SOCIETÀ

A 80 anni dalla Shoah: memoria pubblica e memoria scomoda

Alla fine del secolo scorso si è avviata una riflessione storiografica sul significato della persecuzione e dello sterminio degli ebrei nella storia del continente europeo. La fine dell'assetto bipolare del mondo, unita alla scoperta di nuove documentazioni e all'avvio dell'"era del testimone", hanno contribuito a produrre esiti legislativi che hanno generato nuove e inedite politiche della memoria. A distanza di un quarto di secolo, a fronte di mutamenti profondi in ambito politico, sociale e culturale, è forse possibile tratteggiare un bilancio di questa esperienza e ipotizzare prospettive plausibili e praticabili.

Ogni anno, da molti anni, in occasione del Giorno della Memoria sentiamo dire che quest’anno è diverso dagli altri, che d’ora in poi queste celebrazioni (che vengono rappresentate per lo più come inutili, retoriche e superficiali) dovranno essere ripensate. Quest’anno non sembra essere differente. Si tratta per lo più di prese di posizione che si inoltrano in quello che comunemente viene chiamato l’”uso pubblico della storia”. Nel criticare le modalità del ricordo dello sterminio degli ebrei in Europa non si entra quasi mai nei fatti della storia, ma si rivolge l’attenzione agli attori del nostro presente. Ci si chiede chi è incaricato di guidare le celebrazioni, che scopi si prefigge, si giudica se sia o meno titolato a condurre questo tipo di celebrazioni. In questa prospettiva il “testo della storia” viene trasformato nel breviario di una liturgia pubblica e si sceglie di volta in volta chi sarebbe legittimato o meno (in genere sulla base delle sue inclinazioni politiche) a fungere da grande sacerdote di quella liturgia.

Propongo di provare a porre un freno al proliferare di queste dinamiche, che tendono a riproporsi sempre uguali di anno in anno, e a ripensare alle intenzioni del legislatore che nell’anno 2000 ha prodotto la legge 211 che istituiva il Giorno della Memoria. Propongo altresì di considerare e di non disprezzare la mole di lavoro prodotto in questi decenni in termini di educazione, di attivazione di ricerche storiche, di realizzazione di eventi originali (produzioni teatrali, cinematografiche, artistiche e letterarie), identificazione e valorizzazione di spazi urbani della Memoria, realizzazione di luoghi memoriali. Un lavoro enorme, che ha amplificato a dismisura le conoscenze sugli avvenimenti connessi allo sterminio e ha prodotto una visibile svolta in termini di coscienza collettiva.

Certo, i momenti di crisi generano spesso una diffusa sensazione di sconforto. Si sente dire da più parti che il Giorno della Memoria si è dimostrato del tutto inutile, visto il riesplodere potente e visibilissimo di episodi di antisemitismo in tutto il mondo. Si tratta di uno sguardo preoccupato e in fin dei conti comprensibile. E tuttavia, credo che sia necessario ricordare che l’istituzione del Giorno della Memoria non ha un rapporto strutturale con la presenza e la diffusione dell’antisemitismo nella nostra società. In poche parole: noi non riflettiamo ogni anno sulla Shoah e sul significato che essa ha avuto nella storia dell’umanità con l’illusione che queste riflessioni possano incidere sulla dinamica profonda e complessa dell’antisemitismo. Se in passato ci siamo illusi in questo senso, temo ci si sia sbagliati. L’antisemitismo è un fenomeno, un linguaggio politico, la cui storia e dinamica è solo in parte legata alle vicende della Shoah. Di sicuro è sopravvissuto alla Shoah stessa e si muove nel nostro presente in maniera del tutto indipendente dalle riflessioni storiche che attiviamo.

Quanto poi alla constatazione che il momento di crisi che stiamo vivendo avrebbe accentuato la necessità di ripensare all’efficacia del Giorno della Memoria, vorrei sommessamente richiamare l’attenzione sul fatto che dall’anno 2000, nel quale venne approvata la legge, i momenti di crisi anche gravissima si sono susseguiti con una certa regolarità, per cui non sembra che l’eccezionalità del momento presente sia differente in maniera così radicale da esperienze simili vissute nel recente passato. Abbiamo conosciuto gli attentati dell’11 settembre 2001 con le conseguenti guerre in Afghanistan e in tutto il Medio Oriente. Abbiamo assistito alla seconda intifada che ha messo definitivamente fine agli accordi di Oslo, con l’esplosione di violenze e attentati. Sullo stesso scenario geopolitico, abbiamo visto la fine dell’occupazione israeliana a Gaza nel 2005 e la conseguente salita al potere di Hamas, e poi una guerra tra Israele e Libano nel 2006. Possiamo andare avanti così, di crisi in crisi, ricordando la crisi delle primavere arabe e la lunghissima guerra civile in Siria, allargando poi gli scenari di crisi ad altre realtà per giungere alla pandemia di Covid nel 2020 e all’esplosione nel 2022 della guerra in Ucraina. Non ci sono mancate, come vedete, situazioni di crisi, in seguito alle quali abbiamo sempre, con regolarità, assistito a un aumento della pressione di atti antisemiti unita a un crescente utilizzo della memoria della Shoah nel senso di una sua distorsione.

