SOCIETÀ

Ritorno al futuro. Il caso dei ‘waste pickers’

Passeggiando nelle città italiane, molti di noi si saranno imbattuti, almeno una volta, in persone che si aggirano tra i rifiuti, selezionandone alcuni e portandoli con sé. Si tratta di un’attività meno infrequente di quanto si possa credere, e diffusa pressoché in ogni parte del mondo. Per alcuni è un vero e proprio mestiere, e per coloro che lo praticano è, solitamente, l’unica fonte di sussistenza. Si chiama ‘waste picking’, e nella gran parte dei casi rimane un’attività che fa parte della cosiddetta economia informale, cioè non riconosciuta sul piano legale.

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L’attività consiste essenzialmente nel selezionare, all’interno dell’enorme mole di rifiuti prodotti quotidianamente in ambiente urbano, i materiali riciclabili, prelevarli, dividerli per tipologia e rivenderli a figure che si occuperanno dell’effettivo riciclaggio dell’oggetto. Un lavoro, dunque, in tutto e per tutto simile – ad una prima apparenza – a quello degli operatori ecologici e, più in generale, delle aziende che si occupano, per conto dei comuni, della gestione e dello smaltimento dei rifiuti. Vi è un’unica, grande differenza: quest’ultimo è riconosciuto legalmente; quello informale dei waste pickers, invece, no.

Come spiega Federico Demaria, docente di economia ecologica ed ecologia politica all’Università Autonoma di Barcellona, «il fatto che queste persone operino in un contesto completamente informale significa che non hanno alcuna tutela, né dal punto di vista della salute, né sul piano economico». Quasi ovunque, inoltre, a svolgere un lavoro così degradante sono le comunità più marginalizzate all’interno del tessuto sociale: «In India, ad esempio, a raccogliere rifiuti sono le caste che si trovano alla base della piramide sociale; in diverse nazioni, il lavoro è svolto dai membri di popoli indigeni che si spostano dalle campagne alle città; in molti casi, tocca a minoranze etniche o religiose – come avviene in Egitto, dove questa attività è riservata ai copti.

«Non sappiamo con certezza – prosegue Demaria – quante persone, attualmente, svolgano il lavoro di waste pickers. Secondo la Banca Mondiale, si tratta circa dell’1% della popolazione urbana globale: un dato che, seguendo le stime della International Labour Organization, corrisponderebbe a circa 20-25 milioni di persone in tutto il mondo». Come se più di un terzo dell’intera popolazione italiana traesse di che vivere dallo smistamento (informale, quindi senza alcuna tutela igienico-sanitaria) e dalla vendita dei rifiuti altrui.

Ma quel che impressiona è che di questo ampio bacino di persone si sa veramente poco: il motivo è la loro invisibilità, dovuta alla scelta obbligata di vivere ai margini della società, sopravvivendo grazie a quel che gli altri hanno usato e scartato. Sono le istituzioni locali, in primo luogo, ad avere in carico la gestione dei rifiuti: ecco perché è loro il compito di avere (o meno) a che fare con i waste pickers. Ma gli approcci non sono sempre dei migliori, come delinea Demaria: «È ancora la Banca Mondiale a tratteggiare il quadro degli atteggiamenti che le istituzioni locali adottano più spesso nei confronti di queste persone: a volte, semplicemente, ne trascurano l’esistenza; in altri casi, addirittura, li perseguitano attivamente; in alcune occasioni, invece, vengono messe in atto politiche vòlte a supportarne l’integrazione formale all’interno dell’economia locale. In alcune aree, soprattutto in America Latina, i waste pickers sono riusciti a darsi un’organizzazione, costituendo associazioni o sindacati: questo permette loro di unirsi per lottare per i propri diritti, e in alcuni casi di ottenere netti miglioramenti».

L’esistenza dei waste pickers è paradigmatica delle contraddizioni che caratterizzano il nostro sistema socioeconomico. «Oggi si parla moltissimo di economia circolare: finalmente si inizia a comprendere che l’economia dei paesi industrializzati, basata su un modello lineare, sia insostenibile dal punto di vista ambientale. Eppure, rimane totalmente assente dal discorso pubblico la dimensione sociale e politica di questa configurazione economica: l’esistenza stessa dei waste pickers ne è un esempio lampante. Si tratta di milioni di persone che, a ben guardare, svolgono una professione ‘verde’ – perché mettono chiaramente in atto i principi dell’economia circolare – e che, nonostante ciò, vengono totalmente ignorate. Al contrario, sarebbe logico prestare alla loro attività la dovuta importanza e, inoltre, migliorare le loro condizioni lavorative e di vita: fornendo loro la possibilità di lavorare in condizioni migliori, infatti, non solo si affronterebbe una questione sociale che, seppur silente, coinvolge decine di milioni di persone e le loro famiglie, ma si potrebbero anche aumentare i benefici ambientali che quell’attività garantisce all’intera società».

