SOCIETÀ

Ritorno al futuro. Affrontare le sfide globali attraverso il pluralismo

Che ogni aspetto della nostra esistenza dipenda, in modo diretto o indiretto, dagli ecosistemi è innegabile. È precisamente per questo motivo che il cambiamento climatico e la crisi ecologica ad esso correlata sono una minaccia per la nostra specie: perché riducono la disponibilità di risorse e modificano le condizioni del mondo naturale da cui, per millenni, è dipeso non solo il sostentamento, ma anche il crescente benessere degli umani.

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È ancora per questo motivo che tra esperti e decisori politici si è progressivamente diffuso, negli ultimi anni, un approccio di gestione dell’emergenza ambientale fondato proprio sul riconoscimento del nostro diretto legame con il mondo non umano. Fanno parte di questa strategia le cosiddette ‘soluzioni basate sulla natura’ e il sistema valutativo imperniato sui ‘servizi ecosistemici’, che consiste nella quantificazione e nell’analisi, il più possibile oggettiva, dei benefici che gli umani traggono dal mondo naturale.

Quest’ultimo metodo, in particolare, ha incontrato recentemente una grande popolarità. Nella maggior parte dei casi, la sua realizzazione consiste nel quantificare in termini monetari i benefici diretti e indiretti che le nostre società traggono dalla natura, così da avere una valutazione di eventuali costi e perdite che sia basata su un’unità di misura omogenea e condivisa.

Per comprendere quali siano i punti di forza e quali le debolezze di questa impostazione, è utile dapprima ripercorrerne la genesi. Come ricorda Erik Gomez-Baggethun, professore di Environmental Governance alla Norwegian University of the Life Sciences e presidente, fino al 2021, della ESEE (European Society of Ecological Economics), «l’enfasi posta sul concetto di servizi ecosistemici dipende in primo luogo dal fatto che viviamo in una società e in un’economia dominate dai mercati, nelle quali il denaro è il fattore primario in molti processi decisionali. L’idea di assegnare un valore monetario alla natura (sotto forma di servizi ecosistemici) è nata dalla considerazione, sostenuta da diversi ambientalisti, secondo la quale il mancato riconoscimento dell’importanza del mondo naturale dipenda dal fatto che diamo per scontati i servizi e i benefici che esso garantisce in maniera costante. Si è dunque ritenuto che quantificando questi benefici in termini monetari sarebbe stato più facile riconoscere il prezzo nascosto di un’eventuale perdita di quegli stessi benefici, e di conseguenza prendere decisioni più lungimiranti in tal senso».

Non tutto è bianco o nero, però. Da subito, infatti, sono risultati evidenti i limiti di un simile approccio: primo fra tutti, la difficoltà di ridurre elementi estremamente eterogenei tra loro (risorse naturali, processi ecosistemici, persino benefici psicologici o piaceri estetici) a un’unica unità di misura, quella monetaria. Una simile operazione implica, per forza di cose, un imponente sforzo di semplificazione e di riduzione delle differenze esistenti; uno sforzo che, tuttavia, porta a un impoverimento e restituisce un risultato inevitabilmente parziale della realtà che si vuole studiare (o addirittura proteggere). Le logiche di mercato, infatti, sono processi che portano alla degradazione dei valori morali che motivano le nostre scelte, se applicati in modo indiscriminato ad ogni problematica sociale e ambientale.

«L’economia ecologica sottolinea da sempre l’importanza del pluralismo», sottolinea Gomez-Baggethun. «Mentre, soprattutto negli anni ’90 e nei primi 2000, la ricerca nell’ambito dei servizi ecosistemici è stata largamente dominata dall’approccio che dava rilievo solo al valore monetario, oggi la situazione sta cambiando. Il concetto di pluralità di valori, persino di incommensurabilità tra questi, è un elemento fondamentale nei dibattiti sul tema: è oggi diffusamente riconosciuto il fatto che non esista una singola unità di misura in grado di racchiudere in sé, in modo significativo, tutti i valori attribuiti al mondo naturale. Cercare di traslare in termini monetari i valori simbolici, culturali, estetici o spirituali che le persone associano alla natura implica una rinuncia a riconoscere e dar credito a tutti i modi in cui le persone attribuiscono significato e importanza agli elementi naturali».

Eppure, proprio l’incommensurabilità tra valori estremamente differenti gli uni dagli altri rischia di essere un freno per le politiche di tutela: come trovare elementi di comunanza tra il prezzo del legno sul mercato internazionale, la regolazione globale del ciclo dell’acqua e le pratiche religiose legate alla natura dei popoli indigeni dell’Amazzonia? Dare un prezzo ai servizi ecosistemici dovrebbe essere solo uno dei modi – per quanto imperfetto e parziale – per ricondurre questioni molto diverse tra loro su un piano comune, punto di partenza essenziale per qualsiasi valutazione che debba poi sfociare in una decisione politica.