Quindi sì, ci troviamo anche oggi a vivere un momento di grave crisi, e sì, stiamo assistendo a una crescita importante di episodi e linguaggi antisemiti. In che modo tutto questo incida sulle forme della riflessione necessaria a proposito della Shoah è il tema che ci troviamo ad affrontare, senza tuttavia lasciarci indurre da tentazioni di rinuncia, di chiusura in sé stessi, adombrando cupi sentimenti di sconfitta collettiva. Credo si tratti di un atteggiamento sbagliato. L’effetto di questa crisi sul senso da attribuire al Giorno della Memoria e alla funzione del ricordo e della riflessione sul significato che la Shoah ha nella costruzione del futuro della nostra convivenza civile deve tenere conto di molti elementi e farne tesoro.

Il Parlamento italiano ha preso l’iniziativa (grazie al lavoro indefesso di Furio Colombo, recentemente scomparso, a cui va il nostro pensiero riconoscente) nell’ambito di quella che potremmo definire una “dinamica attiva della Memoria dello sterminio”. La ricerca storica nei decenni precedenti aveva compiuto passi veramente significativi in termini di scoperta di documentazione inedita, analisi e produzione di ricerche comparate di altissimo livello. Se resta certamente un basilare punto di riferimento il quadro teorico descritto nella monumentale opera di Raul Hilberg La distruzione degli ebrei in Europa (scritta all’inizio degli anni Sessanta e tradotta in Italia con imperdonabile ritardo solo a metà degli anni Novanta), la mole di lavoro prodotta nel frattempo era stata davvero sorprendente. Contribuivano a questo enorme sviluppo da un lato l’istituzione di centri di ricerche nei cosiddetti Holocaust Studies (studi e ricerche sulla Shoah), dall'altro la fine della guerra fredda con l’accesso agli archivi conservati nell’ex-Unione Sovietica.

In questo contesto si innestavano le riflessioni di Zygmunt Bauman (Modernità e Olocausto, Bologna 1992). Bauman coglieva il significato più profondo sul senso dei problemi relativi alla responsabilità individuale nel partecipare a un atto ingiusto e immorale come l’uccisione di civili a fronte di un ordine superiore cui si può decidere di non obbedire: “La novità più terribile rivelata dall'Olocausto e da ciò che si era appreso sui suoi esecutori – egli scrive – non era costituita dalla probabilità che qualcosa di simile potesse essere fatto a noi, ma dall'idea che fossimo noi a poterlo fare".

La riflessione di Bauman è pessimista e dirompente, direi quasi minacciosa per ogni sistema di potere, compreso quello democratico liberale occidentale. Egli identifica sostanzialmente tre pericoli ben presenti sia nella storia della Shoah, sia nelle nostre società contemporanee: "La produzione sociale della distanza, che annulla o indebolisce la pressione della responsabilità morale; la sostituzione della responsabilità tecnica a quella morale, che occulta efficacemente il significato morale dell’azione; e la tecnologia della segregazione e della separazione, che promuove l’indifferenza al destino dell’’altro’, destino che altrimenti sarebbe soggetto al giudizio morale e a una reazione moralmente motivata". Uno degli antidoti possibili (suggeriti da Bauman) potrebbe essere la molteplicità delle fonti del potere, un tema su cui i totalitarismi sembravano avere le idee molto chiare. 

Christopher Browning (Uomini comuni, Torino 1995) dava concretezza documentale alle ipotesi di Bauman studiando da storico il comportamento dei membri del Polizei-Bataillon 101, perpetratori di stragi efferate durante l’estate 1942. Uomini che non appartenevano a un reparto ideologizzato o addestrato; uomini comuni, proiettati dalla normale vita sociale urbana alle operazioni delle Einsatzgruppen in Bielorussia, Lituania, Ucraina a uccidere inermi civili, donne, bambini ed anziani.