Affrontare la questione dei waste pickers adottando la prospettiva dell’economia ecologica permette di mettere a fuoco i due grandi temi sollevati da tale situazione: la questione sociale e quella ambientale. «In questo caso, i due obiettivi sono chiaramente interconnessi: riconoscere il valore di questo lavoro garantirebbe ai waste pickers un maggiore riconoscimento, e dunque aprirebbe la possibilità di un miglioramento delle loro condizioni di vita. Ciò non implica da parte mia – precisa Demaria – avallare l’esistenza di questo lavoro. Sono gli stessi waste pickers a riconoscere la mancanza di dignità che questa attività comporta: ad esempio, fanno di tutto perché i loro figli non debbano dedicarsi a questa attività. Eppure, finché la società non sarà in grado di offrire loro un’alternativa, la scelta migliore è cercare di lavorare sull’esistente, agendo perché a queste persone si aprano maggiori opportunità».

Uno dei modi possibili è riconoscere, a livello locale, il lavoro svolto dai waste pickers e fornire loro, ad esempio, un contratto di lavoro e un compenso pecuniario, che potrebbe essere calcolato a partire da una stima del beneficio ambientale che le loro attività di riciclaggio apportano all’intera comunità. «Applicando gli strumenti dell’economia ecologica, possiamo valutare l’impatto del loro lavoro non solo in termini monetari, ma anche in termini di flussi di materia ed energia: ad esempio, possiamo calcolare quanta acqua e quanta energia vengono risparmiate quando vengono sottratti all’incenerimento 100 kg di materiale.

L’idea che dovrebbe guidare un simile approccio è, da una parte, una vera e propria assunzione di responsabilità, da parte dell’intera società, per i rifiuti che essa genera, e dall’altra il riconoscimento dell’importanza del lavoro svolto da coloro che si occupano di gestire e smaltire – in modo formale o meno – questi rifiuti».

Tuttavia, afferma ancora Demaria, che ha studiato a lungo sul campo questo fenomeno, in molti casi vediamo una tendenza che va nella direzione opposta al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei waste pickers, e che, al contrario, si muove verso un ulteriore peggioramento della situazione. «In molti casi, il peggioramento delle condizioni di vita dei waste pickers è legato a processi di privatizzazione e all’introduzione di nuove tecnologie, come l’incenerimento. Collaborando con l’Environmental Justice Atlas, ho riscontrato la presenza di più di 70 conflitti nel mondo che coinvolgono questa categoria di lavoratori: stiamo assistendo, in tempo reale, a un progressivo deterioramento delle loro condizioni. Credo che questo si verifichi, almeno in parte, a causa del fatto che le istituzioni locali siano spesso sottoposte alla pressioni di lobby dei rifiuti che non traggono alcun profitto dal riciclaggio, e che dunque cercano di scoraggiarne l’implementazione».

Finora abbiamo parlato soprattutto di ‘Sud globale’, l’insieme dei Paesi considerati oggi in via di sviluppo; ma bisogna ricordare che i waste pickers sono largamente presenti – seppur, forse, ancora più invisibili e marginalizzati – anche nel cosiddetto ‘Nord globale’. «L’esistenza di simili occupazioni è strettamente connessa alla presenza di disuguaglianze all’interno della società. Anche nei paesi industrializzati, come ad esempio l’Europa, questa attività è ‘riservata’ alle comunità che vivono ai margini della società, come i Rom. In alcuni casi, potremmo addirittura ipotizzare l’esistenza di una forma di razzismo ambientale, nei confronti di questa ed altre comunità minoritarie».

Pur riconoscendo la portata storica di questo fenomeno, Demaria ritiene essenziale soprattutto concentrarsi sul presente: «Abbiamo visto un deciso aumento dei waste pickers nel Nord globale dopo la grave crisi finanziaria del 2008. Poiché oggi stiamo entrando in un nuovo periodo di recessione, è ragionevole aspettarsi che le persone attive in questo tipo di pratiche informali aumenterà nuovamente. Credo che il riciclaggio informale sia parte del futuro, non del passato: l’aumento dei prezzi e la ridotta disponibilità di risorse naturali, uniti a un aumento delle diseguaglianze, sono la ricetta perfetta per l’ingresso di un numero crescente di persone nel mondo del riciclaggio informale», con tutte le conseguenze in termini sociali, economici e di salute che questo comporta.

La soluzione, seppur parziale, per ridurre i sacrifici a cui queste persone devono piegarsi per poter sopravvivere esiste, e passa in primo luogo tramite il riconoscimento della loro esistenza e del loro ruolo sociale. Inserirli nell’economia ‘formale’, fornire loro un contratto di lavoro e condizioni dignitose, dovrebbero essere misure universalmente adottate. In alcuni luoghi – soprattutto, ancora una volta, in America Latina – i waste pickers, organizzandosi dal basso, sono riusciti ad ottenere simili concessioni, ricevendo in alcuni casi strumenti di lavoro adeguati, mezzi di trasporto, luoghi per lo stoccaggio dei rifiuti raccolti. Non è abbastanza, certo, ma è un primo passo per rendere accettabile e minimamente dignitosa una posizione sociale che, se completamente misconosciuta, viene vissuta come inutilmente umiliante. Ancora una volta, l’economia ecologica offre un impianto paradigmatico in grado di affrontare le questioni del nostro tempo non considerandone unicamente la dimensione economica e monetaria, ma problematizzandoli e trasformandoli in una questione politica.


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