosevelt, che per realizzare il New deal ebbe un aspro conflitto con la Corte Suprema”.

Per tornare al sistema elettorale statunitense, pensa che un giorno potrà essere riformato?

“Molto probabilmente non risponde più alle esigenze dei tempi, ma allo stesso tempo è molto difficile da cambiare. Il procedimento di modifica della Costituzione è particolarmente complesso e prevede il coinvolgimento di ampie maggioranze del Congresso e degli Stati. Questa è una delle caratteristiche più affascinanti ma anche problematiche del costituzionalismo americano, che prevede regole scritte più di 200 anni fa con la penna d’oca, ma che in parte regolano ancora oggi il sistema attuale nella sua complessità. Quello delle modifiche delle costituzioni che non sembrano stare più al passo con i tempi è però un problema più generale, come abbiamo visto anche in Italia"

SPECIALE Elezioni Usa 2020

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