La storiografia ha proseguito nel proporre nuove e interessanti articolazioni. Negli ultimi decenni si è sempre più sviluppato un importante e innovativo filone di ricerca legato alla grande ondata di testimonianze orali e scritte prodotte dai sopravvissuti dello sterminio dopo decenni di silenzio. A partire dagli anni ’70, infatti, la società occidentale ha dimostrato sempre maggior disponibilità all’ascolto, provocando l’apertura di un nuovo imponente fronte documentale. Dopo la realizzazione del lungo documentario Shoah realizzato dal regista Claude Lanzmann (1985) e fondato su testimonianze dirette di popolazione civile residente nei luoghi dello sterminio all’epoca del massacro, il valore della testimonianza come documento storico ha progressivamente attivato importanti riflessioni che riguardano sia la storia della Shoah, sia più in generale la disciplina storica e il suo rapporto con le fonti orali e il loro possibile utilizzo. Annette Wieviorka con il suo L’era del Testimone (Milano, 1999) e David Bidussa con il suo Dopo l’ultimo testimone (Torino, 2009) mettono sotto esame le difficoltà del nesso necessario ma problematico fra Storia e Memoria, soprattutto in relazione all’istituzionalizzazione di una memoria “pubblica” carica di retorica e di momenti celebrativi che apparentemente sminuiscono il ruolo stesso del testimone e della sua parola. Una riflessione aperta, che invita la storiografia a confrontarsi con l’imponente mole di documentazione raccolta negli ultimi anni dai nuovi, numerosi musei dedicati allo sterminio del popolo ebraico e soprattutto al progetto voluto dal regista Steven Spielberg con l’istituzione della Shoah Foundation (e, si parva licet, dalla Fondazione CDEC di Milano), che raccoglie nel mondo decine di migliaia di testimonianze filmate.

Ultimamente le nuove tecnologie hanno peraltro contribuito in maniera concreta alla diffusione di dati storici sempre più precisi, producendo fra l’altro progetti di grande respiro come la European Holocaust Research Infrastructure (EHRI) che connette fra loro decine di archivi e istituti di ricerca sulla Shoah e che si va trasformando in una infrastruttura permanente di ricerca europea. Nell’ambito di quel progetto viene ad esempio valorizzato l’archivio di Bad Arolsen in Germania, che ha digitalizzato recentemente decine di milioni di schede personali di deportati contribuendo ad arricchire come mai nel passato le nostre conoscenze sul tema.

Un’iniziativa parlamentare come l’elaborazione di una legge sulla Memoria in questo senso non avrebbe potuto avvenire – per dire – nel 1960. Mancavano le conoscenze storiche di base, non c’era disponibilità all’ascolto (le testimonianze dei sopravvissuti erano poche, non note e accolte con diffidenza), l’assetto geopolitico in due blocchi contrapposti prevedeva altre priorità.

Il contesto dell’anno 2000, finalmente, offriva l’opportunità di intervenire su questo tema con politiche culturali efficaci, frutto di una decisione politica tradotta in Parlamento con un provvedimento legislativo. Non si trattava di una dinamica solo italiana. Nel gennaio 2000 il governo svedese aveva convocato a Stoccolma un Forum internazionale sull’Olocausto che aveva prodotto la dichiarazione sulla base della quale venne istituita in seguito la International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA). Il suo testo è articolato in otto punti, molti dei quali si trovano sintetizzati nella legge italiana sul Giorno della Memoria:

1. L’Olocausto (Shoah) ha sostanzialmente sfidato i fondamenti della civiltà. Il carattere senza precedenti dell’Olocausto avrà sempre significato universale. Dopo mezzo secolo, resta ancora un evento così vicino nel tempo che ci sono ancora sopravvissuti che possono dare testimonianza degli orrori che attanagliarono il popolo ebraico. Anche la terribile sofferenza di molti milioni di altre vittime dei nazisti ha lasciato una ferita indelebile in tutta l’Europa.

2. L’ampiezza dell’Olocausto pianificato e realizzato dai nazisti deve essere impressa per sempre nella nostra memoria collettiva. Devono anche restare impressi nei nostri cuori i sacrifici disinteressati di coloro i quali sfidarono i nazisti e talvolta diedero la vita per proteggere o salvare le vittime dell’Olocausto. La profondità dell’orrore e gli apici dell’eroismo possono essere pietre angolari della nostra comprensione della capacità umana di fare il male e il bene.

