SOCIETÀ

I rischi geopolitici delle tecnologie quantistiche

Il 3 ottobre la Commissione Europea ha pubblicato una raccomandazione a riguardo delle tecnologie considerate critiche per la sicurezza economica dell’Unione Europa. Il documento contiene una lista di 10 tecnologie e per 4 di queste è stato annunciata un’immediata valutazione di rischio: oltre ai semiconduttori avanzati, alcune biotecnologie e i sistemi di intelligenza artificiale ci sono anche le tecnologie quantistiche.

Parallelamente, nelle istituzioni europee sono in corso discussioni riguardo al Quantum Chips Act, un capitolo del più ampio Chips Act che mira a proteggere gli interessi europei sul fronte della sovranità tecnologia. L’Unione intende rendersi il meno possibile dipendente da Paesi esteri per la produzione di componenti critici per la transizione digitale, come ad esempio i semiconduttori (fabbricati in gran parte a Taiwan). All’interno di questa cornice si sta discutendo di come stabilire in Europa una catena di fornitura per l’industria delle tecnologie quantistiche, che oltre al computer quantistico includono sistemi di comunicazione, di simulazione e di sensoristica quantistica. Tutte insieme fanno parte di quella che viene chiamata seconda rivoluzione quantistica.

Tommaso Calarco è professore all’università di Colonia, direttore del Peter Grünberg Institute di Jülich in Germania e da marzo di quest’anno anche professore di fisica della materia all’università di Bologna. Ha contribuito a sviluppare la strategia europea per lo sviluppo delle tecnologie quantistiche che nel 2018 ha preso forma nella Quantum Flagship, un finanziamento di 1 miliardo di euro in 10 anni a disposizione di ricercatori e aziende.

Sabato 14 ottobre sarà ospite del Cicap Fest alle 15, in Aula Nievo a Padova, e parlerà delle opportunità e delle sfide delle tecnologie quantistiche. Il Bo Live, media partner del festival, lo ha intervistato.

Quanto sono considerate strategiche le tecnologie quantistiche?

Applaudiamo la decisione della Commissione di includerle le tecnologie quantistiche nella lista di quelle considerate strategiche dall’Europa, perché si stanno sviluppando in maniera sempre più evidente sulla scena internazionale, ci sono sempre più investimenti, sia a livello privato sia pubblico.

Tuttavia, il rischio che stiamo correndo, come accade in altri ambiti che vengono trattati dal Chips Act, come i semiconduttori, è quello di dipendere da altri Paesi, come Stati Uniti o Cina, quando si tratta ad esempio di dover acquistare l’hardware. Questo potrebbe portare a una dipendenza strategica non solo per quanto riguarda gli aspetti di sicurezza, ma anche per quelli economici. Se in futuro dovesse addirittura essere esercitata una qualche forma di controllo sull’esportazione, ci potremmo trovare in una situazione in cui non riusciremmo più ad accedere a queste tecnologie. È quindi cruciale arrivare ad avere la capacità di produrre in Europa i chip di cui stiamo parlando.

I quantum chips sono una tipologia particolare di microprocessori. La particolarità consiste nel fatto che non sono solo semiconduttori, esistono diverse piattaforme con cui si stanno sviluppando le tecnologie quantistiche. Ci sono ad esempio chip fotonici, fatti di vetro e silicio che possono codificare l’informazione in fotoni. Ci sono chip che funzionano come trappole elettromagnetiche per ioni che vengono utilizzati per la computazione quantistica. Queste ed altre piattaforme vanno al di là di quelle a semiconduttore, già coperte dal Chips Act, e vogliamo assicurarci di poterle produrre senza dipendere dall’esterno.

Già a novembre 2021 il dipartimento del commercio statunitense ha inserito alcune compagnie e laboratori cinesi che si occupano di tecnologie quantistiche in una lista di restrizione (entity list) che impedisce scambi commerciali con queste entità, ritenute in qualche misura contrarie agli interessi nazionali statunitensi. Che peso ha questa decisione?

Recentemente abbiamo visto svilupparsi due tendenze significative. La prima è l’aumento della maturità tecnologica di queste tecnologie. Sono ancora ben lontane da livelli di performance che permettano di risolvere problemi concreti o che possano avere delle applicazioni militari. Ma abbiamo indicazioni che un giorno potrebbero arrivarci e i governi vogliono arrivare preparati. Questo aspetto di per sé non dovrebbe richiedere iniziative di controllo come quella che lei ha menzionato. Dall’altro lato però stiamo assistendo negli ultimi anni a una crescente difficoltà nelle sfide multilaterali e al risorgere di dinamiche tra Stati che ricordano blocchi e rivalità.

Questo sta portando molti governi a essere attenti nei confronti dei rischi che possono derivare dalla disponibilità di queste tecnologie nelle mani di potenze considerate rivali e a considerare con occhi più prudenti i vantaggi che queste possono loro portare. La combinazione di questi aspetti sta inducendo diversi governi, non solo quello statunitense, a una stretta nei confronti della Cina, ma anche della Russia, che per ovvi motivi è al centro di queste dinamiche.

