SOCIETÀ

Ritorno al futuro. L’ambientalismo è una questione sociale

Noi umani non viviamo isolati, ma immersi in un ambiente; non siamo autonomi, ma dipendiamo dalle risorse e dai servizi che la natura ci offre. È per via di questo vincolo che è impossibile tracciare una netta distinzione tra ‘umano’ e ‘non-umano’, tra sociale e ambientale: queste dimensioni si intersecano e si influenzano a vicenda, costantemente.

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Ascolta la settima puntata del podcast "Ritorno al futuro"

Prendere consapevolezza di questo legame significa riconoscere l’interdipendenza tra le dimensioni ambientale e sociale, inevitabilmente vincolate l’una all’altra all’interno di un unico ‘metabolismo’, che consiste nello scambio continuo di materia ed energia con l’ambiente e nella trasformazione di queste risorse in servizi finalizzati – almeno in teoria – ad aumentare il benessere collettivo, per poi restituirle alll’ambiente sotto forma di scarti (e rifiuti). Quando, però, lo sfruttamento e la distribuzione delle risorse tra gli esseri umani sono ineguali, siamo di fronte a un’ingiustizia: è proprio quanto accade nell’attuale struttura dell’economia globale, nella quale prende forma uno scambio ecologicamente ineguale. Questo concetto descrive lo sbilanciamento esistente tra Paesi ricchi e poveri non solo nell’accesso alle risorse e nella loro distribuzione, ma anche nel fardello di degradazione ambientale subìto da questi ultimi, che è causato in larghissima parte dalle attività necessarie a mantenere un livello di benessere riservato ad una ristretta parte della popolazione mondiale.

Tale situazione è una questione né soltanto economica, né soltanto ambientale, ma è piuttosto un problema legato all’iniqua distribuzione del potere nella società globale odierna – è, perciò, una questione eminentemente politica. Di questi rapporti, spesso poco visibili, tra economia, ecologia e potere si occupa, per l’appunto, l’ecologia politica, una disciplina fondata tra gli anni ’70 e gli anni ’80 dello scorso secolo, che si pone all’intersezione tra fattori economici, sociali e politici osservando la loro intersezione con i cambiamenti ambientali (di origine naturale oppure antropica). «Uno dei libri più influenti durante quei primi anni di teorizzazione della disciplina fu “Land Degradation and Society”, di Piers Blaikie e Harold Bookfield: i due, geografi di formazione, applicando la cornice dell’ecologia politica affrontarono il tema del perché la gestione del territorio sia così spesso fallimentare nell’evitare problemi come l’erosione, la degradazione, la salinizzazione. La loro risposta fu determinante: bisognava riconoscere, infatti, la pluralità di elementi – sociali, di governance, economici, ecologici – che concorrono all’emersione di un fenomeno come la degradazione di un ambiente, e soprattutto non trascurare la complessità delle interazioni tra questi elementi. Da quel momento, la ricerca in questo campo si è estesa a vista d’occhio. Dal mio punto di vista, l’ecologia politica può essere definita come una disciplina che studia i conflitti ambientali per le risorse naturali». A parlare è Joan Martinez-Alier, un’autorità nel mondo dell’economia ecologica e dell’ecologia politica. Martinez-Alier, professore emerito all’università Autonoma di Barcellona, è stato insignito, nel 2020, del premio Balzan, per aver fornito «un contributo fondamentale alla fondazione dell’economia ecologica come campo di studio interdisciplinare dedicato alla normazione dell’attività economica in un modo che promuove il benessere dell’essere umano, la sostenibilità e la giustizia».

«Il legame tra ecologica politica ed economia ecologica è chiaro», prosegue Martinez-Alier, «e può essere localizzato nell’analisi del metabolismo sociale. Di tutta l’energia e i materiali che consumiamo, la maggior parte è persa dopo il primo utilizzo: l’energia, come la seconda legge della termodinamica insegna, viene irreversibilmente dissipata; i materiali, invece, vengono riciclati soltanto in minima parte, per via degli alti costi in termini monetari ed energetici. L’aumento della popolazione e il conseguente aumento dei bisogni umani stanno determinando una veloce espansione del metabolismo sociale; ogni volta che scopriamo nuove “frontiere di materie prime”, il metabolismo sociale si allarga ancora un po’. Ma tutto questo ha un altissimo costo ambientale, il quale, rimanendo occulto agli occhi dei Paesi ricchi, viene pagato a caro prezzo dalle popolazioni dei Paesi poveri, e in particolar modo da coloro che non hanno potere, che non riescono a far sentire la propria voce. Da qui sorgono i conflitti ambientali: le popolazioni locali, gli indigeni, chi trae i propri mezzi di sussistenza direttamente dall’ambiente – questi gruppi lottano, spesso disperatamente, per la propria sopravvivenza, per la propria cultura, per la propria identità».