3. Di fronte ad un’umanità ancora segnata dal genocidio, dalla pulizia etnica, dal razzismo, dall’antisemitismo e dalla xenofobia, la comunità internazionale condivide una responsabilità solenne nella lotta contro questi mali. Insieme dobbiamo mantenere viva la terribile verità dell’Olocausto contro coloro che la negano. Dobbiamo rafforzare l’impegno morale dei nostri popoli e quello politico dei nostri governi, per avere la certezza che le future generazioni possano comprendere le cause dell’Olocausto e riflettere sulle sue conseguenze.

4. Ci impegniamo a moltiplicare gli sforzi per promuovere l’educazione, il ricordo e la ricerca relative all’Olocausto, sia in quei nostri paesi che hanno già fatto molto, sia in quelli che hanno deciso di unirsi a questo sforzo.

5. Condividiamo l’impegno ad incoraggiare lo studio dell’Olocausto in tutte le sue dimensioni. Promuoveremo l’educazione sull’Olocausto nelle nostre scuole, nelle università, e nelle nostre comunità e la favoriremo presso altre istituzioni.

6. Condividiamo l’impegno a commemorare le vittime dell’Olocausto e ad onorare coloro che vi si opposero. Incoraggeremo nei nostri paesi forme appropriate di ricordo dell’Olocausto, inclusa la ricorrenza annuale del Giorno della Memoria.

7. Condividiamo l’impegno a far luce sui lati ancora oscuri dell’Olocausto. Compiremo tutti i passi necessari per facilitare l’apertura degli archivi, per assicurare che tutti i documenti che abbiano rilevanza siano disponibili per i ricercatori.

8. È giusto che questa conferenza internazionale, la prima importante del nuovo millennio, dichiari il suo impegno a porre i semi di un futuro migliore nel terreno di un amaro passato. Partecipiamo alla sofferenza delle vittime e ci ispiriamo alla loro lotta. Il nostro impegno deve essere quello di ricordare le vittime che sono morte, rispettare i sopravvissuti che sono ancora con noi e riaffermare l’aspirazione comune dell’umanità alla reciproca comprensione e alla giustizia.

Il testo della Legge del Giorno della Memoria ci dice questo:

LEGGE 20 luglio 2000, n. 211 - Istituzione del «Giorno della Memoria» in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti. 

Articolo 1

La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, «Giorno della Memoria», al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.

Come sappiamo, e come ci insegna Filippo Focardi che a questo tema ha dedicato di recente numerosi studi, l’approvazione di questa legge (che fu una legge condivisa, bipartisan) ha influenzato in maniera significativa la costruzione di un nuovo calendario civile, fondato su paradigmi differenti rispetto al passato, che hanno spinto a ridisegnare il nostro modo di rapportarci all’esperienza storica. Dopo l’istituzione del Giorno della Memoria è seguita quella del Giorno del Ricordo delle Foibe, e poi le giornate per il ricordo delle vittime del terrorismo, delle vittime di mafia e altre ancora. Le attività di impegno civile, le iniziative educative nelle scuole e nelle università, le celebrazioni negli spazi pubblici organizzate da amministrazioni locali e istituzioni sono da tempo cadenzate sulla base del nuovo calendario civile, ed è a seguito di ciò che noi oggi ci troviamo qui in questa sede a ragionare di Memoria dello sterminio. Qual è il concetto centrale, fondamentale, di questa dinamica? Senza dubbio è la Memoria, il Ricordo.

La scelta di questo concetto non è casuale e ha un suo perché che è proprio legato all’istituzione del Giorno della Memoria sulla Shoah. Ho già ricordato l’avvio di quella grande stagione di crescita civile che è stata denominata l’“era della testimonianza”, che ha generato nei decenni la produzione di una mole enorme di materiale. Nel nostro piccolo, noi della Fondazione CDEC raccogliamo ora il materiale prodotto da sopravvissute come Liliana Segre e Goti Bauer mentre compivano le loro attività di testimonianza. Un materiale che meriterà di essere studiato anche per indagare i mutamenti e le trasformazioni che la Memoria della Shoah ha generato negli ultimi decenni. Certo, la componente emozionale è stata in passato e rimane oggi ancora di estrema importanza, ma non si trattava dell’aspetto preminente del lavoro sulle testimonianze, che veniva condotta con il preciso intento di aggiungere allo studio storico elementi di conoscenza che altrimenti sarebbero sfuggiti ai ricercatori. Con l’avvio della grande stagione di eventi inaugurata anche in Italia con l’istituzione del Giorno della Memoria nel luglio 2000, troppo spesso però il rigore scientifico necessario all’uso corretto della testimonianza orale ha fatto posto a una sempre più visibile sacralizzazione dell’evento testimoniale, che privilegiava le emozioni alla corretta contestualizzazione storica.

