SOCIETÀ

Rompere il silenzio su Gaza: le principali società scientifiche riconoscono il genocidio

Di fronte alla catastrofe palestinese il silenzio è stato quasi assordante, per mesi, da parte di molte istituzioni, università e società scientifiche. Nelle ultime settimane, qualche presa di posizione più determinata sta però arrivando. Le voci si sollevano, anche grazie alle continue richieste e pressioni da parte di singoli scienziati, ricercatori, esperti. 

Per questo è significativa la campagna STOP THE SILENCE! Academic Associations Must Recognise the Genocide in Gaza, il cui primo firmatario è Roberto de Vogli, docente del Dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione all’Università di Padova. Una campagna che ha dato un primo risultato significativo, considerato che tre delle più importanti società scientifiche (European Public Health Alliance - EPHA, European Public Health Association - EUPHA, e la World Federation of Public Health Associations - WFPHA) che rappresentano oltre 5 milioni di iscritti tra ricercatori e professionisti della salute pubblica, hanno firmato e pubblicato una dichiarazione congiunta in cui riconoscono senza più dubbi il genocidio in corso a Gaza.

E dunque, l’advocacy a volte funziona e per questo è necessario continuare a fare pressione sulle istituzioni internazionali e le organizzazioni. Lo specifica De Vogli anche in una lettera pubblicata oggi sulla rivista medico-sanitaria The Lancet, dal titolo Break the selective silence on the genocide in Gaza, insieme a Jonathan Montomoli, anestesista e medico di terapia intensiva all’Ausl Romagna, Ghassan Abu-Sittah, dell’ufficio del rettore dell’Università di Glasgow, e infine Ilan Pappé, dello European Centre for Palestine Studies, Università di Exeter.  

Da ottobre 2023, da quando Israele ha dato il via a un’operazione massiccia di devastazione a Gaza, a seguito dell’attacco terroristico di Hamas che ha ucciso oltre 1200 persone e rapite 250, di cui solo una parte rilasciata finora in vita, Roberto De Vogli ha iniziato a raccogliere le ricerche e i dati scientifici, i report e gli studi accademici che monitoravano l’evoluzione della situazione socio-sanitaria nella striscia. L’obiettivo di De Vogli è stato fin dall’inizio anche quello di studiare come si muovono le agenzie e le organizzazioni internazionali, così come gli studiosi a livello globale, per capire se si è in presenza di un genocidio e se ci sono spazi, modalità, strumenti di prevenzione. “Ho cercato di capire,” spiega a Il Bo Live, “l'ottica di realtà storiche come il Lemkin Institute, una delle agenzie degli studi sul genocidio più famose al mondo.” 

Rapahel Lemkin, avvocato attivista ebreo polacco, aveva iniziato a lavorare già negli anni ‘30 del ‘900 sui crimini di massa, particolarmente colpito dal fatto che non esistessero strumenti giuridici per condannare il massacro di un intero popolo, come nel caso dello sterminio degli armeni da parte delle autorità ottomane nel corso degli anni ‘10. Nel 1944, rifugiato negli Stati Uniti mentre gran parte della sua famiglia era stata deportata e uccisa dai nazisti, Lemkin coniò il termine genocidio, definendolo come un atto deliberato di uccisione delle persone proprio in ragione della propria appartenenza a un popolo, una nazione, un gruppo etnico, e non in quanto individui. Il Lemkin Institute oggi è uno dei punti di riferimento globali per la metodologia e gli indicatori che aiutano a definire e individuare un genocidio, ma anche per le pratiche attuabili di prevenzione dello stesso.

“Da lì ho iniziato a scrivere e a studiare il caso di Gaza.” continua De Vogli, “E a distanza di quasi due anni le prove scientifiche sono assolutamente schiaccianti sul fatto che sia in corso un genocidio. E dunque, negli ultimi mesi, abbiamo deciso di provare a far sì che ci sia una voce vigorosa e solida da parte delle associazioni di salute pubblica, quelle che hanno lo scopo precipuo di proteggere e promuovere la salute, ma anche delle altre associazioni accademiche. La salute è il risultato di molti diversi fattori sociali, economici, ambientali, politici, anche antropologici. In un certo senso è terra di nessuno ma diventa terra di tutti, proprio perché è determinata da questa costellazione di fattori”. 

De Vogli ha avviato una serie di scambi con le società scientifiche, che fino a quel momento avevano espresso posizioni molto deboli sulla situazione di Gaza e che non menzionavano in alcun modo il genocidio. Nel frattempo sono uscite diverse ricerche con indicatori e dati che non lasciano spazio a speculazione. 

Sempre su Lancet, ad esempio, a febbraio di quest’anno è stato pubblicato uno studio che mostra una riduzione catastrofica dell'aspettativa di vita a Gaza di 35 anni, la peggiore riduzione della storia recente da quando esiste un monitoraggio annuale, peggiore perfino di quella registrata durante e dopo il genocidio in Rwanda del 1994. A Gaza sono morti più bambini che in qualsiasi altro conflitto, e il tasso di bambini amputati, rispetto alla popolazione complessiva, è il più alto del mondo. Come testimoniato non solo dalle Nazioni Unite ma anche dalle organizzazioni umanitarie presenti a Gaza, ci sono stati oltre 720 attacchi documentati a infrastrutture, strutture sanitarie e ambulanze, e oltre 1400 operatori sanitari sono stati uccisi. Tutti questi dati, riportati anche nella lettera pubblicata da De Vogli e colleghi su Lancet, sono verificati da fonti e documenti puntuali. 

