SOCIETÀ

Ritorno al futuro. Umano e non umano: incommensurabilità di valori

Il mondo naturale, a lungo trascurato dal pensiero economico dominante, rientra sempre dalla finestra. Esso è, infatti, il contesto ineliminabile delle vicende umane; di più, è la cornice che rende le vicende umane – l’esistenza stessa della nostra specie e delle sue complesse strutture sociali – possibili.

Eppure, nel mondo riduzionista dell’economia neoclassica, non vi è spazio per tutto ciò che non è quantificabile tramite i prezzi, cioè per tutto quel che non si può facilmente ridurre a un numero o a qualche altra unità discreta e misurabile. La soluzione individuata dagli economisti per uscire da questa impasse è semplice: ignorare le differenze, agire come se ogni aspetto del reale fosse effettivamente concepibile come una merce il cui peso nelle scelte dipende solo dal suo prezzo, ossia dal valore di scambio. Fra le molte critiche che l’economia ecologica muove al modello economico dominante vi è proprio tale questione: l’aver ignorato l’incommensurabilità che separa irrimediabilmente entità di diversa natura, che in nessun modo possono essere equiparate in base a un’unità di misura monetaria comune.

Quel che avviene a livello pratico, quando si tratta di misure e compravendite, ha un corrispettivo anche nella dimensione teorica: dietro alla valutazione economica di una realtà – ad esempio, un ecosistema – vi sono infatti dei valori. Questi, a loro volta, non sono assoluti, ma dipendono dal soggetto che li attribuisce, e variano a seconda del contesto sociale nel quale il soggetto stesso si forma e della relazione che sussiste tra questi e le entità valutate. E anche i valori, così come gli oggetti o gli esseri viventi, possono essere tra loro incommensurabili.

La ‘natura’ non esiste

«Pensiamo al concetto di ‘natura’», spiega Barbara Muraca, filosofa, professoressa di Filosofia e Studi ambientali all’università dell’Oregon (USA). «Lo riteniamo un concetto descrittivo, oggettivo, libero da valori. E invece, se lo si analizza da vicino, ci si rende conto di quanta storia e quanti significati esso porti con sé. Il concetto di natura, infatti, è un’invenzione dell’Occidente moderno, e si inserisce in un orizzonte valoriale fortemente antropocentrico, che traccia una separazione tra ciò che è natura e ciò che non lo è – l’uomo. Se guardiamo ad altre culture, infatti, ci accorgiamo di come tale concetto non sia universale: in molte lingue, ad esempio, non esiste un termine corrispondente, poiché non esiste una natura oggettivata, separata dall’umano e definita come un’entità discreta».

Ancor più complesso e articolato è l’universo di valori che le diverse culture e sensibilità umane attribuiscono al mondo naturale. Anche in questo caso, se proviamo a distaccarci dalla visione del mondo tipica della cultura occidentale, ci rendiamo conto di come non solo i valori in sé, ma nemmeno il modo di articolarli siano universalmente condivisi. «Vi è una miriade di modi per esprimere ciò in cui crediamo, quel che ci sta a cuore, al di là del mezzo verbale. In molte culture, i valori che si attribuiscono alla ‘madre terra’, agli ecosistemi o alla natura sono espressi in forme non verbali, non descrittive, ma attraverso rituali e pratiche che è impossibile tradurre in parole. Tale complessità si tramuta in un livello ancor più alto di incommensurabilità: se per riconoscere queste diverse sensibilità abbiamo bisogno di tradurle in parole a noi note – ad esempio il linguaggio scientifico, o addirittura quello monocorde dell’economia – ne perdiamo inevitabilmente la ricchezza».

Il valore intrinseco o strumentale della natura: tertium datur?

