SOCIETÀ

Ritorno al futuro. Sfocato, incompleto, plurale: il mondo oltre le egemonie del pensiero

Cinquant’anni fa, i problemi che assediavano il presente e i rischi per il futuro erano già sul tavolo; si trattava di trovare un accordo comune su come fronteggiarli. A mezzo secolo di distanza, ci troviamo quasi allo stesso punto: sul tavolo ci sono gli stessi problemi e gli stessi rischi – anzi, problemi divenuti quotidianità e rischi sempre più gravi e vicini nel tempo – con ancora più evidenze scientifiche a supporto della loro realtà e con una altrettanto vasta mole di potenziali soluzioni, tecniche e politiche.

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Ascolta l'episodio 8 del podcast "Ritorno al futuro"

Quel che ancora manca, per affrontare la presente crisi socio-climatico-ambientale, è la volontà politica. È una consapevolezza ormai diffusa, eppure ci troviamo ancora ad assistere, perlopiù impotenti, a questa colpevole e concordata inazione.

Eppure, dal 1972 (anno della prima conferenza su ambiente e sviluppo, patrocinata dalle Nazioni Unite) ad oggi molto è cambiato, e gli avanzamenti sono più che evidenti: ad esempio, la crisi climatica è diventata un argomento ‘da copertina’, che – complice anche la sua sempre più pervasiva incursione nelle vite di ciascuno – è sulla bocca di tutti; la tutela dell’ambiente e delle generazioni future diventa materia legislativa, facendo il proprio ingresso persino nelle carte costituzionali; tutti i Paesi membri dell’ONU sono impegnati – se non altro, a parole – ad allinearsi su un percorso di sviluppo sostenibile.

La prima domanda che abbiamo posto a Katharine Farrell, l’ospite dell’ottava puntata del podcast “Ritorno al futuro”, è dunque una domanda di prospettiva: se i problemi sono noti, allora è giunto il momento di concentrarsi sul futuro, sul cosa possiamo fare, come dobbiamo agire.

«Prima ancora di concentrarci sugli aspetti positivi, è importante che mettiamo a fuoco come vi sia ancora molto che non va», esordisce Kate Farrell, professoressa alla Universidad del Rosario, in Colombia. «Detto questo, parlare di quel che funziona è essenziale: ad esempio, è importante riconoscere quanto organizzazioni come l’IPCC o l’IPBES siano state fondamentali per alzare l’attenzione su questi temi, portandoli fuori dai confini della comunità scientifica e rendendoli anche questioni politiche. D’altronde, è ormai chiaro quanto siano profondi i legami tra la scienza e la politica: come sostiene il filosofo tedesco Jürgen Habermas nei suoi ultimi lavori, noi esseri umani agiamo non in base alla conoscenza oggettiva che abbiamo della realtà, ma in base alla nostra interpretazione di quel che accade intorno a noi». Ecco perché bisogna prestare grande attenzione alle narrazioni: pur non plasmando direttamente la realtà, che ha certamente una sua oggettività intrinseca, esse sono in grado di modificare il modo in cui noi umani ci muoviamo in essa, alterandola con le nostre scelte e le nostre azioni.

Homo irrationalis

Per di più, come Kahneman e Tversky hanno mostrato nel loro ben noto saggio “Pensieri lenti e veloci”, noi umani non siamo macchine che compiono decisioni e agiscono sempre in modo ottimale, sulla base delle informazioni oggettive a disposizione. La nostra mente è invece un intrico di stratificazioni evolutive che sono spesso all’origine di pregiudizi e limitazioni di ogni genere. Come raccontano gli studiosi in questo saggio, nelle nostre menti va in scena un dramma avvincente, la cui trama si snoda tra due personaggi principali: il “Sistema 1”, impulsivo, automatico e intuitivo, e il “Sistema 2”, razionale, deliberativo e calcolatore. Mentre giocano l'uno contro l'altro, le loro interazioni determinano il modo in cui pensiamo, formuliamo giudizi e agiamo.

«Secondo il filosofo della scienza Daniel Dennett, la coscienza è una proprietà emergente, che emerge – appunto – nel momento in cui, venuti a contatto con la realtà, mettiamo in atto un processo di deliberata riduzione della complessità», spiega Farrell. «In breve, il mondo esterno mi invia più segnali (o segnali più complessi) di quanto io sia in grado di ‘processare’. Di fronte a questa difficoltà, la mente umana tende ad adottare due strategie: o raggruppa questi segnali in modo non efficiente, oppure ne elimina alcuni, rischiando in tal modo di scartare qualcosa di importante. Il punto è che usare la nostra mente per provare a capire come essa stessa funzioni potrebbe non rivelarsi una strategia vincente: insomma, potremmo trovarci intrappolati nei nostri stessi limiti.

Tuttavia, una volta presa coscienza di questi confini, possiamo comunque ottenere scoperte interessanti. Un’altra studiosa, Mary Clarke, biologa, sottolinea ad esempio come la nostra specie si sia evoluta in strutture sociali composte da piccoli gruppi di individui: la nostra capacità di riconoscere l’altro come soggetto morale e di provare empatia nei suoi confronti è intimamente legata a questa configurazione sociale ‘primitiva’, che presuppone la conoscenza diretta e personale dell’altro. E poiché l’empatia e il riconoscimento dell’altro come entità morale sono, a mio parere, essenziali per agire responsabilmente nella dimensione politica, dovremmo forse iniziare a immaginare una struttura sociale più incentrata sul federalismo, cioè una rete di piccole comunità nelle quali è più facile ‘processare i segnali’ e, di conseguenza, agire in modo responsabile».