Con il Giorno della Memoria, e poi a seguire con tutte le altre date di rimembranza istituite nel rinnovato calendario civile, è stata la dinamica della Memoria testimoniale quella maggiormente rappresentata e privilegiata. Si è trattato di una scelta, in parte derivata naturalmente dal contesto, in parte condotta in forma intenzionale. Il contesto era chiaro, ineludibile: dopo decenni di “silenzio” i sopravvissuti avevano ripreso in varie forme a parlare, a esprimersi, a raccontare, e la società ora si dimostrava disposta ad ascoltare, accogliendo le loro parole con benevolenza ed empatia. In passato non era stato così, ma con ogni evidenza quella che potremmo chiamare “storia della memoria” si avviava verso una profonda trasformazione, che prevedeva ora la collocazione della testimonianza al centro della riflessione sulla Shoah. È questa – credo – una delle ragioni fondamentali per cui si è voluto chiamare il 27 gennaio “Giorno della Memoria”. Si sarebbero potute privilegiare altre opzioni. Proviamo a immaginare: “Giorno di lotta alla persecuzione razzista e antisemita”? “Giorno di riflessione contro ogni forma di discriminazione razzista”? Confesso, non sono bravo a ideare neologismi, ma il senso si può ben comprendere: tentare di non focalizzare il senso e il titolo di una legge dedicata alla Shoah ponendo al centro il tema della Memoria. Una scelta che avrebbe potuto essere fatta, ma le cose andarono diversamente. Ci si mosse in una direzione diversa per due motivi di fondo, credo: da un lato era finalmente importante poter ascoltare dalla voce diretta dei sopravvissuti parole che non potevano che generare forti ed efficaci tempeste emozionali. D’altro canto, in un’epoca in cui ancora erano vive le divisioni ideologiche relative alle dinamiche storico-politiche del Secondo conflitto mondiale, l’ascolto della testimonianza umana della vittima consentiva di delegare a quell’evento l’intera attività di memorizzazione collettiva, evitando di entrare con la ricerca, l’analisi storiografica, il confronto di idee e metodologie di indagine nelle pieghe profonde degli avvenimenti storici, ancora troppo vicini e poco digeriti.

Ora, a distanza di venticinque anni da quell’anno 2000, credo sia importante ricondurre la riflessione su Shoah e Giorno della Memoria ad alcune dinamiche essenziali che vanno riconosciute.

Innanzitutto questa: lo sterminio degli ebrei in Europa è stato innanzitutto un evento storico. Aveva un suo contesto storico-politico, ha conosciuto ben precisi sviluppi e abbiamo a disposizione un’enorme quantità di documenti di svariata natura che ci raccontano la persecuzione, la deportazione e lo sterminio nei suoi risvolti generali, nei suoi aspetti particolari fino ad arrivare alla sorte dei singoli, con abbondanza di particolari la cui conoscenza deve essere patrimonio comune del nostro sistema educativo. Lo sterminio, lo ripeto, è un fatto storico.

Si deve partire da questo dato di fatto per riflettere sul peso che la Distorsione della Shoah va assumendo anche nel nostro Paese.

Il modello di trasmissione di nozioni sulla storia dello sterminio ha spesso previsto innanzitutto una descrizione del massacro corredata di numeri e immagini forti. A volte ne è derivata la costruzione (non sempre voluta, ma semplificatoria e quindi facile da comunicare) di un modello molto netto vittima/persecutore. In questo contesto le vittime sono tali innanzitutto in quanto appartenenti a gruppi di emarginati: ebrei, oppositori politici, rom e sinti, omosessuali, asociali. I persecutori, nella medesima prospettiva, sono espressione maligna di un uso estremo e non morale del potere: i nazisti e i loro collaboratori. Questo modello che descrive la realtà storica senza sfumature, in bianco opposto al nero, ha prodotto negli anni una proiezione sulla nostra contemporaneità che ha spesso generato problemi, fra cui appunto la Distorsione della Shoah.

