SOCIETÀ

L’America e le incognite del post Trump

In qualsiasi modo vada a finire il 6 gennaio 2021 sembra destinato a restare nella storia degli Stati Uniti, forse ancor più delle ultime elezioni presidenziali. Nello stesso giorno in cui venivano ufficializzate le vittorie di due democratici ai ballottaggi in Georgia, che di fatto consegnano al partito del neopresidente la maggioranza al Senato, a Washington DC è andato in scena uno degli spettacoli più imprevisti e drammaticamente surreali degli ultimi anni. Dopo un infuocato comizio del loro beniamino migliaia di manifestanti trumpiani hanno infatti occupato il Campidoglio federale, interrompendo la ratifica dell’elezione di Joe Biden. Nel pomeriggio l’edificio simbolo della più potente e celebrata democrazia al mondo è stato teatro di scontri e sparatorie, con un bilancio di quattro morti tra i manifestanti e decine di feriti tra polizia e servizi di sicurezza.

Molti hanno gridato a un vero e proprio tentativo di colpo di Stato, per altri la situazione è semplicemente sfuggita di mano al presidente uscente. “Il golpe è un’altra cosa, si fa con i militari e i carri armati – spiega Mattia Diletti, docente di scienza politica all’università ‘La Sapienza’ di Roma, che per Il Bo Live ha già commentato la recente campagna presidenziale –. Resta il fatto che quello che è accaduto ieri è uno spregio delle regole democratiche. Trump in questo frangente sembra un capobanda che non si rende conto del suo ruolo e non ha rispetto delle istituzioni democratiche. Il tutto con la connivenza dei repubblicani, che per sfruttare il suo consenso hanno pensato di usarlo come un tram ma adesso sono in difficoltà: neanche loro probabilmente immaginavano dove potesse arrivare. Poi siamo sempre sul crinale tra farsa e tragedia: nelle immagini provenienti dal Congresso riconosciamo alcuni provocatori di professione, come ne esistono in tutte le democrazie, ma anche tante persone che non sembrano rendersi conto di cosa stanno facendo, quasi fossero in un videogioco”.

Bastano però i comportamenti di Trump per spiegare quello che sta accadendo?

“In realtà la società americana è in tumulto da anni. Lo storico Michael Kazin a questo riguardo scrive da tempo di una vera e propria guerra civile che risale perlomeno agli anni ’60, incentrata sul tema della razza e della progressiva perdita di status e di centralità da parte dell’elettorato bianco. Proprio questa al momento è anche la differenza più grande tra il caso americano e gli altri sovranismi e populismi europei. Ricordiamo che sempre nella giornata di ieri per la prima volta in uno Stato tradizionalmente conservatore come la Georgia sono stati eletti un afroamericano come Raphael Warnock, un pastore che predica dallo stesso pulpito di Martin Luther King, e un intellettuale di sinistra trentenne come Jon Ossoff. La retorica dei ‘perdenti della globalizzazione’, spesso utilizzata per spiegare il fenomeno Trump, è vera solo fino a un certo punto: c’è sicuramente l’aspetto economico dell’impoverimento del ceto medio, ma esso è fortemente intrecciato a quello culturale. Soprattutto a cominciare dagli anni ’90, con il conflitto tra Clinton e Gingrich, queste dinamiche sono poi state anche esasperate e attivate dall’alto”.

Come mai tutto questo accade proprio dopo la presidenza di Obama?

“Obama con il suo moderatismo ha paradossalmente esasperato gli animi sulle questioni economiche e razziali. Molti si aspettavano che tutto cambiasse e invece non è andata esattamente così. Inoltre i giovani, che erano stati il grande motore della sua elezione, non sono stati protetti dalla crisi economica, si sono sentiti traditi e in parte si sono radicalizzati e hanno iniziato a preferire figure come Sanders. Dopo l’uccisione di Michael Brown a Ferguson nel 2014 è inoltre nato il movimento Black Lives Matter: è come se con la presidenza Obama si fosse aperto il vaso di Pandora dei disagi e delle aspettative delle minoranze, a cui però non è stata data risposta adeguata”.

Il re è nudo: adesso l’America deve occuparsi soprattutto di se stessa Mattia Diletti

A questo punto come avverrà il passaggio delle consegne con la nuova amministrazione? Crede che Trump possa essere davvero rimosso?

“Sarebbe molto complicato: ci vorrebbe un’iniziativa forte del vicepresidente Pence, che dovrebbe convincere parte del cabinet a chiedere al Congresso la destituzione del presidente. Non è mai accaduto prima: il 25° emendamento della Costituzione era stato pensato per malattie e incidenti, non certo per risolvere una questione politica. Un’altra strada è quella della neutralizzazione: isolare il presidente uscente, spingere alle dimissioni i membri del suo staff, tentare di raffreddare la situazione e intanto far confluire la guardia nazionale nella capitale. Tenere insomma Trump congelato per le prossime due settimane: che è quello che in fondo sta succedendo anche con i social (Twitter, Facebook e Instagram hanno bloccato i profili di Donald Trimp, ndr)”.

Cosa rappresenta quello che è successo ieri? Cosa rimane degli Stati Uniti come grande modello di democrazia?

“Esce sicuramente danneggiato in modo molto serio. Da questo punto di vista il re è nudo e adesso l’America deve occuparsi soprattutto di se stessa. Le élites e gli apparati governativi che già durante questa amministrazione avevano visto diminuire prestigio e influenza all’estero adesso sono ancora più isolate e consce del loro ridimensionamento. La trasformazione sociopolitica americana sarà comunque ancora lunga: non credo che si arriverà tanto presto a una riconciliazione tra le due Americhe che si sono contrapposte negli ultimi anni. Anche se Biden ha vinto il conflitto con la minoranza riottosa continuerà a lungo, così come la guerra civile non ha spento il razzismo: una volta però le vecchie élites riuscivano a trovare un compromesso con un’abilità e una scaltrezza che oggi sembrano mancare. Finirà solo quando una delle due parti prevarrà completamente, oppure quanto il partito repubblicano smetterà di essere attaccato alla vecchia America e di relegarsi al ruolo di rappresentante di una minoranza sempre più esigua, così come i democratici – prima in larga parte bianchi segregazionisti – hanno cambiato pelle a partire dagli anni ’60. Ma sono processi lunghi, che potrebbero impiegare decenni”.

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