A questo punto, De Vogli e Montomoli hanno coinvolto oltre 50 docenti universitari, esperti di diverse discipline nel contesto degli studi sul genocidio, come Omer Bartov che ha recentemente preso una posizione molto forte proprio su questo punto,  a esperti di salute pubblica, storia, medicina, ingegneria, economia come  e molte altre discipline. I 50 firmatari hanno inviato una lettera aperta a una ventina di società scientifiche, lanciando appunto la campagna STOP the silence e chiedendo una serie di azioni e contromisure, tra cui il riconoscimento pubblico del genocidio e della reale dimensione della crisi a Gaza. Alle associazioni si chiede anche di esigere fermamente il cessate il fuoco e un massiccio intervento internazionale sotto forma di aiuti e di supporto umanitario. Ma anche l’accertamento delle responsabilità penali e il ripristino, anche con supporto e aiuti concreti,  della libertà di ricerca, insegnamento e attività scientifica a tutta la comunità di ricercatori e docenti palestinesi, promuovendo anche gli studi sulle conseguenze concrete a medio e lungo termine di questo disastro. 

In tempo di atrocità, il silenzio dei professionisti non è neutralità. È complicità e abdicazione morale Dalla lettera su Lancet di Roberto De Vogli et al.

La lettera, dicevamo, ha avuto un impatto immediato. “Dopo tre giorni” continua De Vogli, “le tre principali agenzie di salute pubblica, la European Public Health Alliance (EPHA), the European Public Health Association (EUPHA), e la World Federation of Public Health Associations (WFPHA), hanno pubblicato una dichiarazione congiunta. Contestualmente, la campagna è diventata pubblica, con oltre 3300 firmatari, una lista che si sta allungando ancora." 

La campagna arriva appunto in un momento in cui diverse istituzioni e università cominciano, anche se ancora timidamente, a prendere posizione e a esigere una cessazione del massacro. Ma perché è così difficile avere una posizione netta? 


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“Ci sono almeno tre chiavi di lettura che possiamo usare” Spiega ancora De Vogli a Il Bo Live. “La prima chiave è il mio tema principale di ricerca e studio, il meccanismo dell’empatia selettiva. E cioè la tendenza a dare priorità negli aiuti e nell’attenzione a popolazioni e persone che fanno parte della nostra cerchia, una cerchia che si forma attraverso la nazionalità o l'etnia, la religione, le alleanze politiche. È un fenomeno naturale, in parte biologico e in parte ideologico. Il caso di Gaza è il più emblematico. 17.000 bambini uccisi e non si è fatto praticamente nulla a livello internazionale. C’è il silenzio delle istituzioni, dei governi occidentali, che non sono nemmeno semplici osservatori ma veri complici che inviano armi, e contribuiscono a finanziare, peraltro con i soldi delle nostre tasse, il genocidio a Gaza.” 

Ci sono poi, continua De Vogli, ragioni di stato che impongono ai paesi occidentali una sorta di relazione speciale con lo stato di Israele, che è caposaldo della politica occidentale e di diverse azioni militari in Medio Oriente. C’è infine un terzo livello. Quello che Donatella della Porta, sociologa e scienziata politica alla Scuola Normale di Pisa e accademica dei Lincei, ha definito panico morale, tema anche di un suo libro recentemente pubblicato per Altreconomia, con il titolo di "Guerra all'antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica". 

“È l'idea che praticamente si va in ansia perché a prendere una posizione forte si rischia immediatamente di essere tacciati di antisemitismo” spiega ancora De Vogli, “È questo è chiaramente inaccettabile. L'antisemitismo c'è, è un cancro da debellare, va combattuto e sconfitto con tutte le nostre forze. È stata una piaga dell'umanità che ha generato immensa sofferenza, e ne va riconosciuto anche l'effetto a lungo termine.” L’Olocausto, continua il docente, ha creato conseguenze psicologiche collettive a livello storico che ancora oggi sono ben presenti e depositate nella psiche del popolo ebraico. 


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Allo stesso tempo però l'antisemitismo viene oggi usato come strategia per zittire gli accademici, per zittire le proteste, ma anche per zittire l'evidenza. Di fronte a dati così devastanti, come quelli che registriamo a Gaza, non c’è dubbio che l’esercito israeliano abbia colpito per uccidere anche la popolazione civile a livello collettivo e non solo per attaccare Hamas.

Come ne usciamo, quali sono le strade? La prima, ci ricorda De Vogli, è leggere leggere leggere… non procedere per schemi precostituiti, trovare i dati, leggere le analisi, le interpretazioni. A partire, per esempio, dai firmatari di questa lettera che costituiscono, nai fatti, una sorta di biblioteca di riferimento ricchissima. 

E poi una strada difficile ma ineludibile, ci spiega ancora De Vogli, è quella della cooperazione transnazionale. “ Come si affrontano gli enormi problemi globali come il cambiamento climatico o il rischio di guerra nucleare? Con la cooperazione, con la negoziazione, con il dialogo tra i paesi.” conclude infine Roberto De Vogli, “E anche con la legge internazionale che prevede la punizione per gli stati che si comportano male. Ma questo substrato geopolitico a livello macro va sostenuto da una coscienza critica dei cittadini a livello sociale e psicologico. E questa coscienza critica va promossa, nutrendo e promuovendo il contrario dell’empatia selettiva, e cioè l'empatia universale. Questa idea di universalità è uno dei capisaldi della Dichiarazione universale dei diritti umani e della cooperazione transnazionale tra i popoli. C'è un concetto in psicologia che si chiama identificazione con tutta l'umanità, non solo con la  propria comunità. È l’idea che pur salvaguardando la diversità, si cerchi di andare verso una condivisione mondiale idealistica. Credo sia l'unica strada.”

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