SOCIETÀ

La via stretta di Joe Biden

E venne il giorno di Joe Biden, che oggi si insedia ufficialmente come 46° presidente degli Stati Uniti. Mentre Washington è stretta in misure di sicurezza eccezionali si conclude una delle transizioni più difficili della storia americana: o almeno dovrebbe, visto che Donald Trump sembra ancora tutt’altro che rassegnato alla sconfitta, pur avendo alla fine acconsentito a un passaggio pacifico dei poteri. Intanto il nuovo presidente cerca di mettere fin da subito in chiaro che alla Casa Bianca l’aria è cambiata con una serie di ordini esecutivi che nelle intenzioni dovrebbero chiudere subito l’era Trump: misure straordinarie di rilancio dell’economia, proroga dei debiti universitari, lotta alla pandemia con l’obbligo di indossare le mascherine, revisione delle direttive sull’immigrazione e revoca del Muslim ban.

La sfida del nuovo presidente si gioca però non solo nella cancellazione dell’eredità della vecchia amministrazione ma anche sulla capacità di riunire un Paese profondamente diviso: in questo potrà tornare utile la sua lunga esperienza politica, durante la quale ha saputo costruire l’immagine di un uomo ambizioso ma allo stesso tempo paziente ed empatico (come ha scritto Marc Fisher sul Washington Post). “Ha passato 36 anni al Senato, dove ha presieduto commissioni importanti come quelle sugli esteri e sulla giustizia, è stato vice di Obama e già per due volte aveva tentato la corsa per la presidenza, fermandosi però quasi subito – spiega Mario Del Pero, docente di storia internazionale e di storia della politica estera statunitense presso l’Institut d’études politiques/SciencesPo di Parigi –. Un uomo le cui ambizioni presidenziali sembravano fuori tempo massimo ma che ha saputo beneficiare del fatto che alle ultime primarie nessuno degli altri candidati democratici, alcuni dei quali di sicuro spessore, riuscisse ad essere la figura unificante per l’elettorato democratico, molto meno coeso e omogeneo sotto qualsiasi punto di vista rispetto alla controparte repubblicana”.

Intervista di Daniele Mont D'Arpizio, montaggio di Elisa Speronello

Il profilo del nuovo presidente è insomma quello di un politico moderato, ‘centrista’ per usare un termine vicino a noi, che per vincere ha saputo allearsi con la sinistra del partito. Il difficile però viene adesso, con una maggioranza molto risicata al Congresso (nonostante i due scranni senatoriali appena guadagnati in Georgia), una Corte Suprema dominata dai conservatori, 27 governatori repubblicani pronti a dare battaglia e oltre 74 milioni di persone che alle ultime elezioni hanno votato Trump, molte delle quali convinte che il nuovo presidente sia stato eletto in seguito a brogli. Secondo Del Pero “la prova del nove, come per qualsiasi governo, arriverà con la legge di bilancio, che deve essere approvata a maggioranza dalle due Camere. Per farla passare al Senato ci sarà probabilmente bisogno di qualche voto repubblicano: lì credo che la coperta sia davvero troppo corta, perché vorrà dire avere problemi con la sinistra del partito. Su temi come l’ambiente si potrà costruire facilmente un’alleanza tra le varie componenti dei Democratici, mentre sulle questioni che toccano la spesa pubblica, a partire dalla sanità, prevedo tensioni forti”.

Neanche troppo sullo sfondo resta il presidente uscente, con la sua sete di rivalsa e la sua capacità di mobilitare milioni di fedelissimi: “Donald Trump non è per nulla fuori dai giochi, e più ancora di lui è il trumpismo ad essere un’ipoteca pesante da cui il partito Repubblicano farà molta fatica a emanciparsi. Anche perché questa dovrebbe passare attraverso una trasformazione che è incompatibile con le esigenze elettorali immediate. Gli Stati Uniti sono un Paese a ciclo elettorale perpetuo, alla Camera dei rappresentanti si vota ogni due anni: un repubblicano che oggi voglia concorrere per una carica elettiva difficilmente potrà prendere una posizione critica nei confronti del presidente uscente”. Per Del Pero “Trump è un mostro uscito dal laboratorio repubblicano di cui si è perso il perso controllo, che ha offerto all’elettorato un messaggio in larga misura consolatorio, nostalgico, razzista ma allo stesso tempo potente. I repubblicani nel breve periodo non possono permettersi di ignorare Trump, ma nel medio-lungo vedono restringersi il recinto in cui si sono cacciati e non possono permettersi di diventare una minoranza sempre più piccola, rumorosa e arrabbiata”.

La questione del secondo impeachment a Trump

Intanto la settimana scorsa alla Camera dei Rappresentanti per la seconda volta è iniziata la messa in stato d’accusa del presidente uscente. Si tratta di un unicum nella storia americana, anche perché il processo potrebbe protrarsi dopo il termine dell’incarico. Per il momento infatti i Democratici sembrano intenzionati a continuare, anche se dal punto di vista giuridico non è affatto chiaro se questo sia possibile. “L’impeachment è stato creato presumibilmente ad arte per impedire a Trump di candidarsi nel 2024, come temono numerosi esponenti del Partito Democratico – spiega Stefano Luconi, che insegna storia degli Stati Uniti all’università di Padova –. Detto questo la condanna di Trump appare problematica a realizzarsi: innanzitutto dal punto di vista procedurale, visto che Trump lascia la presidenza, e in secondo luogo per i numeri. Al momento ci sono 50 senatori democratici e 50 repubblicani e per ottenere la condanna di Trump servono 67 voti. Nel voto alla Camera soltanto 10 dei 211 deputati repubblicani hanno sostenuto la messa in stato d’accusa, mentre nell’altro ramo del parlamento alcuni conteggi hanno concluso che solo 6-7 senatori Repubblicani sono disposti a condannare il presidente”.

Sugli strascichi che la vicenda potrà avere sulla credibilità dell’amministrazione entrante, anche dal punto di vista internazionale, Luconi è prudente: “Gli Stati Uniti si sono sempre proclamati la guida del mondo libero, fondando la loro posizione sul principio della democrazia elettorale, che però anche da loro ha dimostrato la sua fragilità con l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio. Da storico però ricordo anche momenti come il Watergate durante la presidenza Nixon o l’elezione di George W. Bush nel 2000, profondamente contestata per il sospetto di brogli elettorali in Florida. Alla fine gli Stati Uniti sono sempre riusciti a superare anche le crisi più profonde e ad andare avanti”.

SPECIALE Elezioni Usa 2020

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