La scienza non ha confini, desidera collaborare con tutti per il progresso comune della conoscenza e le cooperazioni scientifiche coinvolgono tutti i Paesi del mondo, inclusi quelli ora sotto la lente di questi governi. La tendenza che osserviamo perciò ci rattrista come scienziati. D’altra parte c’è una consapevolezza crescente da parte di molti colleghi e anche da parte mia sul fatto che l’uso che alcuni governi fanno di queste tecnologie può essere dannoso. Non è una paranoia, è anche nell’interesse dei cittadini e della società creare delle forme di prevenzione. Ho quindi un sentimento ambivalente nei confronti di queste iniziative: da un lato ne capisco i fondamenti e ne apprezzo la valenza di protezione, dall’altro le vedo con un grande senso di tristezza perché vanno nella direzione opposta a quella che sarebbe desiderabile per il progresso di una scienza aperta.

Allo stesso tempo sono ben lungi dall’attribuire ai soli governi occidentali questa responsabilità, che è in misura almeno equivalente condivisa da quei governi che fanno del controllo e delle intercettazioni delle telecomunicazioni una forma di consolidamento del proprio potere.

È un problema che ha molte facce chiaramente e non riguarda solo le tecnologie quantistiche, ma potrebbe portarci in maniera crescente a limitazioni nella possibilità di interagire e sviluppare una cooperazione a livello mondiale tra gli scienziati.

A maggio 2022 sempre il governo statunitense ha firmato un memorandum per preparare le sue agenzie federali a far fronte a eventuali attacchi informatici da parte di futuri computer quantistici. C’è chi addirittura parla di “Q-Day”, il giorno in cui i computer quantistici saranno in grado di superare i protocolli di sicurezza informatica. Cosa ne pensa di questa espressione?

Come tutte le espressioni di tipo giornalistico possono aiutare a capire una problematica, ma sono anche accompagnate da un eccesso di semplificazioni. In questo caso possiamo certamente dire che non è qualcosa che seguirà una dinamica istantanea, come il “Q-Day” lascerebbe immaginare. Inoltre l’iniziativa da lei citata dimostra che ci saranno degli antidoti che le stesse tecnologie quantistiche saranno in grado di fornire (come ad esempio la quantum key distribution, ndr) e quindi con un computer quantistico funzionante non avremmo da un giorno all’altro il collasso della sicurezza crittografica.

D’altra parte riconosco che sia importante e sensato mettersi in allerta e aumentare la consapevolezza nella popolazione sul fatto che questi rischi esistono, che la protezione è importante e che l’ingenuità non è raccomandabile. Bisogna però stare anche attenti all’esagerazione delle aspettative, perché ricordiamo che siamo ben lontani dal realizzare dei calcolatori quantistici tolleranti agli errori che abbiano davvero la capacità di risolvere problemi così complessi come la decodifica dei protocolli crittografici di sicurezza informatica. Per fare questo ci vogliono milioni di qubit e non ci aspettiamo che questo accada prima di 10 o 15 anni. Bene porsi il problema, bene agire nei confronti del problema, è anche bene evitare esagerazioni.

La NATO ha già lanciato un programma di finanziamento che include lo sviluppo di tecnologie quantistiche. C’è il rischio di una corsa agli armamenti nello sviluppo delle tecnologie quantistiche? E quali sono le condizioni che la genererebbero e che quindi andrebbero evitate?

Certamente c’è un interesse da parte del settore militare, ma ancora il grado di sviluppo di queste tecnologie non è tale da permettere applicazioni militari a breve termine, è bene ribadirlo. Vale la pena che la società civile continui a essere vigilante, a interrogarsi e a interrogare chi prende le decisioni strategiche, a esercitare un controllo e un potere di indirizzo. Più lo sviluppo resta aperto, minore è la possibilità che queste tecnologie finiscano nelle mani di una parte degli apparati degli Stati e fuori dal controllo diretto della società civile. In questo momento non ci aspettiamo una deriva imminente. In ogni caso negli Stati Uniti ad esempio agenzie militari finanziano anche ricerca di base che non ha applicazioni immediate e che viene pubblicata su riviste internazionali. Fintanto che la ricerca, anche in tecnologie quantistiche, rimane pubblica e pubblicamente accessibile questi rischi possono venire scongiurati. Continuare a favorire la cooperazione, che è la parte migliore della ricerca scientifica, è un antidoto a ogni forma di deriva.

La speranza è quindi anche che con un’aperta collaborazione scientifica anche l’impatto delle tecnologie quantistiche vada a beneficio di una fetta della società il più ampia possibile. A volte però ci si chiede se queste tecnologie estremamente complesse non siano destinate ad avvantaggiare solo le grandi aziende con maggiore potenza di fuoco economico.

Questo è secondo me il rischio più grande di tutti, ovvero che finiscano per rendere più ricchi i ricchi e più poveri i poveri, sia a livello di industrie sia a livello di Paesi e regioni del globo. È per questo che anche il centro di ricerca di Jülich, di cui faccio parte, ha aderito a un’iniziativa di GESDA (Geneva Science and Diplomacy Anticipator) che si chiama Open Quantum Institute e che ha tra i suoi obiettivi da un lato la prevenzione degli usi negativi delle tecnologie quantistiche e dall’altro garantire un accesso il più ampio possibile e incondizionato a queste tecnologie, anche da parte di ricercatori di Paesi del sud del mondo. L’idea è anche quella di aprire l’infrastruttura europea per le comunicazioni quantistiche che stiamo preparando a utenti localizzati fuori dall’Europa, proprio per contrastare il rischio di aumento delle disuguaglianze, che ritengo molto più presente e molto più concreto di tutti gli altri.

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