Venire a patti con il leone

Eppure, la crisi che stiamo vivendo – in primo luogo, il disastro climatico che si srotola ormai sotto i nostri occhi – ha una natura eminentemente globale, che non rispetta certo i limiti cognitivi che sono eredità della nostra storia evolutiva, né si preoccupa del fatto che le specie che si estingueranno nel corso dell’attuale crisi biologica fossero considerate o meno entità morali da noi umani. Sembra una strada senza uscita, un’impasse insormontabile.

«Sono fermamente convinta – afferma Farrell, con realismo – che l’essere umano sia capace di immedesimarsi soltanto nella prospettiva di un suo simile: non sarei mai in grado, ad esempio, di mettermi nei panni di un leone. La mia relazione morale con un essere vivente che è così diverso da me è necessariamente del tutto diversa dal mio rapporto con un altro essere umano, e questo perché non posso nemmeno immaginare cosa significhi essere un leone. Inoltre, un’etica comune implica norme condivise: ma quali norme potrei mai condividere con un grande predatore che, obbedendo, in un certo senso, alle proprie leggi, mi divorerebbe qualora ne avesse occasione?

Ciò non esclude che io, come essere morale, abbia dei doveri anche verso chi è così diverso da me: ho il dovere di non infliggere un dolore irragionevole, di non violare l’integrità individuale, ho il dovere della cura. Tali regole possono essere applicate a un ‘cerchio morale’ ben più ampio di quello della propria ristretta comunità, e segnano una decisa separazione dall’etica maschilista, così diffusa in Europa, che vorrebbe imporre le stesse regole ad ognuno».

Guardare in prospettiva

Ciò di cui abbiamo bisogno, e per cui è giunto il momento di impegnarsi, è riconoscere la modularità complessa che caratterizza la realtà nella quale viviamo. «Il modello ‘industrialistico’ occidentale di produzione della conoscenza scientifica, ad esempio, non è una necessità naturale, ma il prodotto di una precisa temperie culturale: riconoscere tale evidenza ci permette di guardare con maggiore obiettività all’influenza che questa forma di conoscenza esercita sul nostro modo di interpretare e relazionarci con la realtà», illustra la professoressa. Eppure, nonostante sia oggi dominante, questa non è l’unica modalità esistente per entrare in relazione con il mondo: «Solo di recente stiamo riscoprendo l’immensa cultura dei popoli indigeni, che si sono tramandati per millenni un corpus di conoscenze non solo comparabile con la scienza moderna occidentale, ma anche compatibile con essa».

Non ignorare questa pluralità consente di adottare una prospettiva più completa, che riconosce i legami tra costruzione scientifica del mondo e determinanti politiche di quel modo di guardare al reale. «Il capitalismo industriale ne è un esempio perfetto. Qui tecnica e politica, scienza e governo si sono fusi: nella società moderna europea vi è una chiara unione tra la produzione di conoscenza scientifica e lo sfruttamento materiale del pianeta e delle sue risorse. Non si tratta di emettere un giudizio di valore, ma di essere consci dell’esistenza di questo processo storico».

«Ma acquisire questa consapevolezza è solo un primo passo», ammonisce Farrell. Una volta acquisita, infatti, tale conoscenza impone un dovere morale: davvero, una volta compresa l’entità di queste dinamiche, possiamo accettare di non fare qualcosa per cambiarle? «Si tratta, perciò, di abbracciare un nuovo punto di vista: prendere atto che vi sono molti altri modi per generare conoscenze, e molti altri modi per classificare e categorizzare la realtà e le sue componenti. Si tratta di adottare una prospettiva più ‘confusa’, dai contorni meno delineati: sembra strano, ma credo possa essere un ottimo punto di partenza».

Un punto di partenza che permette di contestare le strutture – culturali, conoscitive, sociali, politiche – che fino a questo momento abbiamo accettato come semplicemente ‘normali’. In realtà sono, in qualche modo, strutture di potere, la cui affermazione ha silenziato tutte le alternative esistenti, divenute improvvisamente minoritarie, e dunque private di un’eguale dignità. L’etica maschilista a cui si accennava non implica soltanto – come il nome suggerirebbe – una svalutazione del sesso femminile rispetto alla controparte maschile; l’operazione epistemologica consiste nel creare dicotomie nelle quali vi è sempre una parte ‘vincente’ e una ‘perdente’. Può essere la scienza moderna contro le conoscenze tradizionali, l’uomo contro la donna, l’essere umano contro la natura: il meccanismo posto in essere è sempre lo stesso.

La complessità del mondo, dove tutto è interconnesso, non può o non deve essere quindi ridotta alla sola dimensione economica, e livellata alla visione semplificata che vede il profitto come unica motivazione. Inoltre, come insegnava Gramsci, teoria e prassi sono inseparabili; piuttosto, è necessario l’impegno attivo di ognuno sia per capire il mondo che per cambiarlo in modo consapevole e condiviso. Cosa fare, dunque, per scardinare l’egemonia economica e culturale nella quale siamo immersi? Secondo Farrell, la strada è ben tracciata: impegnarsi in modo propositivo per far sì che le dicotomie vengano appianate, e lavorare per diffondere una visione del mondo basata non sui dualismi, ma sulla parità; non sull’omologazione, ma sulla pluralità.


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