SOCIETÀ

La crisi in Etiopia minaccia l’Africa orientale

L’Etiopia è sull’orlo di una guerra civile: se ad alta o a bassa intensità non è ancora dato sapere, ma le avvisaglie non sono affatto buone. La regione interessata è quella del Tigrai, nel nord del Paese al confine tra Eritrea e Sudan, dove il Fronte di Liberazione del Tigrai (TPLF), il partito che reclama di aver vinto le elezioni locali (l’Etiopia è uno stato federale), è ormai in aperto conflitto con il governo centrale guidato da Abiy Ahmed Ali. Da qualche giorno il confronto non è più solo politico ma anche militare: secondo Amnesty International gli scontri avrebbero già portato a parecchi morti, forse centinaia, nella cittadina di Mai-Kadra, mentre il conflitto avrebbe provocato già oltre 10.000 profughi.

All’origine della tensione, già raccontata su Il Bo Live le scorse settimane da Andrea Gaiardoni, ci sono i complicati equilibri di uno Stato con 110 milioni di abitanti che conta almeno 80 etnie. Dal crollo nel 1991 del regime di Menghistu il potere è stato occupato per oltre 25 anni da personaggi provenienti soprattutto dal Tigrai, a partire dall’ex premier Meles Zenawi. I tigrini però sono appena il 6% della popolazione e questo ha generato per anni rabbia e risentimento negli altri gruppi etnici, in particolare gli Amara (27%) e soprattutto gli Oromo (34%). Dal suo arrivo al potere nel 2018 Abiy Ahmed, cristiano di etnia Oromo, aveva cercato di perseguire un percorso di democrazia, pacificazione (con la fine della guerra con l’Eritrea) e di riunificazione nazionale, tanto che nel 2019 gli era stato attribuito il Nobel per la pace.

Già nell’estate del 2019 però ombre di colpi di Stato avevano iniziato ad addensarsi, costringendo il premier a presentarsi in uniforme militare alla tv nazionale. “Ovunque esercitare il potere è complicato e in ultima istanza la forza militare rimane un’opzione: vale soprattutto in Africa, dove strutture statali fragili richiedono una continua negoziazione delle decisioni con molti soggetti – spiega Isabella Soi, docente di storia e istituzioni dell’Africa presso il dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’università di Cagliari –. Nel caso specifico di Abiy Ahmed, come per Obama, l’assegnazione del Nobel è stata forse un po’ affrettata per una persona che aveva appena preso il potere”.

L’Africa orientale ha fatto molti passi verso la pace e l’integrazione, ma una crisi dell'Etiopia metterebbe in discussione tutto

Adesso il pericolo è quella di un’escalation e di un allargamento del conflitto. “C’è sicuramente il rischio che la situazione in Etiopia possa destabilizzare i Paesi vicini: a cominciare dall’Eritrea, anche perché non si sa ancora quanto solida sia la pace”, prosegue la studiosa. Il TPLF è infatti nemico acerrimo del presidente eritreo Isaias Afewerki, e anzi proprio l’accordo di pace potrebbe essere una delle ragioni del malcontento delle élites tigrine. Se però Addis Abeba non fosse più in grado di assicurare la sicurezza al confine tra Eritrea e Tigrai tutto potrebbe essere rimesso in discussione. Rimane inoltre da chiarire il ruolo che giocherà il vicino Sudan, nella cui transizione democratica proprio il governo etiope stava esercitando una parte importante.

“Il problema è che un gigante come l’Etiopia, secondo Paese del continente per popolazione, può influire pesantemente non solo sul Corno d’Africa ma sull’intera parte orientale del continente, incluso il Kenya – dice Soi a Il Bo Live –. L’Africa orientale negli ultimi anni ha fatto molti passi in avanti sulla strada dell’integrazione regionale, con una rete di infrastrutture che hanno favorito la comunicazione e il commercio e che sono state finanziate soprattutto da Banca Mondiale, Unione Europea, cinesi e sudcoreani. Un sistema che fa perno sull’Etiopia, che con l’indipendenza eritrea non ha più uno sbocco al mare: per questo la destabilizzazione del Paese può scatenare un effetto domino che preoccupa i vicini, non solo quelli confinanti a nord con la regione del Tigrai”.

Secondo Soi “Il pericolo è anche quello di un’emergenza umanitaria e di una nuova massa di rifugiati, purtroppo uno dei grandi classici dell’Africa orientale: negli ultimi 30 anni ogni Stato destabilizzato ha generato un’ondata di profughi che negli anni si è sommata a quelle precedenti. Anche perché l’Africa orientale è una regione estremamente importante e allo stesso tempo fragile: qui gli equilibri si sono fatti sempre più precari negli ultimi 20 anni, anche a causa della crisi che ha coinvolto quelli che una volta erano gli Stati più stabili della regione, ovvero il Kenya e la stessa Etiopia”.


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Anche il Kenya negli ultimi anni ha conosciuto una crescita di instabilità, deflagrata nelle violenze che hanno seguito le contestate elezioni del 2007 e che ne hanno offuscato la sua immagine di Stato solido e di potenza regionale. A questo si aggiunge l’infiltrazione di gruppi jihadisti come Al-Shabaab, responsabile nel 2015 della strage nel campus di Garissa in cui morirono 150 studenti. Un quadro complesso da cui emergono nuovi protagonisti come il Ruanda e soprattutto l’Uganda di Yoweri Museveni, che con i suoi 34 anni al potere è attualmente l’uomo forte della regione. “Tutto è collegato, per questo un conflitto interno rischia di coinvolgere tutti – continua la studiosa –. L’Uganda ad esempio non confina con l’Etiopia ma ha forti interessi in Somalia, dove è stata tra i primi a intervenire nella forza di peace-keeping, tanto da divenire obiettivo di Al-Shabaab. Poi c’è anche l’Egitto, che osserva la situazione fortemente preoccupato per la nuova diga sul Nilo”.

Tutta l’area insomma è anche al centro degli interessi di vari attori internazionali: “come la Turchia, interessata al Mar Rosso in quanto chiave per la stabilità del Mediterraneo orientale, e l’Arabia Saudita, a sua volta impegnata nella sanguinosa guerra in Yemen. Basti pensare che Gibuti ha buona parte del suo territorio occupato da basi militari straniere, tra cui una italiana e la prima base cinese all’estero. Una serie di piccoli e grandi elementi che rendono il quadro complesso e potenzialmente pericoloso”.

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