Attenzione a questo passaggio: se nel processo di istruzione non si problematizzano le figure umane e le situazioni sociopolitiche, l’esito delle lezioni (di tutte le lezioni) di storia è sempre il medesimo, cioè la descrizione di una meta-realtà storica popolata di quelli che già altrove ho chiamato i “buonibuoni” opposti ai “cattivicattivi”. Naturalmente si tende a non insegnare storia così (per fortuna il nostro corpo insegnante è molto attento in questo senso), ma il rischio di questa deriva è sempre dietro l’angolo, e lo si vede nella nostra contemporaneità. Il modello delle vittime “pure” contrapposte ai persecutori “puri” è di grande successo, e deriva non dal mondo dell’istruzione, bensì da altri canali di informazione del tutto privi di controllo e di verifiche scientifiche. Su questo modello l’uso e l’abuso dei simboli della persecuzione antiebraica è ben più che allarmante. I gruppi che oggi si definiscono come “vittime” sono rappresentati e si sentono effettivamente perseguitati “come gli ebrei” e usano i simboli della Shoah per accreditare questa immagine. In tale contesto, i rappresentanti del “potere” (spesso descritti come “agenti di un complotto globale”) non possono che essere paragonati ai nazisti, i persecutori per eccellenza. Ed ecco prodotta la più grande delle distorsioni della Shoah, un fenomeno che rischia di azzerare le conoscenze storiche sulle dinamiche dello sterminio e di aprire la strada a una pericolosa deriva di abuso pubblico della storia, con evidenti ricadute antisemite.

Ed eccolo lì, l’utilizzo distorto delle conoscenze e della narrazione storica nella sfera pubblica e in particolare politica. Questa distorsione della storia della Shoah dovrebbe far risuonare un allarme forte e chiaro alle orecchie dei rappresentanti delle istituzioni e del mondo dell’istruzione e della comunicazione. Mai come in questi ultimi anni si è registrato un aumento nell’utilizzo di simboli e di concetti connessi alla Shoah o alle persecuzioni (ma anche all’antisemitismo in senso stretto) nella sfera pubblica e nel dibattito politico a tutti i livelli.

Il dato allarmante in questi casi mi sembra connesso a un attacco diretto e senza mediazioni alla conoscenza storica in quanto tale. Lo dicevo in precedenza: la Shoah è stata innanzitutto un evento nella storia, e come tale va conosciuto e valutato. Utilizzarne la simbologia per parodie e rappresentazioni connesse alla quotidianità politica costituisce un gravissimo danno culturale, che molto spesso si assomma a evidenti risvolti antisemitici.

Vent’anni fa nel rispondere ad alcune mie domande su Auschwitz dove era stata deportata, mia cugina Virginia Gattegno ragionava a mente lucida sui suoi ricordi. “Mi ricordo la scritta in ferro battuto – Arbeit macht frei – che mi ha accolto all’entrata del campo. Però non so se me la ricordo veramente, o se la mia è una memoria indotta”. La sua era una testimonianza “cosciente” e critica, che sondava il ricordo personale e lo rapportava alla conoscenza storica. Virginia non si faceva illusioni sulla sorte della sua testimonianza. Mi avvertiva con parole nette: “Guarda che non sto dicendo ‘quando saremo morti dovrete testimoniare voi al nostro posto’”. Non è così, mi diceva, e proseguiva: “Quando saremo morti continuate a riflettere su quello che è stato perché non accada nuovamente”. Così Virginia mi ha lasciato una sorta di messaggio in una bottiglia, mettendo al centro della sua riflessione il valore dell’umanità come unica risorsa che può aiutare nel lavoro su quella tragedia immane che fu la Shoah. Mi faceva due esempi: una donna (“veramente non sembrava una donna, quasi neppure un essere umano”, mi diceva) che a liberazione avvenuta ad Auschwitz divide spontaneamente con lei un pezzo di focaccia: “Quello fu vero eroismo da parte sua, credimi”. E poi un giovane carabiniere paracadutista, che assiste impotente alla deportazione degli ebrei nella sua isola nell’Egeo e costernato scrive una poesia in cui chiede a Dio come farà a insegnare ai suoi figli a pregare, se ha permesso che accadesse tutto questo. Virginia voleva dirmi con le sue parole che la lezione, l’”eroismo”, risiede nel salvaguardare la nostra dimensione umana, anche di fronte all’estremo. Si dice ancora oggi in Italia di un brav’uomo: “è un buon cristiano”. In ebraico si dice semplicemente un “ben Adam”, un figlio dell’uomo, un essere umano, insomma. 


SPECIALE GIORNATA DELLA MEMORIA

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