Secondo i dati riportati nell’Environmental Justice Atlas, un imponente database a libero accesso fondato e mantenuto in vita proprio da Martinez-Alier e dai suoi collaboratori, i casi di conflitti ambientali riportati in tutto il mondo sono 3692: «Almeno il 40% di questi coinvolge popolazioni indigene, le quali, pur vivendo a stretto contatto con gli ecosistemi che le ospitano, non vedono riconosciuto il loro diritto a gestire le terre dei loro avi, alle quali sono legate da un forte senso di appartenenza», precisa Martinez-Alier.

«Studiando questo genere di conflitti, ho potuto sperimentare quanto sia reale e tangibile l’incommensurabilità di valori riconosciuta e messa a sistema dall’economia ecologica. In ogni conflitto per l’ambiente e per le risorse sono in gioco valori completamente differenti gli uni dagli altri: un territorio, un ecosistema, un singolo elemento naturale possono racchiudere un valore ecologico, estetico, culturale, morale, persino religioso per alcuni, e un valore utilitaristico, espresso in termini monetari, per altri. Questi due approcci sono spesso irrimediabilmente distanti, e non possono essere armonizzati. Tale contrapposizione, inoltre, si realizza non solo su scala locale, ma anche a livello globale: come coniugare, ad esempio, il perseguimento di una continua crescita economica con i danni causati dall’imporsi del cambiamento climatico? In base a quali valori scegliere se dare la priorità – come è accaduto durante questa pandemia – all’economia o alla salute?».

Mentre vi è ancora chi guarda all’ambientalismo come un passatempo per ricchi annoiati, l’ecologia politica testimonia con forza quanto l’ambientalismo raccolga in sé prima di tutto istanze sociali e politiche. «È quanto mette in evidenza il cosiddetto ambientalismo dei poveri: le nuove frontiere di estrazione e sfruttamento di risorse e materie prime intersecano sempre più spesso le comunità locali, le popolazioni indigene, le terre di coloro che vivono di sussistenza».

Questo comporta che tali comunità si trovino ad abbracciare tesi ‘ambientaliste’ e di conservazione della natura non tanto per ideologia, quanto per necessità. La costruzione di una miniera, una diga, un grande impianto industriale o una piantagione intensiva è una minaccia non solo alla biodiversità del luogo, ma anche alla stessa sopravvivenza di quelle comunità che, pur essendo povere in termini economici, riescono a trarre di che vivere da un ecosistema in salute. Ecco che, di fronte a simili minacce, contadini e allevatori locali diventano attivisti: quel che difendono, insieme al mondo naturale che li circonda, è la loro identità, la loro gente, il loro stesso futuro.

Le rivendicazioni di questi ‘ambientalisti poveri’ – presenti soprattutto nel cosiddetto ‘Sud globale’, ma non solo – sono però in primo luogo sociali. Perché è intuitivamente evidente come tra rivendicazioni sociali e tutela ambientale non possa esservi alcuna distinzione, soprattutto laddove lo sfruttamento incontrollato delle risorse è causa al tempo stesso della distruzione dell’ambiente e della negazione dei diritti di interi popoli. Queste lotte dimostrano due cose: primo, che le posizioni e gli studi teorici portati avanti dall’economia ecologica hanno un grande valore pratico, in quanto si traducono in precise scelte politiche; secondo, che la giustizia (sia ambientale che sociale) è legata al potere, e che per ottenerla è necessaria l’azione collettiva. In altre parole, saranno i cittadini attivi e non i consumatori a portare avanti una transizione consapevole che concili le esigenze umane con quelle delle altre forme di vita entro i limiti biofisici.


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