Oggi, di fronte alla grave crisi ecologica innescata dalle azioni di una parte di umanità, il dibattito sul valore della natura è quanto mai aperto. Ancora una volta, tuttavia, il discorso è dominato da una prospettiva eurocentrica, nella quale prevale la dicotomia tra valore intrinseco e valore strumentale. Questa distinzione è fallace nella misura in cui non riesce a superare la visione della natura come qualcosa di separato dall’uomo: come spiega Muraca, infatti, «i filosofi che, a partire dagli anni ’70 dello scorso secolo, hanno sostenuto la teoria del valore intrinseco della natura hanno descritto tale valore come esistente per sé stesso, indipendentemente dalle relazioni che si instaurano tra i viventi (umani compresi) e che animano la natura stessa. Insomma, il fatto che la natura avesse valore intrinseco è stato considerato – paradossalmente – un dato di fatto, non correlato con il modo in cui le popolazioni locali e le comunità indigene vedono, esprimono e articolano tale valore in relazione alla propria esperienza, al proprio rapporto con la natura stessa».

D’altro canto, gran parte delle politiche ‘ambientali’ del mondo occidentale sono basate sull’attribuzione di un valore unicamente strumentale agli ecosistemi e, in generale alla biosfera. In altri termini, la natura è stata intesa solo come un mezzo per raggiungere i fini umani: e così è stata definita un asset, una risorsa; le è stato attribuito un valore finanziario; ne sono state divise le quote di fruizione; e così via, in un’ottica unicamente economicistica.

«Ma tale prospettiva utilitarista è molto lontana dal nostro modo usuale di interagire con il mondo non umano: ce ne siamo resi conto studiando cosa avviene sul campo, cioè nel mondo reale. È difficile, analizzando la realtà, sostenere che tutte le relazioni che intratteniamo siano strumentali: molte delle nostre relazioni interpersonali (ma anche interspecie) sono irriducibili a questo». Al contrario, non è infrequente che diversi valori si sovrappongano e si intreccino nella relazione tra viventi umani e non umani e mondo abiotico: «La dimensione intrinseca, strumentale e relazionale del valore che attribuiamo a quel che in Occidente è chiamato ‘natura’ sono strettamente interconnesse. Il nostro obiettivo, nel lavorare a contatto con culture, pratiche e tradizioni sottorappresentate, è dimostrare come tale ricchezza e la prospettiva utilitaristica dell’economia mainstream siano totalmente incommensurabili: non vi è modo, infatti, di ridurre tale pluralità sotto una metrica unitaria senza perderne una parte consistente. Inoltre, questa indebita traduzione porta con sé anche una profonda ingiustizia, nella misura in cui coloro che sono a diretto contatto con la natura non hanno modo di esprimere adeguatamente, secondo i loro linguaggi – verbali o meno –, la relazione, spesso carnale, che intrattengono con il proprio ambiente. Riconoscere l’incommensurabilità dei diversi attributi valoriali significa anche riconoscere dignità alle popolazioni che in essi si riconoscono, garantendo loro un’adeguata rappresentanza, facendo sì che la loro voce sia udita».

Un mondo di numeri

Riduzionismo e astrazione sono, secondo i critici, due dei ‘peccati capitali’ di cui l’economia neoclassica si macchia continuamente. «Georgescu-Roegen, ideatore della bioeconomia e tra i padri fondatori dell’economia ecologica, riteneva che l’economia mainstream avesse un approccio ‘aritmomorfico’ alla realtà – che, cioè, descrivesse gli oggetti del mondo secondo forme numeriche, matematiche, e dunque come entità discrete e separate», ricorda Muraca.

La matematica è uno strumento essenziale per comprendere il mondo, e si mostra di grande utilità in un gran numero di situazioni. «Tuttavia – prosegue la professoressa – si tratta di un’incredibile opera di astrazione. Infatti, racchiudere la complessità dei flussi e dei processi che caratterizzano tanto la biosfera quanto le società umane in unità discrete è pressoché impossibile; e, qualora riuscisse, causerebbe la perdita di gran parte di quella complessità. L’astrazione non è un male in sé, ma bisogna essere consapevoli che, considerando solo alcune delle variabili in gioco, qualcosa viene sempre perso: è importante essere consapevoli di questo compromesso, e chiedersi, di volta in volta, cosa riteniamo sacrificabile e cosa rischiamo di perdere».