Come ricorda il professore, è esattamente questo l’argomento addotto dai fautori della valutazione monetaria dei servizi ecosistemici: «Molti sostengono questo approccio a partire da una posizione di pragmatismo: sostengono, cioè, che i soldi siano l’unità di valuta più immediata e più comprensibile sia per le persone comuni che, chiaramente, anche per i decisori politici. Rimane però un problema: per quanto siano nobili le intenzioni che potrebbero spingerci ad applicare un prezzo agli elementi o ai processi naturali, è proprio questo gesto a causare la mercificazione di quegli stessi elementi naturali che si vogliono preservare, inserendoli inevitabilmente in un’ottica di mercato, all’interno della quale è possibile, almeno in linea di principio, che vengano venduti o scambiati con altri beni. Questa soluzione si rivela perciò controproducente – diventa, anzi, parte del problema».

La prospettiva dell’economia ecologica, che propone di non ignorare la pluralità di valori che emergono dalla valutazione della natura, non porta però necessariamente a una impasse, secondo il professore. Oltre all’approccio basato sui servizi ecosistemici vi sono altri strumenti che possono fornire un valido supporto ai processi decisionali, pur senza incorrere nel riduzionismo. «Ad esempio, esiste la cosiddetta ‘analisi multicriteriale’, la quale può esplicarsi su un terreno squisitamente tecnico oppure coinvolgere le persone attraverso processi partecipativi, nei quali i diversi portatori d’interesse vengono invitati a esprimere e attribuire un peso ai diversi valori all’interno del processo decisionale. Vi sono poi i processi deliberativi, in cui si cerca di favorire l’incontro tra persone diverse e la discussione sui diversi valori che ognuno attribuisce al mondo naturale. Seppur meno immediate, anche queste modalità forniscono alla politica importanti strumenti decisionali, offrendo loro la possibilità di confrontare le informazioni disponibili in vista della decisione definitiva».

L’approccio che riconosce l’esistenza di una pluralità di valori e fonda i processi decisionali sulla partecipazione attiva e la discussione condivisa può risultare particolarmente faticoso e difficile da applicare quando i problemi da affrontare si esplicano non ad un livello locale, ma su scala transnazionale o, addirittura, nel contesto globale. E tale evenienza non rappresenta una situazione limite, ma una realtà sempre più comune, se consideriamo i rapidi cambiamenti ecologici ai quali il mondo sta assistendo. Come far funzionare, dunque, questa prospettiva pluralista anche in un contesto così dilatato?

«Questo è effettivamente un punto critico», riconosce Gomez-Baggethun. «Credo che in questo momento storico ci troviamo in un punto di stallo, nel quale viviamo un’asimmetria tra la scala globale dei cambiamenti ambientali e la sfera d’influenza – ben più ristretta – dei processi decisionali. Di fronte a problemi dalla portata inedita, ci troviamo a fare affidamento su sistemi istituzionali ancora basati sullo stato nazionale, incapaci di incidere su processi che riguardano l’intera comunità globale, come il cambiamento climatico o la perdita di biodiversità. Istituzioni transnazionali come le Nazioni Unite sarebbero capaci, in linea teorica, di prendere decisioni e compiere scelte politiche con un’efficacia così vasta; eppure il loro modus operandi, basato su accordi non vincolanti, si è rivelato impotente.

Alla luce della situazione attuale, si comprende perché molti ambientalisti affermino che dovremmo iniziare a pensare non come nazioni autonome, ma come una unica specie. E questo, credo, avrebbe una chiara conseguenza: a un certo punto, gli stati dovrebbero abdicare ad una parte della propria sovranità in favore di organismi transnazionali in grado di prendere decisioni valide su scala globale. Ma sarebbe un passo difficile e controverso, con conseguenze imprevedibili, e che per di più non garantirebbe la giustezza delle decisioni prese a livello sovranazionale».

Ancora una volta, scopriamo che per problemi complessi non esiste una risposta semplice. Ancora una volta, la presenza di un problema comune non garantisce unanimità né nell’interpretazione, né – tanto meno – nella gestione dello stesso. Eppure, nonostante i molti ostacoli che ancora ci separano dall’istituzione di un fronte comune (di specie) per affrontare le sfide ambientali che si stagliano davanti a noi, Gomez-Baggethun aggiunge un ulteriore tassello di complessità: «Per realizzare un vero cambio di passo, dovremmo mettere in discussione anche il concetto stesso di ‘servizio ecosistemico’. Questo, a ben guardare, è fallato da una prospettiva fortemente antropocentrica, che descrive la natura come fonte unilaterale di servizi per gli esseri umani, che ripropone la dicotomia uomo-natura senza considerare il rapporto di interdipendenza e reciprocità che invece lega queste due realtà. Manteniamo dunque questa cornice teorica come utile strumento per i decisori politici, ma iniziamo anche a guardare oltre: sono sempre meno convinto che questa cornice teorica sia d’aiuto per comprendere la complessità dei rapporti tra noi umani e il resto del mondo naturale».


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