Questo movimento astrattivo, dunque, è una delle caratteristiche fondamentali del modello economico oggi più diffuso. Ne è prova, ad esempio, il fatto che il mondo naturale, pur fondamentale per tutti i processi umani, non venga minimamente preso in considerazione nelle valutazioni economiche. Se l’unica unità di misura è l’utilità individuale, tutto quel che non è ad essa commensurabile viene semplicemente escluso, oppure – nel migliore dei casi – ridotto a un asset.

«In opposizione a questo scenario, l’economia ecologica – sottolinea Muraca – riporta la complessità e il valore di entità incommensurabili al centro del discorso. Un passo fondamentale è il riconoscimento della continuità e dell’interdipendenza che lega l’economia alla dimensione biologica: l’economia umana è, anzi, la prosecuzione dei processi biologici, e con essi condivide – secondo il punto di vista di Georgescu-Roegen – una natura teleologica, cioè auto-creativa, orientata verso un fine. Se riconosciamo agli altri abitanti della Terra questa tensione teleologica, necessariamente dobbiamo affrontare la spinosa questione di come coabitare con essi, con entità che partecipano della nostra stessa natura e che, forse, condividono (almeno in parte) i nostri stessi diritti».

Pluralità oltre i dualismi

La riflessione filosofica che sottende l’economia ecologica mette in luce la necessità di superare la visione dicotomica del reale, tanto cara al pensiero occidentale dell’epoca moderna. Incommensurabilità e pluralità suggeriscono come sia difficile sostenere che in natura – e dunque nell’economia, che dei sistemi ecologici è un sottoinsieme – vi siano entità discrete e autonome l’una dall’altra, come vorrebbe il principio dell’individualismo. «Questa nuova consapevolezza ci chiama in modo ineluttabile alla responsabilità. Prendendo a prestito il pensiero di alcune popolazioni indigene con le quali lavoro», afferma Muraca, «possiamo dire che si tratta di una responsabilità diffusa e integrale, di cui tutti i membri di una comunità – viventi e non viventi – sono attori, e non soltanto destinatari. In questo modo, la complessità della rete di relazioni che tengono insieme una comunità ecologica è non solo riconosciuta, ma esaltata».

Nel Novecento, soprattutto a partire dal periodo della Grande Accelerazione, l’economia neoclassica si è auto-elevata al rango di disciplina scientifica. «Ma – e questa è una posizione molto scomoda – l’economia nasce come una scienza sociale, e tale è ancora oggi. È una disciplina normativa, non descrittiva: il che significa che il suo modo di rappresentare il mondo non è oggettivo, non si limita ad annotare i fatti, ma offre una narrazione che si fonda su alcuni postulati ideologici, portando dunque ad una descrizione del reale che è ‘carica di teoria’. La nozione di utilità, così centrale nella teoria economica odierna e considerata un concetto assolutamente oggettivo, quasi un fatto naturale, viene teorizzata da Jeremy Bentham, un filosofo, che la riconosce come categoria morale. Da questo punto di vista l’utilitarismo classico – posizione che certamente non condivido, e che trovo problematica in più punti – è più ‘onesto’ rispetto alla teoria economica attuale, nella misura in cui si presenta come una posizione normativa, che indica quel che è giusto e quel che è sbagliato, e non come una descrizione oggettiva della realtà».

Ammettere che l’economia ‘standard’ non è una disciplina che descrive fedelmente la realtà, ma una vera e propria visione del mondo che, in quanto tale, porta con sé pregiudizi ed errori, è il primo passo – necessario e non più differibile – per dare nuova voce alla pluralità di prospettive che offrono un’alternativa, e che possono forse aiutarci a risalire la china del precipizio nel quale stiamo rapidamente scivolando.


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